«Non
credo di voler essere felice», lesse Marcello. «Confesso di non aver molta esperienza con la
felicità, eppure ho come la vaga sensazione che non sia fatta per me, o io per lei. La felicità dura un attimo, il tempo di rendersene conto ed è già finita, non sta, non è qualcosa che permane appena la si ha o ci si è; essere felici è come raggiungere la cima di una montagna: si pianta la bandierina
e poi, per forza, tocca scendere, si deve scendere, non si può rimanere in
cima vita natural durante, a fare che, l'unico modo sarebbe morirci su
in cima, morire felici, sigillare (d'oro, come la Bocchino) l'attimo
di felicità e buonanotte.
Dunque,
per quel che mi riguarda, non credo proprio di voler essere felice:
piuttosto vorrei essere predisposto alla felicità, scalarla e basta,
arrampicarmi sulla sua parete, starci appeso, vederla da sotto in su, faticare per
raggiungerla, ma mai, e dico mai, conquistarla.
Finora, nella mia vita, sono stato bene soltanto a salire, ad arrampicarmi, a stare sospeso, non dopo, con la sospirata conquista della vetta e poi, a seguire, l'inevitabile scendere. Anzi, appena fatto un passo in
discesa, subito sono stato assalito dalla malinconia, dalla
tristezza, da un malessere profondo, dalla depressione. Appunto. Non
vedevo l'ora di toccare il fondo per rivedere la felicità dal basso,
per capire che l'unico modo è salire, salire - e io salirò salirò
fino a quando a sarò, eccetera.
In
questo momento sono sereno, appeso a mezza costa, sospeso, forse soddisfatto,
come le anime del Purgatorio che patiscono felicemente l'attesa. Ogni
tanto passa una teleferica alla quale potrei chiedere un passaggio per far prima a
raggiungere l'obiettivo; ma io rinuncio, non serve a niente, inutile avere
fretta, meglio vivere nell'attesa di essere felice, che
rimpiangere una felicità che non c'è, non ci sarà mai più».
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