Mi dispiace, non posso scrivere nulla. L'idea di scrivere, di dire qualcosa sulla felicità mi blocca del tutto, per vari motivi. Un po' perché non saprei, a questo punto della mia vita, quello che mi ci vorrebbe veramente per essere felice. E un po' perché - scusatemi, ma devo essere sincera - sono talmente scaramantica che non posso proprio prefigurare la benché minima felicità, il mio cervello si rifiuta di farlo, per precauzione; infatti, sin da piccola, quando desideravo qualcosa, lamentavo che non sarebbe stato possibile in alcun modo averla, arrivavo persino a convincermi che non la desideravo affatto per non rimanere vittima di una probabile delusione. Nel corso degli anni, tale consuetudine si è talmente consolidata che ho affinato una tecnica che occlude alla sorgente lo sgorgare di qualsiasi prefigurazione di benessere futuro. Sto conchiusa nel presente, mi rivolgo soltanto al quotidiano, anche se in esso serpeggia inquietudine e sconforto, come adesso. È in questi frangenti che, pur non concedendo vie di fuga all'immaginazione, una vocina riesce a evadere, e mi fa dire cose che poi mi mordo la lingua, perché, subito dopo che le ho dette, mi rimbalzano indietro come auspici, come speranze, come allusioni a una realtà desiderabile che al presente non mi appartiene e dalla quale sono esclusa.
Prova ne sia quella battutina del cazzo. Ecco - lo confesso qui pubblicamente - essa dimostra in pieno, a me stessa se non altro, quanto io sia il mandante morale dell'avvelenamento di mio padre. Non era ironia la mia, né tantomeno sarcasmo: era un pio desiderio di liberarmi di lui.
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