«Devo
andare», mi disse con una punta d'incertezza che io colsi, per cui
non mi mossi, restai seduto, doveva alzarsi lei, tra l'altro dovevo
finire il mio caffè ristretto, lo lascio sempre raffreddare da
quella volta che mi scottai la lingua il giorno del nostro primo
appuntamento, il giorno del nostro primo bacio, che le detti,
appunto, con la lingua ustionata e fu più patire che godere, ma io
non glielo dissi mica, che pativo, questo è il punto, in quel
momento persino una spina su un fianco non avrei percepito, epperò
volevo dirglielo adesso che se ne stava andando, che mi lasciava così
su due piedi (non ho mai capito perché la gente si lasci su due
piedi e non su due mani, o altro, per esempio, cinque o sei dita, due
pollici, un orecchio da mercante e un occhio per occhio dente per
dente, se mi lasci, ti lascerò anch'io, che credi, la prossima volta
magari, appena me ne darai il tempo), senza preavviso, senza avermi
dato il tempo di mettermi la camicia di jeans, quella che trovava
sexy quando me la sbottonava, lentamente, e si metteva ad
giocherellare con quei pochi riccioli che ho sul petto, «Sai, lo
facevo spesso anche a mio padre», «Oddio», rispondevo «io non
posso ricordarti lui, mi vedi? sono toto coelo differente», «Per
questo mi piaci, per questo voglio stare con te, io ho ammazzato
Edipo da giovane, che credi», «E ti credo, certo che ti credo;
magari se però scendi con quella mano ti crederei di più», ecco, e
tu aumentavi il sorriso a dismisura, che diventava un sole, e io,
occhiali non avendo, per non abbagliarmi, chiudevo gli occhi,
eccetera.
Disse
ancora: «Devo andare», ma con maggiore esitazione, come se
aspettasse da me una preghiera per fermarla. Quindi ripose il
cellulare nella borsa, estrasse il portafogli, controllò l'importo
dello scontrino, vi pose sopra i soldi, mi guardò con aria incerta,
forse aspettando un saluto, una lacrima (o insulto e uno sputo?), si
levò dalla sedia, ma non completamente, come chinandosi per
controllare non le fosse caduto qualcosa ai piedi e, in quel momento,
posai la mia mano sul suo braccio e dissi: «Aspetta. Concedimi
ancora qualche minuto».
Non
riuscii a interpretare se nel suo sguardo vi fosse più
un'espressione contrariata o soddisfatta. Credetti alla seconda, per
predispormi a un discorso meno astioso, più tenero e melanconico,
che – speravo – avrebbe potuto instillare in lei un minimo di
ripensamento. Perché aveva scelto di stare con me, in fondo? Perché, beninteso,
là dove non ci sono rapporti di forza o di potere sono quasi sempre
le donne a scegliere. «Perché avevi un'aria interessante, parlavi
bene, ma soprattutto: sapevi ascoltare. Vedevo i tuoi occhi seguire i
miei occhi e non le labbra mentre sillabavano le parole della mia
storia. Tu – anche adesso, per dire – mi guardi negli occhi
mentre parlo e io, parlando, mi sono sentita, forse per la prima
volta, interamente ascoltata. Prima di te, soltanto la professoressa
d'italiano delle superiori mi aveva guardato così mentre parlavo, e
infatti: nonostante abbia fatto ragioneria, dopo mi sono iscritta a
lettere, grazie a lei».
«E, grazie a me, a che cosa ti iscriverai, adesso?»
«Non
fare lo scemo: dimmi che cosa dovevi dirmi».
«Vorrei
baciarti, un'ultima volta».
«Non posso»
«Non
puoi o non vuoi?»
«Non
posso: mi sono bruciata la lingua con quella cazzo di tisana».
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