Avevamo
da poco superato lo stretto di Hormuz quando Annalisa chiamò per
dirmi, tutta contenta, che era una bambina. Mi ero espressamente raccomandato con
lei di farmi sapere il sesso di nostro figlio, per
prepararmi, per pensare a come affrontare questo evento, giacché se
fosse stato maschio, credo che avrei dovuto premunirmi, chiamare un
medico specialista in traumi infantili, uno psicologo dell’età
involutiva, perché ciò è stata la mia infanzia: una involuzione,
un avvolgermi su me stesso fino a che non mi sono dispiegato per le
vie del mondo.
«Come
è carino tuo figlio, ma guarda come è carino, sembra una bambina»
ripetuto cento, mille, quarantadue volte al giorno da quelle stronze
di amiche e conoscenti di mia madre, addirittura le zie di Varese e
di Brescello, al telefono, la domenica mattina per salutare i
rispettivi fratelli, i mie genitori, «Come sta Luciano,
mandaci le foto, ma perché non lo porti a Milano a fare i provini
per la pubblicità». Stronze. Carino… bellino... un amore...
una sega.
Non
ero padrone di andare comprare un litro di latte che c’era sempre
qualche adulta a sorridermi e farmi una carezzina al capo o darmi un
pizzicotto sulla guancia. E i miei amici, a scuola e fuori al parco,
giù a prendermi in giro, a chiamarmi Luciana, o Lucilla, a farmi le
linguacce e io a maledirli prima, inutilmente, a fare finta di niente
e sopportare, una tortura.
Una
volta diedi persino uno schiaffo a uno più piccolo di me, perché
rideva quando i grandi mi sfottevano. I grandi, già, ci provai a
reagire con uno, ma prevedibilmente ebbe la meglio, mi spinse a terra
e dopo stetti peggio che mai.
Soffrivo
perché, sebbene – a sentita dire – di aspetto lo fossi, io non
mi sentivo affatto effemminato, non percepivo dove risiedesse tutta
la carineria che mi attribuivano, so soltanto che non mi portava bene
coi miei coetanei, e non mi fregava niente se mi teneva in auge coi
grandi: mi avessero fatto toccare i seni, le signore, o infilarmi
sotto le sottane, mi dicevo piuttosto consapevole dei miei desideri
anche da piccolo. Per la verità, una signora c’era che mi
stringeva a sé, forte al petto, ed era una delle poche volte che
sopportavo di buon grado tutte quelle smancerie.
Il
primo moto di ribellione che ebbi fu quel giorno in cui mia madre
decise di portarmi dal barbiere (anziché dalla sua amica
parrucchiera, ch’era in ferie), e gli dette anche le indicazioni
come farmi i capelli: ebbene, io ricordo che al barbiere dissi di
tagliarmeli di più, quasi a zero e di usare lo stesso rasoio che
usavano per la barba, sentire quel cr cr
di taglio strappo sui ciuffi
di capelli mi infondeva forza
e voglia di avere già vent’anni e di andare via. Che scenata gli
fece mia madre al povero Millimetro
che, impassibile, si accese un’esportazione senza filtro e si mise
a spazzare via i capelli dal pavimento.
[...]
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