Poi
un giorno, durante una breve vacanza a Sirmione – un cameriere dagli occhi lucidi ci aveva appena servito del luccio –, i suoi
crucci non furono più confortati dallo svolazzio dei balestrucci e
me lo disse, chiaro e quadrato come il tavolo del ristorante dove eravamo seduti: voleva sposarsi, ma più ancora: voleva un figlio,
subito.
Sua sorella, più giovane di cinque anni, era alla seconda gravidanza, la sua amica aspettava dei gemelli, e lei, lei che sino al
quel momento non aveva fatto della maternità un obiettivo, ecco,
adesso lo diventava, voleva un bambino, era il momento giusto,
trentasette anni, non poteva più aspettare, anche se prima non solo
non aveva aspettato, proprio non ci aveva pensato, ecco tutto, mentre adesso ci pensava, domandandomi, inoltre, perché io non avevo ancora chiesto
il trasferimento in ufficio, com’era previsto dal contratto, giacché, dopo
un tot di anni, l'azienda consentiva di far domanda e lavorare sulla terra ferma, alla
distribuzione di quello che finora avevo contribuito a trasportare via mare.
Un
figlio. Io non ci avevo mai pensato a un figlio. Anche
quando alcuni colleghi prendevano congedo per la nascita della prole e poi, dopo alcune settimane, rientravano in servizio entusiasti e coi cellulari zeppi di foto del neonato, ebbene, ciò non mi faceva alcun effetto, non sentivo scoccare alcun desiderio analogo – e non solo perché nessuno, tra i miei colleghi, era un punto di riferimento o modello. No. A meno di non essere folli, la nostra epoca non consente di idealizzare alcun individuo, casomai una situazione, uno status, un immaginario collettivo che imprime nelle nostre tavole di cera certe forme del desiderio piuttosto di altre. A parte questo, penso però che il vero motivo per cui non ero mai stato assalito dal pensiero della paternità è che quando ricordavo la mia infanzia pensavo al periodo più infelice della mia vita e l'ultima cosa che volevo era rivivere una medesima tristezza negli occhi di un altro bambino, soprattutto se fossero stati gli occhi di mio figlio.
Ma di questo racconterò un'altra volta, se ci sarà tempo (se ci sarà voglia).
Dopo cena, nella confortevole camera d'albergo, Annalisa era euforica e della sua decisione e per aver bevuto qualche qualche bicchiere di Lugana in più. Temevo il peggio. E infatti.
In quindici anni di fidanzamento era la seconda volta che prendeva l'iniziativa. La prima fu quando, dopo due anni, le dissi che non ero convinto di noi due, ch'era meglio prendersi una pausa. La secondo fu quella sera, quando sentii le sue mani scivolarmi addosso come acqua di lago: le dissi che avevo bisogno di una doccia.
4 commenti:
bellissimo cazzo.
vai avanti, ma intanto pensa anche a una postfazione in cui ci racconti come è nato il tuo interesse per la letteratura dell'orrore.
(anche se confessi che in realtà è autobiografia: resisterò alla delusione)
Le postfazioni mi hanno sempre messo in crisi. Comunque, non mancherò di informare l'io narrante.
Mi piace! Dritto e ironico, due cose che non stanno spesso insieme, soprattutto di questi tempi in cui uno su due si professa seguace dell'autoironia, che poi sarebbe come dire: me la faccio da me, così non mi faccio mai male...capisc'ammé!
Grazie Sabina, e benvenuta. Indicizzo subito il tuo blog tra i feed. E vado a leggerti.
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