«Come sempre la considerazione della propria morte lo rasserenava tanto quanto lo aveva turbato quella della morte degli altri; forse perché, stringi stringi, la sua morte era in primo luogo quella di tutto il mondo?».
Giuseppe Tomasi di
Lampedusa, Il Gattopardo, parte
VI.
Non
so esattamente a che punto sono, vorrei capirlo, ma è difficile. Mi
sembrava che, una volta detta una certa cosa, la vita si aprisse a un
nuovo buongiorno e, invece, buongiorno forse.
Faccio,
sostanzialmente, le stesse cose di sempre, con una menzogna in meno
che non necessariamente significa una verità in più.
Sopravvivo,
che è un vivere sotto, senza
– almeno spero – perdermi nel dostevskiano sottosuolo, nessuna
ambizione da principe o
da ufficiale, ovverosia non ho mai cercato d'essere
un essere che sia
aldisopra di quello che già sono,
presago, forse, che ogni forma di mondanità applaudita sia
riverbero più acceso dell'insignificanza, oscura ombra dell'eterno
che chiude tutti nel grande qui pro quo.
Maledett'a
me e alla fissazione di attenermi al monito adorniano: negare a se
stessi l'impressione di essere felici nel presente, una specie di gesto scaramantico dettato dalla paura di uscire fuori. Beh, questa volta, Adorno caro, date anche le particolari condizioni, oso trasgredire la tua formula dicendo che sì, a tratti, dato il fuori e il dentro, il dentro e il fuori (niente allusioni, please), mi sono accorto che la felicità è possibile viverla in diretta, senza gridarla ai quattro venti per disperderla nella vanagloria, ma per tenerla, tenerla, ecco, come si tiene in pugno la sabbia, stretta stretta ma che, granellino dopo granellino, scivola via, e tuttavia puoi subito raccogliere per ripetere l'esercizio, come una clessidra.
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