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Lavorate, lavorate proletari, per accrescere la ricchezza sociale e
le vostre miserie individuali, lavorate, lavorate; diventando più
poveri, avrete più ragioni per lavorare ed essere miserabili. Questa
è la legge inesorabile della produzione capitalista.
Dal
momento che, dando credito alle parole menzognere degli economisti, i
proletari si sono dati anima e corpo al vizio del lavoro, non fanno
che precipitare la società intera in quelle crisi industriali di
sovrapproduzione che sconvolgono l'organismo sociale. Allora, per
eccesso di merci e penuria di compratori, le fabbriche chiudono e la
fame sferza la popolazione operaia con la sua frusta dalle mille
code. I proletari, abbrutiti dal dogma del lavoro, non comprendendo
che il superlavoro che si sono inflitti nei periodi di pretesa
prosperità è la causa della loro miseria presente, invece di
correre ai granai […], invece di assediare i [grandi]
magazzini […]
Invece
di approfittare dei momenti di crisi per una distribuzione generale
dei prodotti e un benessere universale, gli operai, con i crampi
della fame, vanno a sbattere la testa contro i cancelli della
fabbrica. […]
Se
le crisi industriali seguono inevitabilmente ai periodi di
sovrapproduzione, come la notte al giorno, provocando la
disoccupazione forzata e la miseria più nera, portano anche
all'inesorabile bancarotta. Finché l'imprenditore ha del credito
allenta la briglia al furore del lavoro, si indebita e si indebita
ancora per procurare la materia prima agli operai. Continua a
produrre senza pensare che il mercato si satura e che, se le sue
merci non vengono vendute, le sue cambiali arriveranno alla scadenza.
Messo alle strette, va a implorare al [finanziere], gli si
getta ai piedi, gli offre il suo sangue, il suo onore […]
Ma
prima di arrivare a questa conclusione gli industriali percorrono il
mondo alla ricerca di sbocchi per le merci che si ammassano; spingono
il loro governo ad annettersi i vari Congo, a impadronirsi dei vari
Tonchino, ad abbattere a cannonate le muraglie della Cina per
smerciarvi i loro tessuti di cotone. Nei secoli scorsi era un duello
a morte tra Francia e Inghilterra per assicurarsi il privilegio
esclusivo di vendere in America e nelle Indie. Migliaia di uomini
giovani e vigorosi hanno arrossato i mari col loro sangue durante le
guerre coloniali dei secoli XV, XVI e XVII.
I
capitali abbondano come le merci. I finanzieri non sanno più dove
piazzarli; allora vanno [in altre] nazioni […] a erigere
fabbriche e importare la maledizione del lavoro. E questa
esportazione di capitali […] termina un bel giorno a causa di
complicazioni diplomatiche […]
Queste
miserie individuali e sociali, per grandi e innumerevoli che possano
essere, per eterne che possano sembrare, spariranno come le jene e
gli sciacalli all'avvicinarsi del leone quando il proletariato dirà:
“Io lo voglio”. Ma perché giunga alla coscienza della
propria forza è necessario che il proletariato si metta sotto i
piedi i pregiudizi della morale cristiana, economica,
libero-pensatrice; è necessario che ritorni ai suoi istinti
naturali, che proclami i Diritti dell'ozio, mille e mille volte più
sacri e nobili degli asfittici Diritti dell'uomo escogitati dagli
avvocati metafisici della rivoluzione borghese; che si costringa a
non lavorare più di tre ore al giorno, a non fare niente e a
bisbocciare per il resto del giorno e della notte. »
Paul Lafargue, Il
diritto all'ozio, (1880),
edizione Il Ponte, Firenze 2015, traduzione di Lanfranco Binni.
Ci
fosse un'alluvione di non lavoro
generalizzato
in tutti i continenti, è
probabile che molti umani darebbero un senso ai propri giramenti (di rotazione e di rivoluzione).
Qualcheduno si adombrerebbe di sicuro: gli Zarathustri, per esempio, i cosiddetti superòmini del cazzo, gli dèi di fatto, i prenditori di lavoro e spargitori di merda, tutti coloro i quali gozzovigliano facendo lavorare gli altri, per intendersi. Tutta gente tolemaica. Ghigliottinarla non avrebbe senso: basterebbe farla girare, girare, girare, come la Terra, appunto.
1 commento:
M'è sempre stato simpatico Lafargue...
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