«
Perché, nonostante la tendenza storica all’oligarchia, i
lavoratori sappiano sempre meno di esserlo, è forse possibile
arguire da varie osservazioni. Mentre, oggettivamente, il rapporto
dei proprietari e dei produttori all’apparato produttivo si
consolida e diventa sempre più rigido, la soggettiva appartenenza di
classe diventa sempre più fluttuante. Questo processo è favorito
dall’evoluzione economica stessa. La composizione organica del
capitale esige, come è stato spesso constatato, il controllo di
dirigenti tecnici piuttosto che quello dei proprietari. Questi erano,
per cosi dire, la controparte del lavoro vivo, mentre quelli
corrispondono alla quota delle macchine nel capitale.
Ma la quantificazione dei processi tecnici, la loro suddivisione in
minuscole operazioni, largamente indipendenti dalla cultura e
dall’esperienza, fa della competenza dei nuovi dirigenti - in larga
misura - una pura illusione, dietro la quale si nasconde il privilegio
dell’ammissione. Il fatto che lo sviluppo tecnico ha raggiunto una
fase che consentirebbe letteralmente a tutti di esercitare tutte le
funzioni, questo elemento potenzialmente socialista del progresso è
sottoposto, nel tardo industrialismo, a un travestimento ideologico.
L’accesso all’èlite sembra aperto ad ognuno. Si attende solo la
cooptazione. La qualifica consiste nell’affinità, dall’adesione
libidinosa al mestiere, attraverso un sano spirito tecnocratico, fino
ad un’allegra Realpolitik. Esperti, si, ma esperti solo del
controllo. Il fatto che tutti potrebbero diventarlo, non ha condotto
alla loro fine, ma alla possibilità - per ognuno - di essere chiamato.
Viene preferito chi si adatta meglio. Certo, gli eletti restano
un’infima minoranza, ma la possibilità strutturale basta a
mantenere con successo l’apparenza di una chance uguale nel sistema
che ha eliminato la libera concorrenza, che viveva proprio di
quell’apparenza. Il fatto che le forze tecniche consentirebbero lo
stato senza privilegi, è considerato tendenzialmente da tutti, anche
da quelli che sono in ombra, come un argomento a favore dei rapporti
sociali che ne impediscono l’avvento. In generale, la soggettiva
appartenenza di classe dimostra oggi una mobilità che fa dimenticare
la rigidezza dell’ordine economico: ciò che è rigido è sempre,
nello stesso tempo, ciò che si può spostare. Anche l’impotenza
del singolo a prevedere il proprio destino economico contribuisce a
questa consolante mobilità. Della caduta non decide l’inabilità,
ma una struttura gerarchica impenetrabile, in cui nessuno, forse
neppure le somme sommità, può sentirsi sicuro: uguaglianza sotto la
minaccia. Quando, nel film di successo dell’anno, l’eroico
capitano-pilota torna per farsi tormentare come drugstore
jerk da caricature di
piccoli borghesi, non soddisfa soltanto l’inconsapevole malignità
degli spettatori, ma li conferma nella coscienza che tutti gli uomini
sono veramente fratelli. L’estrema ingiustizia diventa la falsa
immagine della giustizia: la degradazione degli uomini il simbolo
della loro uguaglianza. Ma i sociologi si trovano di fronte alla
questione ferocemente comica: dov’è il proletariato?
»
T.W.
Adorno, Minima
moralia, (124.),
Einaudi editore, Torino 1954
Il brano sopra riportato è posto in diretta continuazio [continuazione]
Update, sabato 17 ottobre
Ieri sera ho lasciato a metà la frase suddetta: chiedo venia. Sono crollato dal sonno. L'artigianato bloggheristico non prevede caporali che ti alzino a forza le palpebre. Insomma: il brano di Adorno - come ha ben commentato sotto Lo Zittito - «parla di noi». I lavoratori - per esteso: i proletari - sanno sempre meno di esserlo. Quello che, secondo il curatore o il traduttore einaudiano dell'opera adorniana annotava alla parola “proletariato” - «È chiaro che l'Autore pensa soprattutto alla società americana» - vale per società globale tout court.
In seguito, se avrò voglia, in un post successivo cercherò di commentare il brano frase per frase.
Il brano sopra riportato è posto in diretta continuazio [continuazione]
Update, sabato 17 ottobre
Ieri sera ho lasciato a metà la frase suddetta: chiedo venia. Sono crollato dal sonno. L'artigianato bloggheristico non prevede caporali che ti alzino a forza le palpebre. Insomma: il brano di Adorno - come ha ben commentato sotto Lo Zittito - «parla di noi». I lavoratori - per esteso: i proletari - sanno sempre meno di esserlo. Quello che, secondo il curatore o il traduttore einaudiano dell'opera adorniana annotava alla parola “proletariato” - «È chiaro che l'Autore pensa soprattutto alla società americana» - vale per società globale tout court.
In seguito, se avrò voglia, in un post successivo cercherò di commentare il brano frase per frase.
3 commenti:
Importante brano che parla di noi, "le creature del Capitale": esseri raziocinanti che hanno assolutamente bisogno di dare senso alla propria oscura, oscuramente sentita, condizione e la legittimano sempre e a tutti i costi a partire dalla sua nascosta premessa: l'individuo sociale è solo un involucro che cela al proprio interno una oggettività sociale che gli è ostile in radice.
mannaggia a te! intendevo usare questo stesso brano per continuare la mia inchiesta sulla coscienza di classe
Grazie del tuo prezioso commento.
Riguardo allo scritto adorniano: beh, "copia e incolla" :-D
sorrisetti.. ;-)
Posta un commento