«
Non
camuffare nulla, non nascondere nulla, scrivere di quelle cose che
sono più vicine al nostro dolore, alla nostra felicità; scrivere
della mia goffaggine sessuale, delle agonie di Tantalo, della
profondità del mio scoraggiamento – mi sembra di intravederlo nei
miei sogni – della mia disperazione. Scrivere delle stupide agonie
dell'ansia, e quando terminano, di come si rinnova la nostra forza;
scrivere della nostra dolorosa ricerca di noi stessi, messa a
repentaglio da uno sconosciuto a un ufficio postale, da un volto
intravisto dietro il finestrino di un treno; scrivere dei continenti
e dei popoli dei nostri sogni, dell'amore e della morte, del bene e
del male, della fine del mondo. »
John
Cheever, Una specie di
solitudine. I diari. Feltrinelli,
Milano 2012, traduzione di Adelaide Cioni (pag. 190)
Inutile
ora ripresentare alla mente lo scambio di occhiate improvvise di due
sconosciuti, che avrebbero avuto potenzialmente qualcosa da dirsi e
che invece non si sono detti niente e, probabilmente nell'una e
sicuramente nell'altro, hanno fantasticato sulla possibilità del
perdurare degli sguardi dai quali sarebbe scaturito un sorriso e da
esso uno scambio di due o tre frasi minime, convenevoli, che ne dici
di un caffè rapido, hai tempo, ho tempo, due tempi, fuori piove e
appunto il caffè è necessario per rendere timidi questi sguardi
prima furtivi adesso un po' troppo esuberanti, la fantasia unita al
desiderio precipita gli eventi, non c'è più tempo, c'è la fatica,
resta soltanto l'ombra di un sorriso che si sfoca.
1 commento:
Ma quanto mi piace questo Massaro che traduce nel concreto (concreto? ;-)) il discorso più in generale di Cheever, che a scanso di equivoci mi piace altrettanto :-))
Posta un commento