«Un buon padre non esiste, è la norma; non si accusino gli uomini bensì il legame di paternità che è marcio. Fare figli, non c'è cosa migliore; averne, che cosa iniqua! Se fosse vissuto, mio padre si sarebbe steso lungo sopra di me e m'avrebbe schiacciato. Per fortuna è morto prematuramente; fra gli Enea che portano in spalla i loro Anchise, io passo da una riva all'altra, solo e detestando quei genitori invisibili che cavalcano i loro figli per tutta la vita; ho lasciato dietro di me un giovane morto che non ebbe il tempo d'essere mio padre e che potrebbe essere, oggi, mio figlio. Fu un male o un bene? Non lo so; ma sottoscrivo volentieri il verdetto di un eminente psicanalista: io non ho un Super-io».
Jean-Paul Sartre, Le parole, Il Saggiatore, Milano 1964 (pag. 17, traduzione di Luigi de Nardis)
Ci sono dei libri che da tempo riposano nella mia confusa mente, libri non letti dei quali conosci solo l'autore e il titolo, che stanno lì sospesi in attesa di una domenica fredda di dicembre, con manto nevoso annesso come sfondo panoramico che riflette del sole i primi rai – libri che ti svelano pensieri che eri lì per pensare, per immaginare (avresti voluto dire... vivere?), pensieri che affioravano la superficie della mente distratta... ci voleva un pescatore: Sartre, Le mots. Che libro potente... Mi dispiace per tutti i libri che meritano di essere incontrati come questo e il tempo, il tempo di una vita, non basta mai a permetterlo. Esiste una Babele di pensieri scritti, dappertutto sparsa, sdraiata sulla neve che si scioglie, assorbita lentamente dal terreno; una Babele che vela l'atmosfera di questo pianeta, buca l'ozono e lo medica, prigione e prateria sconfinata. A cosa serva, o se serva, questo incomprensibile pensare non lo so: però non mi tirate fuori “Dio” o altri capolinea surrettizi. Tirate fuori un sorriso, una comprensione, una carezza. La consapevolezza che l'unico modo, o meglio, il modo più corretto per onorare il pensiero è diventare individui senza catene di qualsiasi genere e tipo, soli – come soli nasciamo e respiriamo, perdere nel tempo della vita le foglie che ci identificano di volta in volta come figlio, poi come genitore, come un X qualsiasi che copre il ramo nudo che noi siamo – perdere le qualifiche (direbbe Musil) che ci legano a qualsivoglia ruolo e che velano lo nostra unicità.
Incamminiamoci nella morte (sono ancora in pigiama... mi sto toccando) sapendo che si muore come si nasce – cioè soli anche se circondati (i più fortunati) dagli onori e dagli affetti. Il coraggio della solitudine è sola coperta che ci scalda nell'immensa insignificanza dello spazio-tempo.
«Non basta morire: bisogna morire a tempo»: Berlusconi! [ibidem].
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