È vero: tirare il morto di qua o di là è cosa disdicevole, forse inutile, forse irrispettosa. Ma io credo che lo sia anche farlo parlare, il morto, mettergli in bocca parole che non si sa bene se davvero avrebbe pronunciato (non dico pensato) in vita, davanti a un microfono, davanti a un taccuino. Quindi lo si lasci in pace, il morto: se ne faccia pure la lettura che si vuole delle sue parole in vita, della sue opere, della sua espressività, senza però credere di essere detentori del suo pensiero. E questo vale sia per Conchita De Gregorio che per Facci e Ferrara, questi ultimi diametralmente opposti alla direttrice de L'Unità, ma come lei sicuri cosa Monicelli penserebbe e degli studenti che protestano e su coloro che dibattono sulle ragioni o sui torti dell'eutanasia. In fondo, egregio Facci, gli zainetti firmati non sarebbero stati nemmeno notati da Monicelli (ammesso e non concesso che gli studenti che protestano li abbiano... Io non li ho visti, voi?): il regista, invece, si sarebbe ricordato, appunto, di un suo vecchio film, I compagni, ove rappresentò, mi pare mirabilmente, quali sono gli esiti delle battaglie fra chi protesta e l'ordine costituito. Ossia, egli avrebbe sottolineato che, in fondo, le ragioni e i torti non sono così semplici da identificare; soprattutto che, nello scontro, in ispecie se violento, alla fine c'è sempre qualcuno che ci rimette, e restano lacrime e silenzio. La storia va osservata da diverse postazioni, egregio Facci, e la sua al momento è una postazione troppo parziale, troppo altra per assumersi il diritto di prendere la voce del morto e farla sua. Si guardi il film (vale più di cento interviste) e dopo (soltanto dopo) potrà riprovare a imitare la voce del regista.
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