È morto Vincenzo Consolo e mi dispiace. Ho qui davanti a me Retablo (Sellerio) del 1987, un libello formidabile, un attacco folgorante degno dell'incipit di Lolita.
«Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha ròso, il mio cervello s'è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d'opalina, e l'aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza del mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi. Rosa che punto m'ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore.Lia che m'ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio dell'inferno che credei divino, lima che sordamente mi corrose l'ossa, limaccia che m'invischiò nelle sue spire, lingua che m'attassò come angue che guizza dal pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell'alma mia, liquame nero, pece dov'affogai, ahi!, per mia dannazione».
È quando ci si imbatte in brani del genere che la letteratura prende quota e ci trasporta in un mondo particolare fatto di suoni che a ripeterli, come una preghiera, provocano suggestioni, silenzi, piccole beatitudini., profumi di parole che arrivano dalla costa. Una specie d'incanto, forse inutile, fola passeggera come un sorso di spremuta al mattino appena alzati con l'amaro in bocca. Consolo consola e diverte. Apre la mente e la dispone a ricevere facili consolazioni.
C'è un passaggio, più avanti nel libro, che mi piace riportare
«Ero rimasto là impalato, sopra la rena della spiaggia di Falcone, mentre la tartana carica di piantine compiva l'ultimo viaggio (l'alta rocca del Tindaro, col santuario in cima, si rifletteva capovolta dentro l'acqua) scivolando verso il veliero grande che avrebbe portato gli aranci e i limoni a Napoli, ad Amalfi, a Genova, a Marsiglia di Francia, quei teneri alberelli destinati ai nobili palagi, alle regge delle capitali. Prigionieri per sempre dentro vasi, dietro vetrate di verande, logge, passaggi, scaloni, serre, giardini d'inverno, curiosità e sollazzo per dame e cavalieri d'alto lignaggio. Impalato e accordato a seguire con lo sguardo l'arancio mio che se n'andava, lì sopra la prua della barca, distinguibile fra gli altri per una fettuccia rossa che avevo annodato al suo tronco gracile. Arancio mio, unico, raro, che io avevo creato, secondo la fantasia e l'amore mio e secondo l'arte che m'insegno mastro Scilipòti (ristoro e pace all'anima sua in qualsiasi regno di là ove si trovi*), gran maestro d'innesti del mio paese di vivai chiamato Mazzarrà: grembo, nutrice, madre d'ogni pianta d'agrume, limone o arancio, credo o lumia, bergamotto, mandarino o chinotto che si trovi in questa terra di Sicilia e oltre.»
* Il “regno di là” ove si trova Mastro Scilipòti è il Parlamento, luogo dov'egli pratica, più che l'arte degli innesti, quella dei protesti.
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