«Dato che sono unicamente questo corpo ormai putrefatto in un punto qualsiasi del tempo futuro, queste ossa che scrivono anacronisticamente, sento che quel corpo sta reclamando se stesso, reclamando alla propria coscienza quell'operazione grazie alla quale non sarebbe più putredine. Il corpo che io sono possiede la prescienza di uno stato nel quale negando se stesso in quanto tale, e negando al tempo stesso la correlazione oggettiva, fa sì che la coscienza di ciò dia adito ad uno stato fuori del corpo e fuori del mondo, cioè al vero accesso all'essere. Il mio corpo sarà, non il mio [...], non quell'io che nel [duemilaundici] è putredine del [duemilaottanta], il mio corpo sarà perché dietro la porta di luce (come dar nome a quell'istanza di certezza tutt'uno con il mio volto?) l'essere sarà altro che corpi e, che corpi e anima e, che io e l'altro, che ieri e domani. Tutto dipende da... (una frase cancellata).
Finale malinconico: un satori è istantaneo e risolve tutto. Però per arrivarci occorre percorrere a ritroso la storia esterna e quella interna. Trop tard pour moi. Crever en italien, voire en occidental, c'est tout ce qui me reste. Mon petit café-crème le matin, si agréable...».
Julio Cortázar, Rayuela, Buenos Aires 1966 (ed. it. Il gioco del mondo, Einaudi, Torino 1969, traduzione di Flaviarosa Nicoletti Rossini, pag. 339-340)
Iniziare l'anno con un caffè in mano (senza crème) e queste parole, questa brina sparsa per il prato che ora guardo sciogliersi nel breve tratto illuminato dai raggi di un pallido sole. È necessario camminare da soli, ora, ovunque. Pulirsi la mente impedendole di dirigersi verso cose che la tormentano, farla godere, anzi, per quel poco (tanto) che i neuroni possono componendo la nostra immaginazione. Attaccati a una natura che non sa perché è così, anche noi (che di natura siamo) smettiamola di cercare significati che la (e ci) oltrepassano. Ho letto, in un suo post sui resoconti annui, che Amara ha imparato, anno scorso, a squirtare. Vorrei poter riuscire a farlo anch'io adesso, mentre conto le colonne di questo cielo a pecorelle per fare una moltiplicazione di nuvole, masturbazioni mentali in cerca del numero di telefono giusto per chiamare gioia. Mi viene in mente un salmo (mi pare il 4) nella versione ceronettiana, che mormora:
La gioia che tu dài al mio cuore
è ben più di ogni mosto e di ogni granoche a loro portino le stagioni.
Quel tu è Yahveh, il dio immobile e inesistente. Piacerebbe scriverli anche a me, dei salmi, preghiere a vuoto, al vuoto, al vento, al caso, col favore d'una musa o d'un ordegno (trovate voi a chi ho rubato le preposizioni articolate). Yes, Yahveh, ti scriverò quest'anno, stanne certo, preghiere progressive, inutili lamentazioni per esistere.
Nessun commento:
Posta un commento