«Così
il
lavoro che l’operaio vende come valore d’uso
al capitale, rappresenta per l’operaio il suo
valore di scambio,
che egli vuol realizzare, ma che è già determinato prima dell’atto
di
questo scambio, gli è presupposto come condizione; ed è
determinato, al pari del valore di
qualsiasi altra merce, dalla
domanda e dalla offerta o, in generale [...]
dai costi di produzione, dalla quantità di lavoro
oggettivato
mediante la quale è stata prodotta la capacità di lavoro
dell’operaio e che
questa perciò riceve come equivalente valore
di scambio del lavoro, la cui realizzazione ha luogo nel processo di
scambio col capitalista, è perciò presupposto, predeterminato, e
subisce soltanto quella modificazione formale che ogni prezzo solo
idealmente posto riceve all’atto della sua realizzazione. Esso non
è determinato dal valore d’uso del lavoro.
Per l’operaio stesso
il lavoro ha un valore d’uso soltanto in quanto è valore di
scambio, non in quanto produce valori di scambio. Per il capitale
invece esso ha valore di scambio
solo in quanto ha valore d’uso.
Valore d’uso, in quanto distinto dal suo valore di scambio,
esso
lo è non per l’operaio, ma soltanto per il capitale. L’operaio
scambia dunque il lavoro
come semplice valore di scambio
predeterminato, determinato da un processo passato —
egli cioè
scambia il lavoro stesso come lavoro oggettivato ossia soltanto nella
misura in cui
esso già
oggettivizza una determinata quantità di lavoro, e quindi il suo
equivalente è già
fissato in una misura precisa, è già dato —;
il capitale lo riceve nello scambio come lavoro
vivo, come generale
capacità di produrre ricchezza, come attività che moltiplica la
ricchezza. Che l’operaio non possa dunque arricchirsi attraverso
questo scambio, è
evidente: come Esaù per un piatto di lenticchie
cedeva la sua primogenitura così egli cede
la sua forza creativa in
cambio della capacità di lavoro già fissata in una precisa misura.
Egli anzi è destinato a impoverirsi, come vedremo in seguito, in
quanto la forza creativa
del suo lavoro gli si stabilisce di fronte
come forza del capitale come potere estraneo. Egli
si priva del
lavoro come capacità di produrre ricchezza; il capitale se
l’appropria come tale.
La separazione tra lavoro e proprietà del
prodotto del lavoro, tra lavoro e ricchezza, è perciò
posta già in questo atto dello scambio. Ciò che sembra
paradossalmente un risultato, è già implicito nel presupposto
stesso. Gli economisti hanno espresso tutto ciò in
maniera più o
meno empirica. Di fronte all’operaio dunque la produttività del
suo lavoro
diventa un potere altrui, e in generale lo diventa il suo
lavoro, nella misura in cui non è
capacità lavorativa, bensì
movimento, lavoro effettivo; il capitale viceversa si valorizza
attraverso l’appropriazione di lavoro altrui. (O per lo meno, il
risultato dello scambio tra
lavoro e capitale è che è posta la
possibilità della valorizzazione. La realizzazione del
rapporto
avviene soltanto nell’atto di produzione stesso, dove il capitale
consuma
effettivamente il lavoro altrui). Come per lui il lavoro in
quanto valore di scambio
presupposto viene scambiato con un
equivalente in denaro, così questo denaro viene
scambiato a sua
volta con un equivalente in merce, che viene consumata. In questo
processo di scambio il lavoro non è produttivo; esso diventa
produttivo soltanto per il
capitale; dalla circolazione il lavoro
può detrarre soltanto quanto vi ha immesso, ossia una predeterminata
quantità di merce, che non è un suo proprio prodotto più di quanto
non sia
un suo valore. Gli operai, dice Sismondi, scambiano il loro
lavoro con frumento, ma mentre
essi consumano il frumento, il lavoro
«è diventato capitale per il loro padrone» (Sismondi,
VI)40.
«Dando in cambio il loro lavoro, gli operai lo trasformano in
capitale» (id. VIII)41.
L’operaio, vendendo il suo lavoro,
ottiene un diritto soltanto sul prezzo del lavoro, non sul
prodotto
di questo lavoro, né sul valore che il lavoro gli ha aggiunto
(Cherbuliez, XXVIII)42.
«Vendita del lavoro = rinuncia a tutti i
frutti del lavoro» (l. c.)43. Tutti i progressi della civiltà
dunque, o in altre parole ogni incremento delle forze produttive
sociali, se si vuole, delle
forze produttive del lavoro stesso —
quali risultano dalla scienza, dalle scoperte, dalla divisione e
combinazione del lavoro, dal miglioramento dei mezzi di
comunicazione, dalla
creazione del mercato mondiale, dalle macchine
— arricchiscono non l’operaio, ma il
capitale; non fanno altro
che ingigantire il dominio sul lavoro; incrementano soltanto la
produttività del capitale.»
Karl Marx, Grundrisse, Quaderno III, Il capitolo del capitale. pag. 257-258 edizione Einaudi.
2 commenti:
La coscienza che l'operaio può avere di se stesso senza morire d'ulcera o d'infarto, è quella bisbigliata all'orecchio dalle sue condizioni oggettive - in persona: dal suo datore di lavoro, dal suo datore di casa, dalla sua datrice di sesso e di figli, dal suo datore di trasmissioni televisive e così via dal sistema ideologico dominante. Non è certamente un rapporto matematico quello tra vita "reale" e coscienza, per cui, volendo allargare la sua coscienza, l'operaio - il lavoratore, il soggetto - avverte probabilmente ansia, dispiacere, dolore, allarme: quella che in psicoanalisi si attribuisce alle "resistenze" alla conoscenza di come stanno le cose "realmente" nella sua vita, cioè le "difese" cognitive tra cui primeggiano annullamento e negazione: le cose non sono, e, se proprio sono costretto a vederle, non sono come sono, sono altro - i modi per rendere inoffensiva a livello soggettivo un'analisi come quella di Marx sono numerosi e assai efficaci. Lo sappiamo, che non c'è peggior sordo di quello che non vuol sentire. Cosa dovremmo aspettarci? Che la lotta ideologica finisca a favore del marxismo? Quando e là dove è almeno in parte accaduto, i risultati sono stati quelli che sono stati. Marx non va certamente dimenticato né sottovalutato. Le sue analisi vedono e descrivono certamente realtà esistente così come esiste: fanno parte del sapere umano. Nel mio percorso intellettuale sono però arrivato ad un ma: ma, mettono da parte la complessità della dimensione psichica soggettiva della realtà che analizzano - la "perla" di cui scrive nei Manoscritti non la ha persa, ma la ha chiusa in qualche cassetto per dedicarsi ad altro, e nel dedicarsi ad altro le formule che usa ("Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza.") ne hanno perso la luce, la complessità, il potere originante oltre originato.
Innanzitutto, permettimi di dire: sei in una splendida forma, Romeo.
Di poi, per quel che vale: comprendo (almeno spero!) il tuo "ma", ma - a mio avviso - «la complessità della dimensione psichica», che indubitabilmente esiste e si diversifica in ciascuno di noi, è ingabbiata dall'essere sociale, a partire dal mero dato della sussistenza che, ad esempio, in molti la comprime.
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