sabato 21 giugno 2014

Per un piatto di lenticchie


«Così il lavoro che l’operaio vende come valore d’uso al capitale, rappresenta per l’operaio il suo valore di scambio, che egli vuol realizzare, ma che è già determinato prima dell’atto di questo scambio, gli è presupposto come condizione; ed è determinato, al pari del valore di qualsiasi altra merce, dalla domanda e dalla offerta o, in generale [...] dai costi di produzione, dalla quantità di lavoro oggettivato mediante la quale è stata prodotta la capacità di lavoro dell’operaio e che questa perciò riceve come equivalente valore di scambio del lavoro, la cui realizzazione ha luogo nel processo di scambio col capitalista, è perciò presupposto, predeterminato, e subisce soltanto quella modificazione formale che ogni prezzo solo idealmente posto riceve all’atto della sua realizzazione. Esso non è determinato dal valore d’uso del lavoro. Per l’operaio stesso il lavoro ha un valore d’uso soltanto in quanto è valore di scambio, non in quanto produce valori di scambio. Per il capitale invece esso ha valore di scambio solo in quanto ha valore d’uso. Valore d’uso, in quanto distinto dal suo valore di scambio, esso lo è non per l’operaio, ma soltanto per il capitale. L’operaio scambia dunque il lavoro come semplice valore di scambio predeterminato, determinato da un processo passato — egli cioè scambia il lavoro stesso come lavoro oggettivato ossia soltanto nella misura in cui esso già oggettivizza una determinata quantità di lavoro, e quindi il suo equivalente è già fissato in una misura precisa, è già dato —; il capitale lo riceve nello scambio come lavoro vivo, come generale capacità di produrre ricchezza, come attività che moltiplica la ricchezza. Che l’operaio non possa dunque arricchirsi attraverso questo scambio, è evidente: come Esaù per un piatto di lenticchie cedeva la sua primogenitura così egli cede la sua forza creativa in cambio della capacità di lavoro già fissata in una precisa misura. Egli anzi è destinato a impoverirsi, come vedremo in seguito, in quanto la forza creativa del suo lavoro gli si stabilisce di fronte come forza del capitale come potere estraneo. Egli si priva del lavoro come capacità di produrre ricchezza; il capitale se l’appropria come tale. La separazione tra lavoro e proprietà del prodotto del lavoro, tra lavoro e ricchezza, è perciò posta già in questo atto dello scambio. Ciò che sembra paradossalmente un risultato, è già implicito nel presupposto stesso. Gli economisti hanno espresso tutto ciò in maniera più o meno empirica. Di fronte all’operaio dunque la produttività del suo lavoro diventa un potere altrui, e in generale lo diventa il suo lavoro, nella misura in cui non è capacità lavorativa, bensì movimento, lavoro effettivo; il capitale viceversa si valorizza attraverso l’appropriazione di lavoro altrui. (O per lo meno, il risultato dello scambio tra lavoro e capitale è che è posta la possibilità della valorizzazione. La realizzazione del rapporto avviene soltanto nell’atto di produzione stesso, dove il capitale consuma effettivamente il lavoro altrui). Come per lui il lavoro in quanto valore di scambio presupposto viene scambiato con un equivalente in denaro, così questo denaro viene scambiato a sua volta con un equivalente in merce, che viene consumata. In questo processo di scambio il lavoro non è produttivo; esso diventa produttivo soltanto per il capitale; dalla circolazione il lavoro può detrarre soltanto quanto vi ha immesso, ossia una predeterminata quantità di merce, che non è un suo proprio prodotto più di quanto non sia un suo valore. Gli operai, dice Sismondi, scambiano il loro lavoro con frumento, ma mentre essi consumano il frumento, il lavoro «è diventato capitale per il loro padrone» (Sismondi, VI)40. «Dando in cambio il loro lavoro, gli operai lo trasformano in capitale» (id. VIII)41. L’operaio, vendendo il suo lavoro, ottiene un diritto soltanto sul prezzo del lavoro, non sul prodotto di questo lavoro, né sul valore che il lavoro gli ha aggiunto (Cherbuliez, XXVIII)42. «Vendita del lavoro = rinuncia a tutti i frutti del lavoro» (l. c.)43. Tutti i progressi della civiltà dunque, o in altre parole ogni incremento delle forze produttive sociali, se si vuole, delle forze produttive del lavoro stesso — quali risultano dalla scienza, dalle scoperte, dalla divisione e combinazione del lavoro, dal miglioramento dei mezzi di comunicazione, dalla creazione del mercato mondiale, dalle macchine — arricchiscono non l’operaio, ma il capitale; non fanno altro che ingigantire il dominio sul lavoro; incrementano soltanto la produttività del capitale.»

Karl Marx, Grundrisse, Quaderno III, Il capitolo del capitale. pag. 257-258 edizione Einaudi. 

2 commenti:

Romeo ha detto...


La coscienza che l'operaio può avere di se stesso senza morire d'ulcera o d'infarto, è quella bisbigliata all'orecchio dalle sue condizioni oggettive - in persona: dal suo datore di lavoro, dal suo datore di casa, dalla sua datrice di sesso e di figli, dal suo datore di trasmissioni televisive e così via dal sistema ideologico dominante. Non è certamente un rapporto matematico quello tra vita "reale" e coscienza, per cui, volendo allargare la sua coscienza, l'operaio - il lavoratore, il soggetto - avverte probabilmente ansia, dispiacere, dolore, allarme: quella che in psicoanalisi si attribuisce alle "resistenze" alla conoscenza di come stanno le cose "realmente" nella sua vita, cioè le "difese" cognitive tra cui primeggiano annullamento e negazione: le cose non sono, e, se proprio sono costretto a vederle, non sono come sono, sono altro - i modi per rendere inoffensiva a livello soggettivo un'analisi come quella di Marx sono numerosi e assai efficaci. Lo sappiamo, che non c'è peggior sordo di quello che non vuol sentire. Cosa dovremmo aspettarci? Che la lotta ideologica finisca a favore del marxismo? Quando e là dove è almeno in parte accaduto, i risultati sono stati quelli che sono stati. Marx non va certamente dimenticato né sottovalutato. Le sue analisi vedono e descrivono certamente realtà esistente così come esiste: fanno parte del sapere umano. Nel mio percorso intellettuale sono però arrivato ad un ma: ma, mettono da parte la complessità della dimensione psichica soggettiva della realtà che analizzano - la "perla" di cui scrive nei Manoscritti non la ha persa, ma la ha chiusa in qualche cassetto per dedicarsi ad altro, e nel dedicarsi ad altro le formule che usa ("Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza.") ne hanno perso la luce, la complessità, il potere originante oltre originato.

Luca Massaro ha detto...

Innanzitutto, permettimi di dire: sei in una splendida forma, Romeo.

Di poi, per quel che vale: comprendo (almeno spero!) il tuo "ma", ma - a mio avviso - «la complessità della dimensione psichica», che indubitabilmente esiste e si diversifica in ciascuno di noi, è ingabbiata dall'essere sociale, a partire dal mero dato della sussistenza che, ad esempio, in molti la comprime.