«Per riabilitare l'escatologia e la teologia, la strada migliore è quella di demolire l'umanesimo, la pretesa cioè di costruire la storia secondo dimensioni umane e di costruirla secondo un ritmo progressivo e ascendente. Ma l'uomo dell'esistenzialismo è l'uomo a cui danno ragione il dolore e la violenza, il tragico e l'assurdo; è l'uomo non sollecito di una felicità e di un benessere terrestri, l'uomo non euclideo, direbbe Dostoevskij». Remo Cantoni, “Uomo e sottosuolo”, Il Politecnico n. 35, gennaio-marzo 1947
Facciamo i conti con quest'uomo. Soprattutto: stiamogli accanto, sorvegliamolo, ché non si butti facilmente tra le braccia di fedi che, all'apparenza, gli garantiscono una pseudo consolazione chiavi in mano: due preghiere, due candele, un battesimo, una comunità con la quale privarsi della propria identità e riconoscersi solo nel gloria a Dio nell'alto dei Cieli.
Le dimensioni umane della storia vedono sì un'evoluzione, un'indubbia crescita, uno stare meglio collettivo rispetto ai tanti secoli vissuti sotto schiavitù, freddo e miseria. Ma qui si parla d'altro, naturalmente. Qui si chiede conto, oltre che del corpo, di quello che in molti credono ancora separato da esso, lo spirito.
Non vendetelo, lo spirito, ovvero quella parte di corpo deputata al ragionamento, alle credenze, all'emozione, al sentimento. Tenetela ben stretta, dacché l'illusione della gioia che ci aspetta al dopo morte è qualcosa che non ci riguarda, che non riguarda la vita ora perlomeno. Lo so che il sorriso da tenere a mezze labbra è sempre preferibile al ghigno del misantropo. Ma per essere filantropi, appunto, occorre sempre dire le cose come stanno, e che la vita ha grande percentuale di dolore, di violenza, di tragico e di assurdo. E addebitare queste cose a un immaginario piano divino moltiplica il non senso per se stesso, con il risultato di «demolire l'umanesimo, la pretesa cioè di costruire la storia secondo dimensioni umane». Ma non pretesa tentare di rendere tutto più umano, e di estendere questo concetto non solo all'umanità, ma a tutte le forme di vita, ovvero a tutti coloro che in qualche modo nascono, vivono, si riproducono e muoiono - come bestie. La morte, questa presenza che riguarda tutto quello che ha a che fare con la vita, non deve essere espulsa dalla vita in un sopramondo riservato ai concetti immaginari della teologia. La morte deve restare in campo, come concetto, pensiero permanente, sì da poter trarre dalla vita tutto il suo più splendido succo - e condividerlo, con altri morenti. Questo è l'unico, possibile banchetto degli dèi, l'unica ambrosia.
E a te amica che mi stai accanto in certi giorni in cui la tristezza non vuol proprio passare, sappi che stai compiendo un gesto che nessun Dio può compiere: quello dell'abbraccio, quello di asciugare alcune lacrime inopportune che la luce fioca del cielo ha provocato.
Ricorderò il tuo volto, garanzia dell'eterno.
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