«Il destino di Narciso è dunque, per Rilke, il destino dell'uomo che rifiuta i limiti della propria condizione, che si perde nel tentativo di raggiungere la forma di esistenza concessa solo all'angelo. O, detto altrimenti, gli angeli sono per Rilke nature alle quali , in quanto «opera prima felice» e «beniamini […] del creato», è concessa la forma d'esistenza che l'uomo, al quale è totalmente contrapposta, brama nell'intimo. Così l'immagine di Narciso, che si perde nell'anelito di superare i limiti dell'esistenza umana, non rimanda soltanto alla perfezione degli angeli, ma anche all'imperfezione dell'uomo. E il passo della seconda elegia, tra la seconda e la terza strofa, in cui l'angelo non viene nominato, è il punto in cui si realizza il ribaltamento dell'inno agli angeli nel lamento sulla condizione umana.
Poiché noi sentendo svaniamo; ah, noi
esaliamo fino ad estinguerci; un legno che di ardore
in ardore dà sempre più tenue profumo. Uno dice:
sì, tu mi sei dentro nel sangue, questa stanza, la primavera
è ricolma di te... A che giova, non ci può trattenere,
in lui, intorno a lui dileguiamo. E quanti son belli,
o, chi li può trattenere? Senza posa sorge sembianza
sul viso loro e dispare. Come rugiada dalla tenera erba
ciò che è nostro svapora da noi, come il calore da una
calda vivanda. O sorriso, ove tendi? O sguardo:
nuova, calda onda che sfugge dal cuore –;
ahimè: eppure questo lo siamo. L'universo in cui dilaghiamo,
dissolti, ha forse sapore di noi? Afferrano gli angeli
solo del proprio che da loro promana
o talora, per una svista quasi, vi s'insinua un poco
dell'essere nostro? Siamo forse nei tratti loro
frammisti quanto il vago nei visi
di gravide donne? Non lo notano, nel turbine
del loro ritorno a se stessi. (E come notarlo.)
Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi, (Seconda elegia, vv 18-36. Traduzione Anna Lucia Giavotto Künkler per Einaudi editore)
[…] Quando l'uomo sente, quando si apre al sentire, svanisce. Non diventa più ricco, ma si dissipa, si esaurisce. E questo non accade soltanto in quel particolare dischiudersi del proprio essere. Già il respiro è un esalare. Ciò che dall'uomo effluisce, non torna mai più a lui. In tal modo si indebolisce sempre più l'intensità della sua esistenza, come se egli fosse un focolare che non conosce il vero fuoco, ma soltanto la brace, e che anche così, di ardore in ardore, diventa sempre più flebile, esala un sempre più tenue profumo.»
Peter Szondi, Le «Elegie duinesi» di Rilke, SE, Milano 1997 (ed. originale, Frankfurt Am Main 1975, traduzione di Elena Agazzi).
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