sabato 15 dicembre 2012

Editori mendicanti

Saul Bellow, Il dicembre del professor Corde, Rizzoli, Milano 1982, traduzione di Pier Francesco Paolini
Dal prossimo gennaio non sarà più consultabile, liberamente e gratuitamente, la rassegna stampa del Senato e della Camera della Repubblica. Il Parlamento, infatti, su pressione della Federazione degli editori (Fieg), interrompe questo servizio e
la pubblicazione degli articoli [sarà] esclusivamente sulla rete interna per le esigenze informative dei parlamentari e di altre categorie di soggetti istituzionali a ciò autorizzate. 
Ora, a parte che, come scrive Régis Debray in un suo recente libello
«Le politique est le seul bipède sans plumes, avec le journaliste, son frère ennemi, à devoir lire chaque jour tous les journaux, hebdos et magazines de son pays».
non si capisce come i rappresentanti del popolo abbiano ceduto alla pressione degli editori, in quanto i parlamentari stessi, perlomeno sino al 2014, hanno convertito in legge il nuovo modello di finanziamento pubblico ai giornali - finanziamento che, come dice la parola stessa, vorrebbe che al pubblico (al popolo) tornasse indietro almeno una minima parte di quanto esso paga con le tasse. 
Leggiamo gli attuali termini di legge sul sostegno all'editoria  (testo trovato qui, pag. 10): 

In tempi recentissimi, il decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201, recante disposizioni urgenti per la crescita, l'equità e il consolidamento dei conti pubblici 33, ha stabilito all’art. 29 comma 3 la completa cessazione alla data del 31 dicembre 2014, con riferimento alla gestione 2013, del sistema di contribuzione diretta alle imprese editrici previsto dalla legge n. 250/1990 [...]
Per l’anno 2013, in attesa di una ridefinizione complessiva delle forme di sostegno all’editoria, al fine di parametrare l’entità del contributo agli effettivi livelli di vendita e di occupazione professionale, il decreto legge (art. 1 comma 2) ha stabilito che le imprese editrici menzionate nell’art. 2 della legge 250/1990, ad esclusione di quelle che editano quotidiani italiani diffusi all’estero e di quelle costituite in forma di cooperativa che editano giornali organi di forze politiche, potranno ottenere il contributo solo a condizione che almeno il trenta per cento (per le testate nazionali) o il trentacinque per cento (per le testate locali) delle copie distribuite siano effettivamente vendute. Però, in sede di conversione in legge del decreto, la percentuale di vendita richiesta alle testate nazionali è scesa dal trenta al venti per cento. Inoltre, se il decreto legge considerava nazionali le testate diffuse in almeno cinque regioni, con la legge di conversione le regioni di riferimento sono divenute solo tre. In questo modo, si consente ad un numero maggiore di testate di qualificarsi come nazionali e quindi di beneficiare di un meccanismo di calcolo dei contributi che prende come riferimento una percentuale di vendita effettiva delle copie più bassa.

Ordunque, un giornale potrà usufruire del finanziamento pubblico se, per esempio, di 1000 copie che distribuisce, riesce a venderne 200. 
È evidente che gli editori ritengono che, per raggiungere tale misero obiettivo del 20%, sia necessario e sufficiente impedire l'accesso al pubblico della rassegna di articoli rilevanti che gli addetti stampa del parlamento preparano per i deputati e i senatori. Altro che vedersi riconosciuto il diritto d'autore. 
Giulio Anselmi, in perfetto stile demitiano, la dà a bere a sua sorella:
"L'interruzione della pubblicazione sui rispettivi siti internet degli articoli di giornali e l'impegno assunto da ambedue le Istituzioni di verificare la effettiva titolarità, in capo alle società ed agenzie di rassegne stampa, dei diritti di riproduzione e di utilizzazione economica dei prodotti editoriali da esse forniti - sottolinea il presidente Giulio Anselmi - rappresentano un importante riconoscimento delle legittime richieste degli editori in materia di diritto d'autore". L'auspicio, aggiunge, "è che il percorso di legalità promosso dagli editori italiani, in conformità anche alle indicazioni che emergono dal recente dibattito europeo, possa proseguire con la condivisione di tutti i soggetti, pubblici e privati, coinvolti nell'utilizzo delle rassegne stampa".
Le vendite dei giornali sono in declino in tutto il mondo e Anselmi fa un discorso del cazzo accennando al fatto che gli internauti che leggono gli articoli a sbafo in rete commettano un quasi reato, e che Google è un mostro perché indicizza (qualcuno ha scritto persino "ruba") le notizie (ma dove?).
L'Innominato, del quale non voglio certo fare l'avvocato, fa questa roba

Mi si dice dove sfrutta i giornali Google per favore?
La pubblicità, se c'è, è vedere sulla sinistra, tra le notizie, la voce Nokia lumia e Iphone 5. Urca.
Guardiamo invece oggi come Repubblica e il Corriere on line hanno provato a vendere un orologio:



Le vendite dei giornali sono in declino, non ci sta niente da fare. Non solo: se continuano con questi banner invasivi del cazzo, che stravolgono e disturbano impaginazione e lettura, vedranno quante visite in meno riceveranno le loro homepage.
(A proposito: sarei curioso che qualcuno facesse un'indagine di mercato per stabilire quanti Rolex in più hanno venduto gli orologiai d'Italia dopo tale pubblicità).

A parte.
Per quanto mi riguarda, non sono contrario a prescindere al finanziamento pubblico dell'editoria, perché come la stessa Corte Costituzionale ha avuto modo di dichiarare, la stampa è da considerarsi
«mezzo di diffusione tradizionale e tuttora insostituibile ai fini dell'informazione dei cittadini e quindi della formazione di una pubblica opinione avvertita e consapevole». In un regime di libera democrazia – proseguiva la Corte nella medesima sentenza – l’interesse generale all’informazione «implica pluralità di fonti di informazione, libero accesso alle medesime, assenza di ingiustificati ostacoli legali, anche temporanei, alla circolazione delle notizie e delle idee».
Benissimo, però se per mantenere aperte testate nazionali o regionali si alambiccano provvedimenti legislativi come quelli sopra riportati, non mi sembra professionalmente decoroso: roba da mendicanti, insomma.

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