Mi era sfuggito, ma martedì scorso, sulle pagine culturali di Repubblica, Alberto Asor Rosa, profittando di una recensione al libro di Filippo Strumia, Pozzanghere, Einaudi, fa un certo discorso sulla poesia in generale che mi trova in molti punti concorde.
Ma cosa resta del libro recensito, a parte il fatto di essere segnalato da una così importante "autorità" in campo letterario?
Leggiamo questo passaggio:
Quando leggo versi come: «... migrano le rondini nei cieli di perla, / migrano le notti e le albe, / migrano gli indefinibili volti /dei nostri atomi senza profumo», io non mi chiedo che fortuna avranno questi versi, mi chiedo se nell' infinito (mostruoso?) universo attuale della comunicazione, essi segnano un punto fermo per attaccarmici: per sapere che io ci sono, perché un altro c' è. Pare a me che, allo stato attuale delle cose, non si possa né chiedere né proporre ai poeti più di questo.
Asor Rosa afferma qui, implicitamente, che tali versi, pur validi che siano, non importa quanto saranno condivisi, ovvero se entreranno a far parte dell'immaginario popolare come patrimonio linguistico comune. No, la poesia diventa un fatto, una comunicazione meramente "privata" tra uno scrivente e un leggente, un "io" e un "tu" che cancellano il loro anonimato facendosi i complimenti da soli.
«Belli questi versi, Filippo».
«Grazie professore, è un onore per me. Troppo buono».
«No, no. Davvero sono versi importanti. Io infatti mi ci attacco volentieri».
«Pur con tutta la stima che nutro nei suoi confronti, avrei preferito che ad attaccarsi a tali versi fosse stata una lettrice».
Infine, da notare come, pur citando Paolo Di Stefano che ha iniziato la riflessione estiva sulla poesia, Asor Rosa eviti di nominare il suo acerrimo "nemico", Berardinelli (anche quest'ultimo ha scritto un recente articolo sulla poesia pubblicato dal Corsera di cui ho parlato qualche giorno fa).
Si fanno i dispettucci, come le bertucce tra una cattedra e una lavagna.
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