A Christian Rocca (non lo linko, ma linko il Pazzo che lo linka) sembra di avere gioco facile nel riportare alla luce certe dichiarazioni di Scalfari risalenti all'epoca dei fatti della battaglia di Segrate. È vero, Scalfari scriveva tali parole, ma Rocca fa finta di non ricordare che, all'epoca, nessuno sospettava che Berlusconi, tramite Previti, potesse corrompere un giudice per ottenere una sentenza favorevole, al fine di ottenere la maggioranza azionaria della Mondadori. Se B. avesse vinto correttamente la partita, Scalfari poteva anche essere contrariato (e noi con lui, giacché già allora il cavaliere e i suoi supporters ci stavano sulle palle), ma avrebbe dovuto ingoiare il rospo. Nessuno nega l'abilità imprenditoriale di B., ma nemmeno si può negare l'evidenza che egli ha prosperato nelle acque torbide dell'illegalità, della decretazione d'urgenza di stampo craxiano, e di una mancanza di lucidità politica dei legislatori italiani dell'epoca che non capirono affatto la pericolosità che era insita nel non regolamentare in modo autenticamente liberale il sistema radiotelevisivo e mediatico in genere. Anzi: lo capivano benissimo, tanto che Berlusconi - per Craxi, per Andreotti, per il Vaticano - era l'imprenditore giusto al momento giusto per arrivare a un controllo mediatico capillare dell'informazione italiana.
E nonostante, un po' pavidamente da certi estratti, Scalfari cercasse di blandire con un superlativo assoluto il Cavaliere, il 13 gennaio 1990, il fondatore di la Repubblica scrisse un articolo che, appena lo lessi, subito mi fece capire da quale parte stare. Mi è bastato poco per ritrovarlo. Mi è stato sufficiente ricordare una parola: ircocervo. Riporto l'articolo per intero, e vi prego di leggerlo perché ne vale veramente la pena. Le frasi in grassetto che metterò sono tutte per Christian Rocca.
«DOMANI saranno quattordici anni da quando, il 14 gennaio del 1976, Repubblica comparve per la prima volta nelle edicole. Quattordici anni non sono molti nella vita di un giornale. Alcuni nostri importanti confratelli che hanno più d'un secolo di storia alle spalle il Corriere della Sera, la Stampa, il Messaggero al compimento del loro quattordicesimo anno erano ancora ai primi vagiti, con poco seguito e modesta autorevolezza, fogli diffusi in ambiti limitati, di scarsa rappresentatività sociale, culturale, politica. Così non è stato per noi, e certamente non per merito nostro, o non soltanto per merito nostro. Le condizioni del paese in mezzo alle quali è nata quest'impresa, i fatti che si sono via via succeduti in questo arco di tempo, la richiesta che ci veniva dalla gente e alla quale come potevamo abbiamo cercato di corrispondere, hanno fatto sì che questo giornale divenisse, in un breve volgere di anni, il più diffuso e il più rappresentativo dell'opinione pubblica nazionale, senza distinzioni di territorio né di classi sociali né di sesso né di età. Questo piccolo grande miracolo ha molte cause. La prima e più importante di tutte è stata l'indipendenza di cui il giornale ha finora goduto. I lettori potevano, di volta in volta, consentire o dissentire dai nostri giudizi, ma hanno sempre avuto la certezza che essi erano riconducibili a noi soltanto, giusti o sbagliati che fossero, poiché non c'era dentro di noi o sopra di noi alcun gruppo di potere che potesse indicarci la via da seguire. È stato un privilegio inestimabile, questo dell'indipendenza, dovuto al fatto che il direttore di questo giornale era, allo stesso tempo, imprenditore di se stesso e comproprietario della testata. Questa è stata l'anomalia felice di Repubblica, senza la quale probabilmente non sarebbe nata e sicuramente non avrebbe ottenuto il successo che ha raggiunto. Qualcuno, cui la speciale indipendenza di Repubblica non piace perché mette in discussione interessi consolidati, rivela prepotenze e svela corruzioni, ha ritenuto che l'anomalia sopra ricordata non fosse felice ma nefasta. Ed ha coniato una definizione mitologica per il suo direttore, che sarebbe un ircocervo: animale per metà uomo e per metà ariete, o caprone che dir si voglia. Un soggetto, cioè, che non può e non deve esistere in natura, una figura dimezzata o trimezzata, nella quale confluiscono appunto i requisiti del giornalista, dell' imprenditore, dell'uomo politico. Mi rendo ben conto che la cosa possa non piacere. Ma che sia la prima volta che accade è un falso storico perfino in Italia (in altri paesi più avanti di noi si tratta infatti d'una situazione del tutto normale). Il direttore trimezzato di Repubblica si trova infatti in ottima compagnia perché altrettanto trimezzati o ircocervi per restare nel mitologico, furono Alfredo Frassati alla Stampa, Alberto Bergamini al Giornale d'Italia e, soprattutto, Luigi Albertini al Corriere della Sera: giornalisti, imprenditori dell' opera loro e uomini politici. Nessuno dei tre fu mai molto amato né dalla corporazione dei giornalisti né da quella degli imprenditori e meno che mai da quella dei politici; ma crearono una scuola, dettero voce alla gente, controllarono per conto della gente il Potere e le istituzioni; e insomma contribuirono, per quanto stava in loro, alla crescita del paese e al rafforzamento della democrazia. Furono tolti di mezzo quando la democrazia cedette al regime: tolti di mezzo brutalmente, insieme alla libertà di stampa e a tante altre libertà. Per fortuna non c'è un regime in Italia, anche se parecchi si adoperano variamente per costruirne uno che sia, naturalmente, al passo coi tempi. Ma c'è una serrata guerra di bande, che intreccia gli affari con la politica, gli appetiti degli uni con l'avidità degli altri, e l'arroganza brutale di entrambi di operare senza regole o sopra le regole, usando come metodo la sopraffazione condita con l'intimidazione e con le lusinghe. Sicché non c'è da stupirsi se, in questo contesto, la Repubblica sia diventata una posizione da espugnare e il suo trimezzato direttore un personaggio da toglier di mezzo, in modi diversi ma con risultati analoghi a quelli che furono sperimentati con Bergamini, Frassati e Albertini. La storia non produce duplicati, ma analogie sì. E questa è certamente un' analogia degna di attenzione. Una caratteristica della vita italiana di questi anni è la presenza a vari livelli di personaggi potenti e incensurati che si trovano al centro di vaste reti di potere, le hanno tenacemente costruite con sapienti alleanze, le alimentano con reciproci favori. Queste reti di potere travalicano talvolta nel malaffare, ma chi sta al centro di esse riesce di solito a non lasciar tracce del suo passaggio e della sua presenza. Passa attraverso il fuoco come la salamandra, senza bruciarsi e senza conservarne segno alcuno. Ci sono indizi, vociferazioni, congetture; ma prove certe mai. Quando ci sono, vengon fatte sparire in tempo. La gente sospetta, poi si scorda e pensa ad altro. È umano, non è vero? Spesso i personaggi in questione sono addirittura simpatici alla gente. Spesso sono molto popolari. Talvolta sono filantropi, d'una filantropia mirata e ben calcolata. Finanziano ospizi. O premi letterari. O squadre di calcio. Un tempo i signori lanciavano zecchini d'oro alla plebaglia che se li disputava sotto i loro occhi divertiti. Oggi i costumi sono diversi, il risultato è il medesimo. Ripassando nella memoria alcuni episodi del passato prossimo e del passato remoto e anche alcuni fatti degli ultimi giorni, m'era venuta in mente la celebre ballata con cui si apre l'Opera da tre soldi, quella cantata da Jenny delle Spelonche alla fiera del quartiere di Soho. Ho voluto riascoltarla. Descrive Mackie Messer, il gangster, il furbissimo e simpatico a modo suo personaggio centrale dell' Opera. Ricordate i versi di Brecht e la musica di Kurt Weill? Tanti denti ha il pescecane e a ciascun li fa veder, Mackie Messer ha il coltello ma chi mai lo può saper? Sbrana un uomo il pescecane ed il sangue si vedrà. Mackie ha un guanto sulla mano nessun segno resterà. La veridica storia di Mackie Messer ricorda molte storie e molti personaggi dei giorni nostri. Sul Tamigi verde e fondo molti a un tratto cascan giù. Non è peste né colera, Mackie Messer va su e giù. E Schmul Maier un dì sparisce e tanti altri ricchi al par. Mackie ha in tasca i lor danari nessun può testimoniar.... Naturalmente i personaggi dei tempi nostri non sono così truculenti come il gangster di Bertold Brecht. Sono molto più felpati, più soffici, più ironici. I loro supporters non sono i pezzenti di Soho ma la crema, il fior fiore dell' establishment. La grande finanza è a loro disposizione. Il Parlamento anche, quando serve. Il governo quasi sempre. Stuoli di avvocati ne guidano le mosse. I servizi segreti alla bisogna gli danno una mano. Le Logge, più o meno massoniche, li accolgono fraternamente. Jenny Tawler l'han trovata un coltel ficcato in cuor. Mackie Messer va a passeggio e per caso è giunto lì. Via, non siamo certo a questo. Questa è soltanto la raffigurazione artistica di quell'esaltato di Bertold Brecht, che del resto, ormai, è decisamente fuori moda. Ma la canzone è bella e, per lo meno nella mia edizione, assai ben cantata. Ci sono tanti Mackie Messer nella storia italiana di questi anni. Alcuni di loro giocano grosso. Nessuno di loro possiamo starne certi finirà impiccato come il protagonista dell'Opera. È più ragionevole pensare che sarà piuttosto gente come noi a farne le spese. Questo non è più direbbe il principe di Salina il tempo dei gattopardi, ma delle iene e degli sciacalli. Non è più nemmeno, temo io, il tempo degli ircocervi. I quali tuttavia, come tutti gli animali mitologici, hanno una stranissima proprietà: ogni volta che gli tagliano la testa, quella testa rinasce di nuovo. Chissà come andrà questa volta.»
Grazie all'Archivio di Repubblica è stato facile ritrovare tale articolo. Mi è bastato, ripeto, ricordare la parola ircocervo. Ironia della sorte: persino un'anonima rivista diretta Fabrizio Cicchitto ha questo nome. Qualcuno lo informi che per essere un animale bi o tri cefalo occorrono, più che altro, tre teste e che due (o tre) lingue non sono sufficienti.
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