«“Nell'apprendimento delle lingue la cosa più importante non è quella che si impara; abbandonare la propria è la cosa decisiva. E solo allora la si comprende veramente”. Gide cita una frase del navigatore Bouganville: “Quando lasciammo l'isola, le demmo il nome di Île du Salut”. E aggiunge la mirabile osservazione: “È solo quando lasciamo una cosa che le diamo un nome”».
Walter Benjamin, “Conversazione con André Gide” (1928), in Opere complete III. Scritti 1928-1929, Einaudi, Torino 2010.
Solo dopo Lucas ha capito che la poteva chiamare amore. Prima no, prima si vergognava, non lo credeva, non lo sapeva, non lo pensava possibile. Ma quando lei partì e lo lasciò lì, solo, a fare a pugni con dei ricordi che via via svanivano, egli capiva tristemente che quel nome, quella sensazione di vita piena e completa non sarebbero state più possibili o solo imitazione - ricercata imitazione - di cosa in quel momento stava vivendo. Ed è inutile che i sogni ogni tanto la facciano riapparire, come se ancora fosse possibile trovare una circostanza che riporti le mani di lei sulle sue reni, mani che lo identificavano, che lo tatuavano ad un altro corpo, ad un altro io...
Ma non è giusto. Non è giusto dare un nome alle cose solo dopo che le abbiamo lasciate. È un difetto questo, non solo linguistico, al quale dobbiamo porre rimedio - pensa ora Lucas e sa perché. Perché la vita stessa, tout court, che fai? la chiami per nome solo dopo che l'hai lasciata? Ti accorgi di vivere solo dopo che sei morto? E quindi no. Gide ha torto marcio. La cosa che è vicina è ciò che scalda e il ricordo è acqua, acqua come nel famoso giochino. Il fuoco della cosa che il bambino cercava. Rituffarsi indietro nel lago del proprio tempo vissuto per nominare le cose, per inzuppare biscotti scipiti e spargere lagrime e non più sperma, serve solo a credere che qualcosa un tempo avesse senso e che ora il senso non c'è più. Il senso, il sesso, lo stringere un pezzo di carne di un proprio simile qui e ora, vicino. E il bicchiere di vino quello buono è questo che stai bevendo, e vale molto più di quello che bevesti anche se fatichi a crederlo.
- Ma che fa Lucas, beve di mattina? Che è diventato, un alcolista anonimo?
- Era una metafora. La mattina, ora, bevo solo succo di mirtillo.
- Comunque lei si sta sbagliando. Gide intendeva un'altra cosa.
- Sì, ho capito. Gide non ha torto. Sono io che sono marcio. È vero: solo quando sei capace di abbandonare o sei stato abbandonato da una donna o da un'idea, riesci a comprendere, a imparare cosa voglia dire quella donna, quella idea. Vorrei fosse così anche per la vita, ne avessimo (almeno) due, come le donne, come le idee.
- È per questo che non ci stancheremo mai di leggere Dante, vero Lucas?
- Sì, infatti. È consolante sapere che qualcuno ha visitato davvero il mondo dei morti. È consolante sapere che prima di noi hanno vissuto certe persone, certe idee. È consolante sapere che siamo mortali, perché solo i mortali possono dare il nome ad un'isola che non c'è.
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