«L'ineguaglianza, nella democrazia mediatica, non riguarda solo la capacità individuale di trasmissione, con i nuovi poveri che ricevono e i nuovi ricchi che fabbricano, diffondono e scelgono il visivo. L'ineguaglianza risiede anche nella capacità di farsi vedere, personalmente. In tutti i luoghi pubblici (ristoranti, teatro, aereo, ecc.), la precedenza del volto già visto da qualche parte su quello mai visto, da nessuna parte, è norma. La visibilità come criterio di una società di ordini: da un lato, i visibili, i nuovi nobili in grado di pronunciare opinioni autorizzate; dall'altro gli ignobili, i non conosciuti, che non hanno accesso agli schermi. Democratico è il regime che organizza e canalizza i conflitti. È quindi auspicabile che la frattura fra gli individui con l'immagine, come un tempo quelli con la terra o con la spada, e gli uomini che ne sono privi non si trasformi in una contraddizione forte, in quanto non disponiamo, in questo momento, di un quadro di trattamento adeguato a questo nuovo tipo di sollevamenti di massa, alle rivolte cioè delle ombre contro i vip».
Régis Debray, Vita e morte dell'immagine, Il Castoro, Milano 1999, pag. 274 (traduzione di Andrea Pinotti).
Ora, con precisione non lo so dire; ma mi sembra che da un po' di anni, noi invisibili, cominciamo a disporre di un «quadro di trattamento adeguato», offerto in larga misura da i nuovi canali di comunicazione e di espressione informatica, di spargimento d'ombra sulle false luci del potere.
Eccoci, non so bene quanto pronti e quanto in grado di compiere una rivolta (leggi: rivoluzione). Però sono piccoli, grandi segnali questi: come scrive Luca De Biase, «ogni giorno, in un paese come l'Italia, 12 milioni di persone si collegano a Facebook». Io voglio sperare che anche solo questo minimo gesto di connessione alla rete comporti uno sforzo di pensiero, di sollevazione morale che riscattino trent'anni (o forse più) di passivismo televisivo.
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