C'è stato un giorno, un
solo giorno, in cui ho pensato di essere l'artefice di me stesso, di
avermi in pugno, leggasi: in pugno la mia vita, di comandarla, di
guidarla secondo una prospettiva, dandole un indirizzo, una piega,
una direzione. Ma il giorno, si sa, dura poco, figuriamoci quello.
Fu, infatti, così veloce che non m'accorsi ch'era già mezzanotte,
suonavano le campane della chiesa vicina, dovevo rientrare di corsa
nella mia insicurezza, nelle mie paure, nella mia caratteristica
indecisione. A poco valse scrivere in un diario tutti i proponimenti
di quel giorno da leone: a rileggerli l'indomani davano già l'aria
di non appartenermi, di essere di qualcun altro, d'un povero illuso
che credeva di possedere la padronanza assoluta di se stesso. Faceva
ridere come si atteggiava, come andava alla televisione a raccontare
di aver il record assoluto di presenze, e di esser stato, nondimeno,
il più grande presidente degli ultimi centocinquantanni. Bella forza
presentarsi tutto rileccato davanti allo specchio senza altro
intelocutore che se stesso. Che bellimbusto, eppure ero io quello,
non ci sono dubbi, con quella faccia triste nascosta in un sorriso
forzatamente ebete. Meno male sono sceso da quell'io costruito a
tavolino che parlava di risolvere i problemi sul tappeto. Ora che
sono di nuovo quel piccolo punto d'universo che ero sempre stato, mi
accorgo che sul tappeto ci sono le mie unghie dei piedi appena
tagliate, e purtroppo, non ci sono cazzi, tocca a me domani passare
l'aspirapolvere, dato che non mi posso certo permettere personale di
servizio.
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