In questa fase delicata della vita della Repubblica in cui, come sostiene la vulgata, si deve stare uniti per far fronte all'emergenza, sembra ci venga imposto l'obbligo di dimenticare cosa questo “Paese” ha trascorso negli ultimi suoi anni di vita politica.
Si deve essere buoni sennò si rischia di far saltare il tavolo dell'accordo, si deve essere concilianti perché la maggioranza uscente può “staccare la spina” (sic!) quando vuole e non far funzionare il nuovo governo di funzionari.
Nel suo ultimo videomessaggio alla Bin Laden, però registrato dentro le stanze di Palazzo Chigi, Berlusconi ha detto, tra l'altro, che le sue dimissioni sono un «atto di amore verso l'Italia». Ma che tipo di amore? Giacché
«Parlando di amore, non vorrei che [lui] equivocasse, l'amore [dovrebbe essere] inteso come un fatto estremamente ampio, estremamente divino, l'amore che comprende soprattutto la possibilità che noi un giorno non possiamo più esercitarlo, che noi un giorno ce ne andremo e dobbiamo lasciare di noi un ricordo che sia perlomeno decente»*
Beh, io mi rifiuto di credere che, al di là delle parole di convenienza, Berlusconi possa lasciare di sé un ricordo decente. Prima di tutto, per queste ovvie ragioni, e poi perché il suo presunto amore per l'Italia era solo il riflesso dell'amore smodato che egli ha avuto ed ha per se stesso. Data la mania di grandezza, e di senso di indispensabilità, egli ha sempre ritenuto che l'amore nei suoi confronti bastasse a risolvere tutti i problemi del paese. Amatemi, io sono un uomo di successo, io ho costruito un impero dal niente, io sono un vero self-made-man cui tutti gli italiani vorrebbero imitare.
E ascoltare ieri di sfuggita i telecronisti nel momento del passaggio di consegne, descrivendo bene come di fronte alle telecamere Monti fosse impacciato rispetto al consumato attore, rende bene l'idea di cosa abbia significato per Berlusconi essere il capo del governo in tutti questi anni: presidiare la scena, essere al centro dei desideri e degli odî di un intero popolo, assumere su di sé più sguardi possibile per colmare il vuoto della sua esistenza. Poiché quando l 'egocentrismo assume forme tali diventa patologia, e il peccato maggiore non è stato quello suo di crederci e di continuare ancora a sentirsi amato, necessario, indispensabile punto di riferimento. No, i peggiori colpevoli della messa in atto della tragicommedia politica italiana sono stati e sono i patetici sostenitori e/o adoratori del fenomeno, coloro che lo hanno avallato e lo avallano credendo che essere irradiati dal re sole berlusconiano significhi acquisirne il prestigio e la fortuna.
*Ennio Flaiano, La solitudine del satiro, Rizzoli, Milano 1973
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