Lucas cammina sotto la pioggia, cappello di feltro a tesa larga, niente ombrello, costeggia un viale di cipressi (ma non è un cimitero). Pensa a quante preghiere ancora ricordi: non molte, qualcuna, le classiche, più un paio di Salmi nella versione ceronettiana. Ne prova uno, il 16, preghiera notturna di David.
Dio guardami tu
Tutto mi stringo a te
Al tuo Nome io dico
Il mio Signore sei tu
Il mio bene non è che in te
Santità false inondano la terra
Potenze che tutti venerano
E innumerevoli siano pure
I loro idoli di stortura
E con tanti a corrergli appresso!
Io trincate di sangue non gli verso
Né le bocca mi infetto coi loro nomi.
Il mio colpo di dadi
Tra le delizie mi ha collocato
Bello è ai miei occhi quel che possiedo
Io benedico il Signore e il suo sussurro
Il suo notturno dai reni darmi barlumi
Davanti a me in perpetuo sta il Signore
Come barcollerei con Lui a lato?
Ne ha il mio cuore frescura
E si gonfia il mio fegato di gioia
Vi si agglutina nella calma
La carne
Tu la mia anima non la getti tra i morti
Vedere la distruzione
Neghi a chi è tuo fedele
Tu mi hai svelato la via che dà la vita
La gioia è al colmo là dov'è il tuo Volto
Accanto a te il bene è senza fine.
Lucas, sillabando questo Tu, pensa a qualcun'altro che non a un Ente ultraterreno; tuttavia, la memoria gli riporta a una sua preghiera, improvvisa, rivolta a nessun dio. Ascoltiamo
Lìberati da ogni frenesia, pensiero. Sii inquieto e scalzo e privo di impiastri, di legamenti e vai tra la perduta gente, vivo. Presentati, fa' sagge le loro mani, soprattutto il movimento del pollice e dell'indice, presa ideale dell'intero universo, di un pinolo, di una pera, di un lembo di pelle innamorata (quella del collo, preferibilmente). Vai, pensiero, senza musica, non importa. Liberaci dalla nostra indigestione, dalla prigione di grassi industriali, dalla polvere. Sali più alto del fumo che annebbia la mente e la respirazione. Respira tu al posto nostro, oltre le nubi e la pioggia e poi ridiscendi, a lavarci la fronte in questa giornata umida.
Lucas si ferma, tace, cerca riparo sotto una stretta tettoia, estrae un libello, legge Il picchio di Williams nella traduzione sublime della Cristina Campo.
Innocenza, innocenza, condizione del cielo!
Solo nell'ignoto saremo
festeggiati, nutriti. Ritualmente. L'ignoto,
rifugio a cui ci scagliano. Perché
seppure, privi di paracadute, saremo
piatti contro la terra, non sarà più la stessa terra
che lasciammo pel volo. Cercando che? Non c'era nulla
lassù. Né più l'ignoto, ora. Eppure mai
conoscemmo la terra come abbattuti, rotti
contro di lei. Dall'alto noi cadiamo, innocenti,
verso le nostre morti.
Mi andrebbe, di Novembre,
essere un picchio dei boschi. Un grido, un moto,
rosso tocco tra i rami nudi. Un lampo,
una destinazione tra le eterne – e lo scarabeo
fine del volo. Nutrito; e la cerimonia
senz'altro testimone che le rocce muschiate,
le foglie secche, i dritti corpi degli alberi.
È l'innocenza: scaglia il corpo nero e bianco
nell'aria, e innocenza lo guida. Volo è solo
brama e brama è la fine del volo: ti pugnala
laggiù, con qualche lingua di ferro che trionfa!
Lucas si sdilinquisce, riosserva la pioggia che non cessa, ascolta il rumore della piena, discende giuso in Arno. Domani, il mare.
4 commenti:
Quando ho letto il titolo ho pregato per te, speravo tanto non avessi iniziato a emulare Langone.
Grande Gians, grazie delle tue... "preghiere".
;-)
Dovresti leggere " I Beati", di Marìa Zambrano. Mi ringrazierai per questo.
in fondo non siamo altro che una goccia in quel ribollire d'acqua
(tutto quel che chiedo è non finire in un pozzo nero...)
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