venerdì 11 febbraio 2011

Barricata

Al popolo egiziano, con stima

«Quando ormai non potremo più piangere e le parole saranno minuscoli supplizi e guardando indietro vedremo soltanto uomini privi di sensi, allora qualcuno salterà sul marciapiede, col viso già bello, già spontaneo e libero, e una canzone nata da noi due, dal più profondo, dal più profondo di noi due, ci esalterà!
Tu sai se ti voglio e se siamo stati tutti e due abbandonati, abbandonati a una bandiera, a una risata sanguinosa, a un salto nel buio, abbandonati dai lugubri dèi, dal film che corre e sparisce, dai quattro soldi, dalla mobilia composta di due seggiole e un letto fatto per morire di schifo. Bambino mio cui manca solo sputare e inviare corpo e beni sulla barricata, mio uguale, tu mi segui; tu sai che la strada è insopportabilmente pura e nostra, è uno gnomo che grida sul tetto le erbe misteriose, è un ragazzo che cresce lungo le tue braccia, è un luogo per sempre solenne, per sempre temuto! Ma piangeremo tanto che sarà un diluvio. Automobili-diluvio. Soprabiti-diluvio. Soldatini-diluvio. E quando quest'acqua tiepida avrà inondato tutto, allora, o architetti, lavorate di nuovo, ma con uguale minuzia e uguale volontà: venite a portarci rose e fil di ferro, uomini e fil di ferro, rose e fil di ferro.»

Mário Cesariny, da Pena capitale (1957), in AA.VV., La parola interdetta. Poeti surrealisti portoghesi, Einaudi, Torino 1971 (a cura di Antonio Tabucchi).


A margine.
Dopo l'indignazione, la rabbia, il riso, adesso è il momento del pianto. Incontrare gli scalzacani e gli sturacessi berlusconiani e... piangere. Loro parlano e noi piangiamo, disperatamente. Un diluvio di lacrime.

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