Chi sono, io? Se per una volta mi rifacessi a un proverbio: in fondo potrei forse domandarmi semplicemente qui je hante: chi frequento, chi infesto.
Il blogger frequenta questo e quello (vedasi il suo reader, il suo blogroll, i suoi frequenti link). E li infesta? Dipende. Linkare qualcosa, di solito, presuppone il volerla diffondere la tal cosa, o per evidenziarne i meriti o per additarla al pubblico ludibrio. Sia come sia, il blogger è colui che non resta indifferente alle sue frequentazioni. Per forza: è un amatore straordinario. Non è tiepido, non è annacquato: soprattutto non ha bisogno di scendere in un'altra stanza per mostrare la sua nudità, il suo culo flaccido. Di più: non ha bisogno di comparse per essere protagonista di se stesso.
Debbo riconoscere che questa espressione mi porta fuori strada, in quanto tende a stabilire tra certi esseri e me rapporti più singolari, meno evitabili, più conturbanti, di quanto non pensassi. Dice molto di più di quello che vuol dire, mi attribuisce da vivo, il ruolo di fantasma, implica evidentemente un'allusione a ciò che ho dovuto cessare di essere per essere colui che sono.
Ecco una perfetta definizione: il blogger è colui che ha cessato di essere per essere colui che è, il fantasma di se stesso. Vale a dire: il blogging è piena manifestazione di sé. Non è così? Io dico che anche colui che si nasconde dietro un falso nome, non manda in rete la sua falsa identità, ma la parte infinitesima del nous che informa il cosmo.
Forzando appena questa accezione, mi lascia intendere che quelle che io considero manifestazioni oggettive – e più o meno deliberate – della mia esistenza, non sono altro che la traccia, entro i limiti di questa vita, d'un'attività il cui campo effettivo mi è completamente ignoto.
E infatti! Nessun blogger può sapere quali saranno gli effetti della sua attività. Oggettivizzare il proprio pensiero, il proprio gusto, la propria avversione non vuol avere alcun valore pedagogico, ma solo uno scopo topografico: mostrare che, da qualche parte del mondo, esiste un individuo che abita tali pensieri, li cammina seguendo e, a sua volta, lasciando tracce.
L'idea che ho di “fantasma” con quanto comporta di convenzionale, sia nell'aspetto, sia nella sua cieca subordinazione a certe contingenze di ora e di luogo, vale innanzitutto, per me, come immagine finita di un tormento che potrebbe essere eterno. Può darsi che la mia vita sia essa stessa un'immagine di questo genere, e che io sia condannato a tornare sui miei passi anche quando credo di esplorare, a cercare di conoscere quel che dovrei semplicemente riconoscere, e apprendere una piccola parte di ciò che ho dimenticato.
Ritornare a conoscere ciò che si è dimenticato. Cosa ci ha spinto infatti a conoscere? Perché non abbiamo chiuso, non chiudiamo la porta al pensiero? Perché aspettiamo che ritorni a casa, la nostra casa, l'io, dopo averlo gettato nel mondo, a camminare, a viaggiare come Ulisse e i suoi frati.
Questo punto di vista non mi appare falso se non in quanto mi presuppone a me stesso, colloca arbitrariamente su un piano di anteriorità una figura compiuta del mio pensiero che non avrebbe ragione di entrare in composizione col tempo, e implica, in questa stessa nozione di tempo, un'idea di perdita irreparabile, di penitenza o di caduta, la cui infondatezza morale è per me fuori discussione.
È qui che un blogger rischia di cadere in trappola: entrare in composizione col tempo, col proprio tempo non significa, appunto, cercare arcadie o eden perduti per farsi belli con quello che eravamo. Il tempo perduto non è l'orologio giusto per misurare l'ora, il presente, questa brama espressiva che spinge l'individuo a esercitare l'arte del blogging. L'indicativo imperfetto di essere è un verbo morale e ogni tentativo di esprimere la propria morale è destinato all'infondatezza.
L'importante è che le disposizioni particolari che mi vado lentamente scoprendo quaggiù non mi distraggano dalla ricerca di una disposizione generale che mi sarebbe peculiare e che non mi è data. Al di là delle inclinazioni di ogni genere che riconosco in me, delle affinità che sento, delle attrazioni che subisco, dei fatti che mi succedono e che succedono solo a me, al di là dei tanti gesti che mi vedo compiere e di certe emozioni che solo io provo, mi sforzo, di fronte agli altri uomini, di capire in che cosa consista, se non da che cosa dipenda, la mia differenza. Non è forse nell'esatta misura in cui prenderò coscienza di questa differenza che saprò rivelare a me stesso ciò che fra tutti gli altri sono venuto a fare in questo mondo e di quale messaggio unico sono latore per non poter rispondere della sua sorte che con la mia testa?¹
Proprio così. Esercizio Massaro, esercizio: solo così, un giorno (forse) arriverai a prendere coscienza della tua (presunta) differenza.
¹Citazioni tratte da André Breton, Nadja, Gallimard, Paris 1963 (ed. it. Einaudi, Torino 1972, traduzione di Giordano Falzoni).
4 commenti:
AMO la tua DIFFERENZA
WW
Grazie, mio più. Un abbraccio
<3
E' vero: sei un amatore straordinario, nella tua missione-blogging: ti distingue una singolare forma di filantropia, sei generoso, mai meschino. Un blogger vero.
Ma cercare di scoprire la propria quota di differenza non è comunque velleitario? Non riconduce a sé stessi in modo egoistico?
Io talvolta penso che, tutto sommato, l' intelligenza umana sia un surplus evolutivo ed un po' accidentale, e che non esista affatto un fine...
Grazie Morena... guarda che ci credo
:-)
e poi, riguardo a ciò che dici... come vorrei darti torto!
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