«È bello pensare che sarà così, che abbandonandosi poco a poco a un sopore senza immagini, Liliana si sgranchirà con i suoi lenti movimenti di gatta, una mano abbandonata sul guanciale umido di lacrime e di acqua di colonia, l'altra sulla bocca in un ritorno puerile, prima del sonno. Immaginarla così mi fa tanto bene, Liliana mentre dorme, Liliana alla fine del tunnel nero, confusamente sentendo che l'oggi sta per finire e diventare ieri, che quella luce fra le persiane non sarà più la medesima che la colpiva in pieno petto mentre zia Zulema apriva le scatole dalle quali usciva il nero sotto forma di abiti e di veli che si mescolavano sul letto con un pianto, rabbioso, un'ultima, inutile protesta contro ciò che doveva ancora accadere. Adesso invece la luce della finestra sarebbe giunta prima, prima dei ricordi disciolti nel sonno e che solo confusamente si sarebbero aperti un varco nell'ultimo sopore. Sola, sapendo di essere veramente sola in quel letto e in quella camera, in quel giorno che si stava avviando verso un'altra direzione, Liliana avrebbe potuto piangere abbracciata al guanciale senza che nessuno corra a calmarla, lasciandole esaurire il pianto fino in fondo, e solo molto dopo, con un semisonno ingannevole che la trattiene nel gomitolo delle lenzuola, il vuoto del giorno avrebbe cominciato a riempirsi di caffè, di tende aperte, della zia Zulema, della voce del Pocho appeso al telefono della casa di campagna per raccontarle dei girasoli e dei cavalli, di un pesce pescato dopo ardua lotta, di una scheggia nella mano ma niente di grave, gli hanno già messo su la medicina di don Contreras, la più indicata per queste cose».
Julio Cortàzar, Ottaedro, “Liliana che piange”, Einaudi, Torino 1994 (trad. Flaviarosa Nicoletti Rossini)
Non so bene quale fiume di inquietudine scorra dentro me, ma vi prego ditemi dove si trova la medicina del dottor Contreras, la più indicata per le schegge che feriscono quella percentuale di coscienza che mi fa dire io sono. Sono abbastanza infelice e non vi saprei dire il perché.
L'ho detto. Funziona. Grazie della medicina, era facile trovarla, era a portata di mano. Bastava trovare la scheggia e poi toglierla, fare uscire un po' di sangue, disinfettare. No, il cerotto non importa. Che la ferita respiri, respiri per cicatrizzarsi più in fretta. Si formerà una crosta che ricorderà le ragioni delle mia inquietudine.
Nessun commento:
Posta un commento