domenica 22 novembre 2015

La più efficiente delle costruzioni politiche

Quanto segue sono delle considerazioni scaturite dalla lettura dell'intervista di Limes a Georges Friedman, prestigioso analista dell'Amministrazione americana, che ho scoperto grazie alla segnalazione de Lo Zittito.

LIMES Anche Hegel poneva, almeno temporaneamente, lo Stato nazionale al centro delle sue teorie. Gli Stati sono ancora i principali protagonisti delle relazioni internazionali?

FRIEDMAN Decisamente sì. Per Hegel lo Stato nazionale rappresentava una costruzione storica destinata a essere superata nel tempo, come accaduto in passato alla polis greca. Ciò nonostante, in attesa di un soggetto politico che lo sostituisca, lo Stato ci appare ancora come la più efficiente delle costruzioni politiche. Mentre le forme non statali, siano esse informali o di estensione internazionale, non sono «hegelianamente» in grado di fare la storia. Lo dimostra in questi giorni il conclamato fallimento dell’Unione Europea.

Perché la forma Stato-nazione perdura? Perché essa «ci appare ancora come la più efficiente delle costruzioni politiche»?
Non vi è alcun dubbio che lo Stato, nelle varie declinazioni politiche adattatesi all'evoluzione storica delle diverse società che contiene, sinora si sia dimostrato l'organizzione politica migliore per dare compiutezza alla forma valore. Ciò significa che per ogni Stato, in cui vige il moderno sistema economico e produttivo capitalista, l'obiettivo primario e ineludibile è la realizzione di profitti ottenuti dalla vendita e dallo smercio della produzione complessiva nazionale; produzione, beninteso, che è diversamente strutturata per ogni società: dalla libera impresa, al controllo statale diretto nella produzione.
L'importante, insomma, per ogni Stato è riuscire a ottenere un realizzo per la capacità produttiva nei vari settori economici: primario, secondario e terziario [¹].
Da notare che mentre le organizzazioni statali pre-capitaliste fondavano il proprio impero sulla schiavitù o sullo sfruttamento diretto dei territori e dei popoli conquistati, i moderni Stato-nazione borghese – a parte numerose eccezioni che sono spesso regola – non vivono più sulla schiavitù o sulla vessazione diretta e conclamata delle popolazioni. Sulla carta perlomeno nessuno sfrutta più nessuno.Vende. Con una certa necessità
le nazioni marittime, come in passato la Gran Bretagna e oggi gli Stati Uniti, possono accedere al commercio con maggiore facilità, perché non hanno bisogno di costruire strade o ferrovie per vendere le loro merci. Mentre Russia, Germania o Cina sono costrette a spendere in infrastrutture e ad attraversare territori altrui per ottenere lo stesso risultato.
Come vedete, lo stesso hegeliano d'America capisce questa importanza. Ma – e con questo viro verso la conclusione – perché data questa consapevolezza, George Friedman risponde così su Marx?

LIMES [...] Che ne pensa del marxismo?

FRIEDMAN La geopolitica deve moltissimo a Marx. Il Capitale è un testo fondamentale e al filosofo di Treviri va riconosciuto d’aver distinto con esattezza le diverse fasi del ciclo economico capitalistico (boom-bust-boom). Così il materialismo storico possiede notevole pregnanza e io stesso, in un certo senso, sono un materialista che pone lo Stato al centro della sua analisi. Tuttavia Marx ha invalidato il proprio ragionamento concentrandosi sul concetto di classe. Così già nel 1914-18, e più ancora nel 1939-45, le sue teorie potevano considerarsi superate. Ossia quando ai proletari del mondo, cui era stato spiegato di appartenere a un’unica grande classe internazionale, fu chiesto di uccidere altri proletari perché cittadini di uno Stato straniero e nemico. In quello stesso istante la realtà geopolitica frantumò l’ideologia comunista.


Orbene, chi è che, dopo aver spiegato spiegato ai proletari del mondo di appartenere a un'unica grande classe, gli avrebbe chiesto di «uccidere altri proletari perché cittadini di uno Stato straniero e nemico»? Marx?
Ora, nei limiti delle mie letture, Marx parla, è vero, «di trasformazione dello Stato in una semplice amministrazione della produzione» nell'auspicio della «scomparsa dell'antagonismo delle classi». Parla anche di dittatura del proletariato, da intendere come fase “statuale” di passaggio, di transizione verso una società senza classi e senza Stato.
L'unico Stato-nazione comunista dell'epoca era la Russia che, in quegli anni tra le due guerre, a tappe forzate, ha compiuto il passaggio da un sistema economico produttivo feudale basato essenzialmente sull'agricoltura al moderno capitalismo. Tutti gli altri partiti di ispirazione marxista presenti nelle varie nazioni europee finirono, obtorto collo, per soccombere alla retorica nazionalista della chiamata alle armi per il supremo interesse dello Stato-nazione.
E anche dopo la Seconda guerra mondiale, Russia e Cina si sono imposti come Stati comunisti finché hanno saputo imporre le loro economie stataliste nel commercio limitato per l'Urss alle nazioni che gravitavano sotto la sua sfera, e per la Cina alla capacità di adattamento e trasformazione in senso capitalistico della propria produzione (sempre sotto il tallone statale).
È chiaro che all'interno della dinamica della forma valore a beneficiarne non è il superamento della divisione in classi, bensì il consolidamento dello Stato-nazione che diventa il vessillo primario al quale si aggrappa prima di tutti il capitale, privato e pubblico, per difendere coi denti e le unghie la proprietà (privata e/o statale) dei mezzi di produzione.
E la nostra epoca conferma che gli Stati-nazione sono l'involucro, l'impacchettamento col fiocco della merce da vendere, quale che sia, legale o illegale, letale o virtuale, eccetera.
Pensa un po' quante cazzo di armi vende la Francia all'Arabia Saudita, principale finanziatore dell'Isis. Un bel cacciabombardiere Rafale, in fondo, non è proibito come uno Chateau Lafite.

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¹Non è il caso adesso di occuparsi sul come ogni Stato-nazione impiega il flusso di risorse e a beneficio di quali particolari interessi.

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