giovedì 31 gennaio 2013

Animali da rimonta

Dopo aver messo a cuocere le lenticchie, stasera ripensavo al resoconto di Paolo Pascucci sulla «Lettera della rimonta» che Berlusconi ha inviato ai coordinatori regionali del Pdl. 
La strategia è semplice: riunire 10 amici che ci credono e costituire un team della rimonta; ognuno di questi 10 membri del team dovrà contattare a sua volta altre 10 persone incerte e spiegare loro perché conviene votare ancora PdL. L'obiettivo è quello di costituire 20.000 team di 10 persone ognuno i quali dovranno contattare almeno 2 milioni di elettori moderati. Il Fatto la chiama catena di Sant'Antonio, e dice che segue di poco tempo il kit del candidato
Subito il pensiero è corso a una mia collega che mi faceva una capa tanta perché avviassi un'attività di vendita, che «non è una vendita, ma una filosofia di vita», ella mi diceva, ma i suoi eccitanti decolleté non sono riusciti a convincermi ad ascoltarla fino in fondo, l'ho sempre stoppata declinando; qualità dei prodotti e soldi facili conseguenti a parte, non ci riesco a convincere neanche mia madre, io, le dicevo, per favore non insistere, «eppure Luca, sapessi quanto si guadagna, c'è gente che ha smesso persino di lavorare», sì, forse, non ne dubito, ogni piramide ha una punta e una base di tanti mattoni schiacciati.

Preferisco la polvere.

Il pensiero ha poi cambiato direzione, è andato più indietro nel tempo, ai tempi in cui ho provato davvero a fare il venditore porta a porta, anche se neanche tra i venti e i venticinque avevo un eloquio da fellatio alla Maurizio Lupi. 
Gli oggetti della vendita non potevano essere che libri. La sede provinciale della Rizzoli cercava, infatti, dei venditori e io credevo che fosse qualcosa tipo fare il commesso in una libreria; e invece no, enciclopedie da vendere, in particolare un prodotto appena uscito rivolto ai ragazzi. 
In realtà non era un vero porta a porta. Noi informatori librari (andavamo in due, come gli sbirri) ci presentavamo a casa previo appuntamento, preso con il piccolo-grande inganno di iscrivere i bambini della famiglia alle selezioni dello Zecchino d'oro, manifestazione canora della quale la Rizzoli, all'epoca, era lo sponsor principale. L'iscrizione era chiaramente gratuita e non impegnava i genitori dei figli iscritti a comprare alcunché. Tuttavia ci consentiva di promuovere certi prodotti che, guarda il caso, portavamo nella nostra valigetta. Piccoli figli di puttana che cercavano di guadagnarsi il salario cercando di spacciare enciclopedie, insomma. 
E mi viene in mente la prima volta. Dato che io ero un pivello, dovevo essere addestrato. Il responsabile di zona chiamò apposta due famose venditrici regionali, due donne in tailleur, una bionda e una bruna, sulla quarantina entrambe, belle donne, non troppo "erotiche" nell'aspetto, dacché il principale componente della famiglia da convincere era la mamma. Io andai con la bionda, il collega mio coetaneo con la bruna. Quando, uscita dall'ufficio, la bionda in tailleur grigio si accorse che doveva salire sulla mia vecchia centoventisette verde pisello, notai in lei un ghigno di ripulsa, nonostante la macchina fosse tutta bella tirata a lucido (me la lavava mia zia a mano, con il glassex). Pochi chilometri silenziosi, poi una villetta bifamiliare, campanello, ci aspettavano. Vuole la bambina partecipare alle selezioni, eccetera, sì? Che cara, e mentre io prendevo nome e cognome, ecco la professionista estrarre dalla sua ventiquattr'ore il kit di vendita, composto da: un volume dell'enciclopedia, una videocassetta sugli animali (anche questa prima di una lunga serie), un vocabolario d'italiano e uno d'inglese. Le fu sufficiente un quarto d'ora per convincere i genitori sull'utilità dell'acquisto: 2.800.000 lire da pagare in comode rate. Bum, affare fatto, che bella bambina che avete, no grazie, non importa il caffè, l'abbiamo preso poco fa, arrivederci. Uscendo dalla casa, notai nella professionista il volto sicuro e soddisfatto di una che ha dimostrato di sapere il suo mestiere, mentre in me cresceva l'idea che quello era un mestiere di merda.

Dopo la lezione-tirocinio, l'indomani io e il collega partimmo da soli per la caccia. Scelsi io da chi iniziare. Una famiglia di piccoli imprenditori tessili che avevano laboratorio e casa nello stesso stabile. Parlai io illustrando il materiale del kit, loro m'interruppero, non avevano tempo da perdere, gli bastava solo l'enciclopedia e non le videocassette e preferirono farmi un assegno di un milione e mezzo che saldava subito il conto anziché pagare a rate. Cazzo, com'è facile, ci dicemmo, io e il collega. Ma fu solo un colpo di fortuna. Almeno per me.
Le settimane successive, infatti, riuscii a piazzare solo un'enciclopedia presso una biblioteca comunale. Non l'avessi mai fatto: il responsabile mi disse, infatti, che le biblioteche devono essere gli ultimi acquirenti, dato che, essendo pubbliche, offrono una consultazione gratuita.
Decisi di abbandonare il lavoro e di farmi liquidare. Avevo guadagnato circa cinquecentomila lire. Non presi il vil denaro, ma mi comprai i primi cinque volumi della Grande Enciclopedia Filosofica della Marzorati, due tre dei quali dedicati al Pensiero cristiano. Cristo santo, che coglione.

Tutto questo m'è tornato in mente ascoltando Maurizio Lupi che spiega ai convenuti come funziona il kit e quale sia la strategia della rimonta. Le persone che dovranno essere contattate, dice Lupi, «sono persone indecise, sono persone che hanno dei dubbi, sono persone che volevano un contatto umano da parte nostra e che hanno sentito la televisione e la radio e hanno sentito che noi non avevamo fatto nulla in questi anni». Magari non aveste fatto nulla: avete fatto peggio di nulla, vale a dire schifo e ora volete fare la rimonta. La ri-monta. Ecco, spero vivamente che la maggioranza degli italiani non voglia nuovamente tale tipo di “contatto umano” e non sia più disposta a farsi ri-montare come Pasifae, ché questa volta il Minotauro che sortirà dalle elezioni, dopo il pelo, addenterà anche la carne.

mercoledì 30 gennaio 2013

Chi sogna città, chi sogna cittadini

foto presa da Internazionale, n. 984.
Berlusconi sogna New Town in tutti i capoluoghi e io, invece, ho sognato di essere a Civitanova Marche per partecipare allo stesso convegno di macrobiotica al quale partecipai circa tre lustri fa.
...
Era inverno, si svolgeva in un albergo a tre stelle in riva al mare, ci servivano, a colazione pranzo e cena, pasti rigorosamente macrobiotici alla mensa comune. 
A metà mattino lezione di cucina, a metà pomeriggio conferenza sulla filosofia macrobiotica.

A una di queste "lezioni" il relatore, che divulgava i pregi di tale dieta, anche da un punto di vista curativo, raccontò la storia di una signora malata gravemente (non ricordo di quale malattia, forse di cancro, ma non sono sicuro), la quale decise di abbandonare le cure di medicina convenzionale per seguire la dieta macrobiotica stretta, che si basa esclusivamente sul mangiare riso integrale (superextrabio, cotto in rapporto uno - di riso - e tre - di acqua di sorgente e non dell'acquedotto che in questa c'è il cloro, più un chicco di sale marino integrale, il tutto cotto a pressione, se non ricordo male un'oretta dal sibilo del vapore) e sul bere tè bancha (tè verde giapponese tostato lievemente). Bene, mentre la signora seguiva tale ferrea dieta presto traendone benefici, le capitò, per circostanze ignote, di mangiare una ciliegia sotto spirito. Mal gliene incolse, e di lì a poco, morì - così raccontò il relatore.

Mi ricordo ancora che, in quel momento, estrassi dalla tasca della giacca Cara incertezza, di Guido Ceronetti (Adelphi, Milano 1997) e provai un senso di ribellione. Per la prima volta sentii che urgeva ribellarmi a un pensatore importante che, per certi versi, mi aveva condotto lì, anche se - chiaramente - non era colpa sua se ero lì ad ascoltare certe cose, giacché da nessuna parte Ceronetti dice di andare ad ascoltare conferenze di macrobiotica in una cittadina marchigiana d'inverno. In Cara incertezza, tuttavia, c'è un capitolo, dal titolo «Pensare il cancro».

Non attesi la fine della conferenza, non era ancora buio, e anche se fuori tirava un vento gelido, volli uscire, andare sulla spiaggia deserta che si trovava, appunto, a pochi passi da me. Per un continentale è sempre suggestivo camminare sulla spiaggia, specie in inverno, da solo, con il bavero alzato e la sciarpa che sembrava un'elica, con gli occhi che per non lacrimare troppo dalla fatica fredda di guardare l'orizzonte, indugiavano a osservare l'esattezza delle impronte dei passi lasciate sulla battigia, prima che si disfacessero con l'arrivo di un'onda un po' più lunga.

E solo ora capisco, forse, perché certe letture non mi entusiasmano più: perché non è l'uomo in generale a cancerificare la terra, «con la sua presenza in eccesso e la sua attività di delirio», ma un particolare tipo di uomo: Berlusconi, per esempio, è uno di questi. Hanno un nome e un volto, tali uomini, anche se i più furbi e potenti preferiscono nascondersi dietro la maschera di società anonime.
La colpevolezza della moltitudine, me compreso, è di non aver ben capito come funziona il meccanismo degli eletti e di continuare, per questo, ad asservirlo, in vario modo, più o meno consapevolmente.
E per noi proletari niente c'è di peggio che cadere nell'illusione del carisma, del salvatore, di colui che ci costruisce una casa su misura piena di confort e un'antenna televisiva sintonizzata sulla sua buona novella.

martedì 29 gennaio 2013

Qualcosa che incombe

Ieri l'altro Berlusconi ha detto quello che ha detto sul secondo più grande statista che l'Italia ha avuto dall'Unità in poi e io non voglio dire niente, io, perché sennò divento fascista anch'io, perché la rabbia potrebbe prevalere, la voglia di sputare, di lanciare treppiedi e madonnine in peltro, di prendere a brani e conficcare in un tirso la sua testa di catrame. Dunque, calma, finta di niente. A cosa serve urlare? A COSA SERVE URLARE? 

«E così qualcosa ci incombe. Questi innumerevoli morti, questi massacrati, questi torturati, questi calpestati, questi offesi sono affare nostro. Chi parlerebbe di loro se non ne parlassimo noi? Chi ci penserebbe? Nell'universale amnistia morale concessa da molto tempo agli assassini, i deportati, i fucilati  i massacrati hanno soltanto noi che pensiamo a loro. Se cessassimo di farlo, finiremmo di sterminarli, ed essi sarebbero annientati definitivamente. I morti dipendono interamente dalla nostra fedeltà... Questo è proprio del passato: il passato ha bisogno che lo si aiuti, che lo si ricordi agli smemorati, ai frivoli e agli indifferenti, che le nostre celebrazioni lo salvino continuamente dal nulla, o almeno ritardino il non essere al quale è votato; il passato ha bisogno che ci si riunisca appositamente per commemorarlo: perché il passato ha bisogno della nostra memoria».

Vladimir Jankélévitch, Perdonare?, Giuntina, Firenze 1987, traduzione di Daniel Vogelmann

L'ho già detto e non molto amo molto ridirlo, anche se devo ridirlo. Mio padre, nell'estate del 1943, fu preso a sedici anni dai tedeschi e fu deportato a Berlino, tramite tradotta ferroviaria, in un campo di lavoro. Non era ebreo e lavorò da schiavo insieme ad altri suoi compagni di sventura. Dopo un anno e mezzo vide la capitolazione in diretta del nazismo, schiena a terra nella notte a osservare l'immenso e incessante bombardamento degli alleati. Poi furono i russi ad aprire i cancelli e a liberare lui e gli altri. Al ritorno, ogni volta che qualcuno intorno lui si provava a difendere minimamente il fascismo, lui s'incazzava e se qualcuno insisteva, data la sua forza (lavoro di miniera, lavoro da meccanico), ci metteva poco a dare un pugno in faccia a chi lo faceva. Vorrei avere quel pugno e quella forza, ora. Vorrei avere quella faccia da pezzo di merda ora, qui.

lunedì 28 gennaio 2013

Vicino, vicino

Sono stanco. Appoggio la fronte sul dorso delle mani distese sopra il tavolo di cucina, sì da occludere, come in una caverna, la luce bianca della lampada sopra me e il tavolo. Respiro lentamente e resisto al sonno, per quanto posso. Devo concentrarmi, devo rivedere ancora cinque minuti gli stessi occhi che stasera ho visto, ho rivisto, ho sognato di vedere. Come sono belli. Come mi fanno bene. Anche stasera vederli, seppur visti nel semibuio di una luce di lampione riflessa sull'asfalto bagnato, ha prodotto in me lo stesso incanto, la medesima emozione che travalica il contingente e mi proietta non so bene dove, in nessun luogo forse, dove ogni cosa sembra possibile. Occhi che parlano e labbra che guardano e io lì incantato ad assorbire per quanto possibile il concerto di quella presenza.
Il ritmo del respiro si fa ancora più lento. Mi rendo conto che, se mi addormentassi ora, molto probabilmente prenderei in sogno quella mano lì presente e la porterei in un posto in cui la nebbia, imbiancata dalla luna piena, darebbe a entrambi la netta impressione di camminare sulle nuvole, sospesi. 

Sono troppo inquieto per lasciarmi andare a questo sonno, a questo sogno. La stessa inquietudine di un bambino che aspetta impaziente l'indomani per andare a giocare al suo sport preferito. Sollevo la testa dalla caverna. Gli occhi faticano un po' a riadattarsi alla luce bianca. Anticipo il lavaggio dei denti, così che lo scorrere dell'acqua mi restituisca un po' di lucidità. Potrei parlare di politica. Potrei parlare di economia, di filosofia, di religione. Potrei, sì, ma non mi va, non stasera, no. Stasera mi va di cantare.

domenica 27 gennaio 2013

Passa una mano qui, così, sopra i miei lividi



Ah, come piove male sulla banca più vecchia del mondo.

Allarmi cattolici

Sarò diventato un materialista (storico), ma oramai credo che i problemi di natura religiosa passino in secondo piano rispetto a quelli di natura economica.
Ciò nonostante, forse perché i paladini del religioso fanno meno caso alla caterva di stronzate che comunicano, non riesco a restare indifferente faccia a certe dichiarazioni:
Siamo al «congedo dalla natura umana», è infatti il grido d’allarme che lancia il quarto Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa che l’arcivescovo di Trieste, Giampaolo Crepaldi, ha presentato, nella sua veste di presidente dell’"Osservatorio cardinale Van Thuan", oggi nel capoluogo giuliano. «Il tratto principale che emerge in questo rapporto è la colonizzazione della natura umana – anticipa Crepaldi – ossia le enormi pressioni internazionali affinché i governi cambino la loro tradizionale legislazione sulla procreazione, sulla famiglia e sulla vita».

Il Rapporto esamina le legislazioni intervenute nel 2011. Parte tutto dalla vecchia Europa – sì, quella dell’ideologia coloniale –, «sempre più espressione di una cultura nichilista che intende ormai superare completamente il concetto di natura umana», come sottolinea Stefano Fontana, direttore dell’Osservatorio.
Lasciando per un attimo da parte il concetto di «congedo dalla natura umana», che - se isolato dal contesto - potrebbe anch'essere ripreso ed esteso da un punto di vista umano e non religioso, mi domando come i sunnominati personaggi del casting vaticano possano accusare la «vecchia Europa» di colonizzare la natura umana con la «cultura nichilista», senza rammentare come la stessa «vecchia Europa», in nome di Dio Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, ovvero in nome della cultura cristiana, in molti casi cattolica, ha colonizzato e convertito - sovente a forza - intere popolazioni nel corso della Storia. Insomma, come fanno a dimenticare le gesta eroiche dei Conquistadores? Che ingrati.
Da - più o meno - diciassette secoli, il cristianesimo opera la sua influenza ideologica in Europa; di più: per quasi quindici secoli è stata una delle due ideologie dominanti (l'altra essendo l'Autorità laica dell'Impero). E ogni volta che l'Europa, per esigenze razionali e mercantili, ha cercato e cerca di affrancarsi dai dettami ecclesiastici, ecco che l'Autorità religiosa interviene perché teme gli siano tolti gli ultimi brandelli di legittimità e di potere.

L'assurda battaglia contro il relativismo è dettata dall'invidia che i cattolici nutrono, al momento, nei confronti degli ortodossi russi; infatti, questi ultimi, repressi per quasi un secolo, viaggiano a braccetto col regime putiniano, ne costituiscono l'ideologia di supporto e negli ultimi anni hanno accumulato un patrimonio enorme (vedi Internazionale, n. 984 del 25 gennaio 2013, «L'impero ortodosso»); mentre la Chiesa Cattolica arranca: dal calo delle vocazioni e della partecipazione popolare e dall'indipendenza del potere europeo (fatto salva l'Italia, ultimo bastione), la Chiesa si vede gradualmente sfilare di mano quel ruolo ideologico di autorità morale, che gli Stati dovrebbero tenere sempre in debito conto.

Ma gli Stati borghesi occidentali sono ideologicamente arrivati a un punto tale che non possono dare troppo ascolto alla Chiesa; la garanzia e l'estensione dei diritti civili resta la modalità principale per mostrare al popolo che liberal democracy è in modalità on. A scanso di equivoci, io sono a favore del matrimonio tra omosessuali e della, di loro, adozione di bambini; così come io sono favorevole a ogni tipo di fecondazione assistita, all'ivg, alla pillola del giorno dopo, alla liberalizzazione delle droghe, eccetera. Voglio soltanto dire: per i regimi democratici occidentali è diventato più semplice garantire i diritti testé elencati, che quelli che forse sono un po' più basici, ma indispensabili allo sviluppo di ogni pensiero: e cioè: il diritto al lavoro, al riposo, alla casa, alla salute, all'istruzione, alla parità delle condizioni di partenza tra i cittadini di ogni ceto sociale sono più difficili (ultimamente) da garantire, data la globalizzazione e gli scalpi sociali che il dio-mercato richiede - e stranamente, su questi temi, la Chiesa è meno morale e più padronale, meno religiosa e più schifosa.
Sentite qua di cosa accusano l'Europa:
Dalle informazioni che l’Osservatorio raccoglie quotidianamente in tutti i continenti, risulta che l’«ideologia del genere» può contare su grandi risorse economiche di lobbies internazionali e su appoggi politici di Stati e organizzazioni. «L’Unione Europea è la principale finanziatrice dell’aborto nel mondo – conferma Fontana, dati alla mano – e le agenzie dell’Onu sono attivissime nel farsi da tramite di queste nuove ideologie antinaturali e antifamiliari». Insomma, «l’ideologia del genere è un nuovo colonialismo dell’Occidente sul resto del mondo», sintetizza Fernando Fuentes Alcantara, direttore della Fundación "Pablo VI" di Madrid.
«L'Unione Europea è la principale finanziatrice dell'aborto nel mondo»: bum! Letta così a bruciapelo sembra un'affermazione abbastanza spaventapassere: sembra, cioè, che il compito principale della UE sia quello di pagare sottobanco i ginecologi dei consultori dell'intero pianeta, affinché appena si presenta  loro una donna in stato interessante, zac!, la mettano a gambe divaricate per praticar loro uno svuotamento strumentale.
Se così fosse, non capisco cosa aspettino tanti fondamentalisti pro-life, Giuliano Ferrara in testa, a prendere d'assalto il Parlamento di Strasburgo, baionetta in pugno.
E poi, per ribadire che, in fondo, non tutti i colonialismi sono da buttare, il direttore Fernando Fuentes Alcantara (come la pelle degli interni delle Lancia) ammette che il problema non è il colonialismo in sé, ma il colonialismo che esporta «l'ideologia del genere»*. 
Sbaglierò, ma con questi “allarmi” la Chiesa recupererà poco del terreno perso ai danni della secolarizzazione. Certo, dalle parti vaticane non sono di questo avviso e sanno che resistere per rivendicare la loro ideologia è il modo migliore per chiamare a raccolta chi, nella Santa Madre Chiesa, ancora vi si riconosce o vi si appoggia, ipocritamente, per difendere i cosiddetti valori della tradizione. Tuttavia è evidente che, un minuto prima di perdere questa guerra contro il relativismo e affini, pur di non scomparire dal gioco di potere che sinora li ha visti (quasi) sempre parte in commenda, gli ecclesiastici (Papa in testa) ammetteranno quanto adesso hanno in orrore, dall'adozione alle coppie gay, all'inseminazione eterologa. È una questione di tempo, forse, anche se l'arrocco, al momento, sembra nettamente prevalere, con buona pace dei cattolici progressisti alla Vito Mancuso.

*Ammesso e non concesso che tale ideologia sia un male, non si capisce perché anche all'Europa non possa essere permesso di esportare un po' di generi, anche trans, per contrastare per es. il mercato dei viados brasiliani che, di fatto, detengono il monopolio del genere transessuale in Europa. Chissà se i recenti incontri bilaterali tra i vertici della UE e il governo brasiliano è stata affrontata la questione dei generi (non solo alimentari).

sabato 26 gennaio 2013

La protesta delle Tope

Ansia
Nonostante siano oramai diventate folkore prevedibile, le Femen mi stanno simpatiche perché almeno sono rimaste le uniche a protestare nei posti dove è diventato sistematicamente impossibile farlo, il Vaticano e Davos, per esempio. Certo, la loro forma di protesta è frivola e poco concludente, e forse gode addirittura del beneplacito delle autorità, le quali, così, si compiacciono di come riescono a fermarle in modo liberale, dopo il loro classico denudarsi. A questo proposito, suggerisco alle attiviste ucraine d'inserire nel loro gruppo dei giovani maschi slavati, che invece del seno mostrano i loro genitali: forse pene e palle qualcosa in più provocheranno delle poppe dipinte.
Infine, un appunto alla giovane ribelle della foto, presa a forza in braccio dai gendarmi elvetici: la prossima volta che le capiterà di protestare contro il capitalismo e l'economia globalizzata, la prego di non calzare delle Nike, vanno benissimo anche le Topa sport.

La guerra delle valute nuoce gravemente alla salute

Nippon-ismes
La Banca centrale del Giappone, su pressione del governo nipponico, stampa lo Yen a iosa per comprare gli Euro, in modo da apprezzarli (farli valere di più) così rendendo le merci prodotte in Giappone più competitive, fatta salva la speranza che esse troveranno maggiori acquirenti.
«In questa guerra chi - come Giappone, Svizzera, Inghilterra e Stati Uniti - può svalutare la propria divisa attraverso la monetizzazione del debito (stampando moneta) è avvantaggiato rispetto a chi - come la Germania e gli altri 16 Paesi dell'area euro che viaggiano in assenza di sovranità monetaria - non può operare manovre così aggressive all'uopo.»
Ma una cosa non ho capito: i governanti (e i capitalisti) giapponesi sperano che noi europei, che da pasciuti siam pressoché quasi diventati tutti smilzi consumatori, potremo “aiutare” l'economia del Sol Levante a risollevarsi dalle polveri di Fukushima?  Forse, se la Banca del Giappone, dopo aver comprato gli Euro, li distribuisse a pioggia direttamente nelle tasche degli europei che hanno uno stipendio da recessione, allora, per quanto sta in me, io gli prometto fin da subito che comprerò una fiammante Toyota ibrida, anche in considerazione del fatto che la Fiat non ibrida per nulla (vero maglioncino in kashmir color merda che dirigi l'azienda tra Torino e Detroit?).

È simpatico che i primi governanti (e capitalisti) europei che si disperano (per non dire incazzano) siano i tedeschi; forse temono che l'industria giapponese riprenda quote di mercato perse negli scorsi anni?

Mah. Lasciamo agli addetti ai lavori una migliore e più approfondita analisi della questione.

Il problema principale del capitalismo non viene risolto: nel mondo c'è una squilibrata capacità produttiva e ci sono troppe merci in attesa di essere comprate; ma i soldi sono concentrati nelle mani di pochi superpezzidimerda, di vario genere e tipo, che tengono (a malapena) alto il mercato del superlusso; ma per quanto riguarda la produzione su larga scala si produce male e troppo - e il low cost sarà soppiantato presto dallo zero cost della merce invenduta, buttata nei cassonetti e ripresa dai nuovi poveri morti di fame.

Sono belle però queste battaglie finanziarie («guerre delle valute») che ricordano, in maniera depotenziata, le vere e proprie guerre di conquista ed espansione che più facilmente avevano luogo negli scorsi secoli e decenni tra i paesi “civilizzati”.

È talmente evidente che le contraddizioni presenti a livello globale non saranno risolte da alcun singolo governo su scala locale - anche se la “scala” è grande come l'America, la Cina, la Russia, l'Europa e il resto della banda dei giottini. Anche se ci fosse un governo unico del mondo, con un'unica moneta, un'unica fiscalità, il problema di fondo che il sistema capitalistico pone non potrà essere risolto. E ammesso e non concesso che una guerra mondiale non ci si possa permettere, quale destino ci attende?

venerdì 25 gennaio 2013

Un piacere troppo grande


«“Libresco” è un rimprovero che mi si rivolge spesso; vi presto il fianco per l'abitudine che ho di citare sempre gli scrittori che convengono col mio pensiero. Si crede così che io abbia derivato da loro lo stesso pensiero; ed è falso; esso è venuto a me spontaneamente; ma io mi compiaccio, e tanto più quanto più è ardito, di pensare ch'esso ha già abitato altri spiriti. Quando, leggendoli più tardi, riconosco in essi il mio pensiero […], vado proclamando il nome per ogni dove, e divulgando la mia scoperta. Dicono che faccio male. Non m'importa. Provo un piacere troppo grande a citare, e sono convinto, come Montaigne, che solo agli sciocchi sembro meno personale. Per contro, quelli che colgono le idee altrui, si danno gran cura di nascondere le loro “fonti”. Ve n'è esempi in mezzo a noi».

Andé Gide, Diario, 9 gennaio 1923, Bompiani, Milano 1950, traduzione di Renato Arienta.

Io, di solito, per la composizione dei miei post, procedo in due modi:
a) prendo un libro dalla mia biblioteca minima o dalla biblioteca massima (di solito le comunali che frequento), lo apro e, se mai letto, lo leggo o lo sfoglio (ultimamente, più probabile la seconda); se, invece, l'ho già letto, ne cerco i passi sottolineati, le note a margine (nel caso dei libri della biblioteca, se mai letti, metto minuscole annotazioni a lapis); quindi, se trovo un brano che mi ispira (vedi il brano sopra, che mi provoca le seguenti parole), lo copio, e sotto trascrivo alcune note per costringere il pensiero altrui alle mie esigenze di pensatore dilettante;
b) mediante il flusso di coscienza, che a volte fermo con grafia amanuense alquanto incerta, molto schizofrenica, paramedica, butto giù una serie di pensieri che formano il post in modo autonomo. Se quanto scritto, poi, mi sembra richiedere un sostegno, un appoggio, un conforto di pensieri altrui, procedo in modo inverso al punto a, cerco cioè di trovare una citazione che puntelli il mio dire zoppicante.

A parte

L'andamento dell'attuale campagna elettorale spinge il mio pensiero lontano dall'agone politico; pur restando dentro la polis, non riesco a entrare nel battibecco, nel rimpallo, nella contrapposizione tra le parti in commedia. Sinceramente, non capisco quali altre cose potranno essere dette o promesse per far cambiare intenzione di voto a chi ne ha già una, o per convincere coloro che questa intenzione non ce l'hanno e sono risoluti a non votare o a votare un partito inutile. Ma i partiti e i movimenti non la pensano così e, di comizio in comizio, d'intervista in intervista, la propaganda si accumulerà ai bordi della strada come spazzatura che il cassonetto dei media già ora non riesce più a contenere. 
Potessi dargli fuoco a tali sacchi, per vedere l'effetto che fa. Diossina?
Comunque, i fuochi d'artificio ancora hanno da essere accesi. Immagino diversi tipi di fiaccolate - e mi domando quanto il botto berlusconiano (tonfo sordo e cupo tipo quello dei tre finali, definitivi, che chiudono ogni rassegna pirotecnica) sarà capace di stordire la mente degli indecisi che lo votarono, poi ne ebbero schifo, ma che sono ancor oggi suggestionabili dallo spettro della Sinistra.
Ci sarà persino chi, ancora, voterà Lega, Bossi e Calderoli compresi.
E alla fine li ri-vedremo tutti in Parlamento, foto di gruppo, piccole biografie veloci dei personaggi nuovi, sorrisi. Ma aspettiamo primavera, come Bandini.

giovedì 24 gennaio 2013

Chi non fa non falla


«Fin dal primo momento [della comparsa della vita sulla Terra], il prezzo di fare qualcosa è il rischio di farla nel modo sbagliato, di commettere un errore. Il nostro slogan potrebbe essere: Chi non fa non falla. Il primo errore che fu mai fatto fu un errore tipografico, un errore di trascrizione [del codice genetico] che si trasformò poi nell'opportunità di creare un nuovo ambiente (o paesaggio adattativo), con un nuovo criterio di giusto o sbagliato, di migliore e di peggiore. Un errore di trascrizione qui “conta” come errore soltanto perché vi è un costo nello sbaglio: la conclusione della linea riproduttiva nella peggiore delle ipotesi, oppure una diminuzione della capacità di riprodursi. Sono tutte questioni oggettive, differenze che esistono che le si consideri o meno, che interessino o meno, tuttavia portano con sé una nuova prospettiva. Prima di quel momento, non esisteva alcuna possibilità di errore. Comunque andassero le cose, non erano né giuste né sbagliate. Prima di quel momento, non esisteva alcun metodo predittivo solido per esercitare il diritto di scelta di adottare la prospettiva da cui è possibile discernere gli errori, e ogni errore compiuto da qualcuno o da qualcosa dopo quel momento dipende dal processo originario di errore. Di fatto, vi è una forte pressione selettiva verso la massima fedeltà possibile del processo di trascrizione genetica, che minimizzi la probabilità di errori. Per fortuna, non può raggiungere la perfezione totale perché, se lo facesse, l'evoluzione subirebbe un'improvvisa battuta d'arresto.»
Daniel C. Dennett, L'idea pericolosa di Darwin, Bollati Boringhieri, Torino 1997 (traduzione di Simonetta Frediani, pag. 255.256).

Quanto scritto sopra riguarda la biologia, ma interessa anche uno dei fenomeni che dalla biologia è emerso, riuscendo, dopo un relativamente lungo tratto di strada, a studiarla e a carpirne i segreti: il fenomeno è l'uomo e la sua produzione simbolica, culturale.
La specie umana consente un diverso modo di trasportare informazioni nel tempo, svincolato dal mero dato biologico. Da un punto di vista evolutivo, il nostro corpo è praticamente lo stesso dei sapiens sapiens che diecimila/ottomila anni fa calpestavano la terra mesopotamica; da un punto di vista culturale, però, abbiamo assistito a un altro tipo di evoluzione, sì, ma quale?
Cerchiamo, con un rapido sguardo che la mente consente, di vedere tutti i progressi avvenuti dalla costruzione della Salaria in epoca romana, al completamento della Salerno-Reggio Calabria ai nostri giorni. Ritardi sul termine della consegna dei lavori a parte, è innegabile che progresso vi sia stato, soprattutto da un (migliore e più equo?) punto di vista dello sfruttamento del lavoro e dei denari pubblici occorrenti.
Fuor di metafora: noi umani che abitiamo il presente del mondo, abbiamo un'idea di essere comunque una tappa del tour dell'umanità? E se sì, dentro questa gara in cui, malgré nous, siamo coinvolti, ci poniamo un traguardo minimo, per esempio la completa realizzazione dei desiderata scritti nella dichiarazione deidiritti universali dell'uomo? Sì, no, forse, un'altra domanda per favore?

Quello che, da concorrente nelle ultime posizioni, mi sembra di notare è la scomparsa dell'idea che il sistema di produzione capitalistico possa essere sostituito con uno più equo e più giusto nella ripartizione della ricchezza ottenuta sfruttando il lavoro salariato, sfruttando le risorse presenti sul pianeta con il concetto assurdo della proprietà (la proprietà dell'acqua, del petrolio, del gas, della terra agricola...) L'idea di poterne uscire, di poter smettere di portare ossequi e omaggi al signor padrone, al signor principale, al signor dirigente aziendale caposervo e capobastone della proprietà.
Questo non a livello locale, ma globale, naturalmente. È difficile, lo so. Soluzioni pronte non ne ho, posso solo dire di rileggere Marx e chi lo sa riportare alla luce, faccia allo stato di cose presente.

mercoledì 23 gennaio 2013

Nacqui

Nacqui
e non mi dispiacque
troppo farlo:
vivere non è mai stato un tarlo
pur se fin dal primo momento
ho capito ch'era un tormento
essere uscito nel freddo:
nonostante coperte e maglioni
dentro era meglio.

Nacqui
e non tacqui ché
sin dalle prime battute acquistai
fiducia nelle parole.
Mi dissero: chiedi
e ti saranno date fole
soprattutto se crederai
a qualcosa che non c'è.

Nacqui
non troppo lontano da qui
e mi piacqui allo specchio
come un narciso si piace:
sorridevo e vedevo negli occhi
degli altri quanto fossi capace
di illudermi d'essere
un piccolo cazzo di budda.

Nacqui
e non era una stalla
e non era Giuseppe mio padre
e non era Maria mia madre.
E infatti
se mi guardo alle spalle
non vedo nessuno che vuole
tradirmi o toccarmi le palle
come per i figli di Dio
o di puttana si suole.

Nacqui
in un giorno quieto d'inverno
tramite levatrice dai capelli rossi.
Nacqui
e tra le sue mani io mossi
i miei primi desideri umani.
Nacqui:
mi tocco l'ombelico annodato
con doppio nodo quel giorno
da quelle mani.

Nacqui
e più o meno sono contento
di essere qua
ché alla vita ci tengo
e l'interruttore non spengo
dato che al buio dovrò
starci un'eternità.

Nacqui
e dunque da nato morirò
come tutti i dannati d'altronde
mal comune mezzo gaudio
ma vorrei che da morto
potessi vedere il mio corpo
potessi ascoltare l'audio
della gente d'intorno
che mi accompagna sotterra
(non voglio andare in un forno,
meglio bruciato col sole di mezzogiorno)
il mio corpo che c'era
poterne parlare da morto
per uscire dalla morsa
della necessità.
Sarebbe bello raccontarsi
dall'aldilà. Sarebbe, ma.

martedì 22 gennaio 2013

Malati da tempo

via
Quando persone famose muoiono di cancro, quasi sempre i giornali scrivono e i telegiornali vociferano che la persona morta era «malata da tempo». Più che criticare questa reticenza espressiva - in fondo, anch'io se devo dire cancro mi tocco le palle, oddio no, neanche quelle, perché subito penso a uno come Lance Armstrong - vorrei soffermarmi sul concetto di essere malati da tempo. 
Riguardo al rapporto vita-morte, mi sovviene una massima di Xavier Bichat che ho appreso, tempo addietro, da Ceronetti: «La vita è tutto quell'insieme di funzioni che si oppongono alla morte». Ebbene, partendo da tale assunto, preferirei che l'espressione abusata malato da tempo fosse sostituita con resistente da tempo, perché quando ci si ammala, e non si vorrebbe, ci si oppone con tutte le forze possibili alla malattia, anche se, sovente, serve a poco farlo. È la resistenza, è l'opposizione che andrebbero fatte risaltare nella lotta contro la grave malattia. E quando si ricorda la persona morta perché malata da tempo, famosa o meno che sia, credo che sarebbe più opportuno e generoso dire che essa era viva da tempo e lottava strenuamente per opporsi, per ritardare - per quanto possibile - il giorno, l'ora, il momento in cui la lotta ha avuto necessariamente fine.

La consolante ipotesi che tutti morremo prima o poi, non toglie tutta la disperazione insita nella questione centrale della vita. Hai voglia a distrarti impunemente, a vivere pensando che essa non sia lì, da qualche parte, presente, impastata di spazio e di tempo. Tutte le cellule del nostro corpo che ora lavorano, più o meno all'unisono, si riassumono in quelle delle mente che ci informa che presto o tardi moriremo. Che specie del cazzo che siamo per essere così riusciti a far emergere questa consapevolezza che come noi non ce l'ha nessuno nel regno animale (almeno credo non così sviluppata). 

La finzione religiosa è quanto di più deleterio abbiamo usato e stiamo usando per diffamare questo scandalo permanente del morire. Madonna bona come vorrei abbracciare il mondo, come vorrei che quei pezzi di merda che godono della morte altrui per ottenere una giustizia terrena in nome di Dio sprofondassero in un mare di disperazione. Sono disperato a vedere queste lacrime e starò male tutta la sera.

- A tavola, la cena è pronta.

Ho fame, provo a resistere.

lunedì 21 gennaio 2013

Sono troppo timido



Baltimore

Two were alive. One came round the corner
clipclopping. Three were the saddest snow ever seen in Prairie City


Take this. Metamorphosis. And this. And this. And this.
If I'd needed your company,
I'd have curled up long before in the clock of weeds,
with only a skywriter to read by.
I'd have laved the preface
to the World's Collected Anthologies,
licked in the henbane.flavored lozenge
and more. I'm presuming,
I know. And there are wide floodplains spotted with children,
investing everything in everything.
And I'm too shy to throw away.


Due erano vivi. Uno svoltò l'angolo
zoccolando. Tre erano la neve più triste mai vista a Prairie City.


Prenditi questo, metamorfosi. E questo. E questo. E quest'altro.
Se avessi avuto bisogno della tua compagnia,
mi sarei accoccolato ben prima nell'orologio delle erbe,
con solo un aeroplano che scrive in cielo da leggere.
Avrei deterso la prefazione
e Tutte le Antologie del Mondo,
leccato la pasticca al giusquiamo
e altro ancora. Presumo,
so. E ci sono sconfinate pianure alluvionali disseminate di bambini,
che investono tutto in tutto.
E io sono troppo timido da buttare via.



John Ashbery, Un mondo che non può essere migliore, Poesie scelte 1956-2007, Luca Sossella Editore, Roma 2008, traduzione di Damiano Abeni con Moira Egan

A Baltimora non ci sono mai stato, ma sarebbe il caso, forse. Quanto sarei contento, adesso, se davvero ci fossi nella città del Maryland, a non saper spiccare bene la lingua del luogo? Mi sentirei allo stesso modo di Pietro, il santo Rinnegatore, e quindi starei zitto evitando il più possibile di scoprirmi, finché una puttana mi costringe a uno shut up detto con una pronuncia che chiaramente mi scopre e mi pone al centro di un cerchio di persecuzione, dove il gioco esige che la vittima designata sia straniera.
«Sta' calmo, non ti muovere, tu non appartieni alla classe degli eletti, sei condannato a stare dentro i margini di una miseria confortevole. Non puoi ribellarti, non puoi neanche fare alcuna chiamata di correo, perché sei dentro la prigione del merito, dell'impegno, dell'inserimento, del dire grazie alla persona giusta, alla persona giusta inchinarsi, abbassarsi i pantaloni, porgere le terga nel caso, qualunque caso. Quindi stai buono, non ti agitare, non cercare intorno a te delusioni simili, animi finto ribelli che girano l'occhio in cerca di un'intesa. Non c'è più alcuna musica che in metta in moto la rivoluzione. Stai fermo, blocca i tuoi desideri o fingi di esaudirli dentro i confini determinati della tua impotenza. Vieni a votare ed eleggi chi, meglio di te, ha saputo accondiscendere alle regole, alla prassi, alle determinazioni di una vita che non si supera e che resta tutta contratta nella finzione. Non immaginare mai niente di possibile oltre quello che ti è dato. Saremo buoni con i buoni, meno con chi non vuole esserlo. Trovati un sogno di secondo piano e cerca di realizzarlo facendo finta che sia tutta lì dentro la tua voglia di essere. Fingi di credere a questa nuova fede. E sta' un po' fermo con la mente, lasciati andare, la partita è questa e anche se non vinci, alla fine, ci sarà un premio di consolazione

domenica 20 gennaio 2013

Dio non è un grande architetto

Cari amici,
Benedetto XVI ha scritto e letto un discorso, Cor Unum. Molte agenzie di stampa ne hanno riportato passi, soprattutto per il “no” che il Papa ha detto alle «filosofie del gender» (grande Judith Butler)
Più interessante, tuttavia, mi sembra riflettere su questo brano, non corto come un tweet, ma lungo come un post:
«In ogni epoca, quando l’uomo non ha cercato tale progetto [il progetto di Dio], è stato vittima di tentazioni culturali che hanno finito col renderlo schiavo. Negli ultimi secoli, le ideologie che inneggiavano al culto della nazione, della razza, della classe sociale si sono rivelate vere e proprie idolatrie; e altrettanto si può dire del capitalismo selvaggio col suo culto del profitto, da cui sono conseguite crisi, disuguaglianze e miseria. Oggi si condivide sempre più un sentire comune circa l’inalienabile dignità di ogni essere umano e la reciproca e interdipendente responsabilità verso di esso; e ciò a vantaggio della vera civiltà, la civiltà dell’amore. D’altro canto, purtroppo, anche il nostro tempo conosce ombre che oscurano il progetto di Dio. Mi riferisco soprattutto ad una tragica riduzione antropologica che ripropone l’antico materialismo edonista, a cui si aggiunge però un "prometeismo tecnologico". Dal connubio tra una visione materialistica dell’uomo e il grande sviluppo della tecnologia emerge un’antropologia nel suo fondo atea. Essa presuppone che l’uomo si riduca a funzioni autonome, la mente al cervello, la storia umana ad un destino di autorealizzazione. Tutto ciò prescindendo da Dio, dalla dimensione propriamente spirituale e dall’orizzonte ultraterreno. Nella prospettiva di un uomo privato della sua anima e dunque di una relazione personale con il Creatore, ciò che è tecnicamente possibile diventa moralmente lecito, ogni esperimento risulta accettabile, ogni politica demografica consentita, ogni manipolazione legittimata. L’insidia più temibile di questa corrente di pensiero è di fatto l’assolutizzazione dell’uomo: l’uomo vuole essere ab-solutus, sciolto da ogni legame e da ogni costituzione naturale. Egli pretende di essere indipendente e pensa che nella sola affermazione di sé stia la sua felicità. «L’uomo contesta la propria natura … Esiste ormai solo l’uomo in astratto, che poi sceglie per sé autonomamente qualcosa come sua natura» (Discorso alla Curia romana, 21 dicembre 2012). Si tratta di una radicale negazione della creaturalità e filialità dell’uomo, che finisce in una drammatica solitudine.» 
Per iniziare, concediamo al Papa che il progetto di Dio - di ogni Dio, di ogni religione: dunque più progetti non certo coincidenti, ma lasciamo perdere - non sia anch'esso una «tentazione culturale», bensì l'unico progetto (divino, eh!) valido per tutta l'umanità. Una volta concesso questo (ch'è tanto concedere, ohimè), domandiamo al Papa che tipo di rispetto noi umani dobbiamo a un progettista che, dal presunto Big Bang in poi, ha perso totalmente il controllo della materia (e dell'antimateria), e si limita a fare da spettatore, dis-interessato delle miserie e delle glorie di una specie vivente (animale) diffusa sulla Terra, piccolo pianeta appartenente a un sistema solare periferico, di una periferica galassia dell'universo. Io penso che l'unico rispetto possibile che si debba a Dio sia non portargliene, dato che il suo progetto fa acqua da tutte le parti, pieno com'è di contraddizioni e ridondanze. Meno male Dio ha la scusa di non esistere altrimenti sai quante bestemmie si prenderebbe quotidianamente se ci fosse, altro che preghiere.

Per proseguire, notiamo come il Papa illustra, in estrema sintesi, la storia «degli ultimi secoli», per la precisione degli ultimi due o tre. Ma perché tace sui precedenti quindici (o sedici, se non faccio male il conto) secoli? Perché in quei precedenti secoli le ideologie al potere, al massimo, erano due: impero e papato, estremamente idolatrate e causa, anch'esse, di crisi, disuguaglianza e miseria; di contro, tali ideologie che il Papa non rammenta, loro sì che seguivano lo specifico progetto di tenere l'umanità chiusa a chiave nel carcere dell'arretratezza, della superstizione, dell'oscurantismo, della servitù.
Poi l'avvento graduale della borghesia al potere, la scoperta delle Americhe, il colonialismo, lo sviluppo rapido delle scienze e delle arti hanno gradualmente spodestato dal centro mondo l'autorità papale.
Ma lo Stato Pontificio, mai domo, ha cercato altre soluzioni per sopravvivere, la migliore delle quali è stata stabilire rapporti con le Potestà e i Principati, farsi da essi riconoscere come indispensabile autorità morale, come guida spirituale che tiene buone le masse e le incanta su come si fa ad andare in paradiso.

Benedetto XVI sostiene, seguitando, che dopo il crollo dei nazionalismi, dei fascismi, del comunismo e del capitalismo “selvaggio” (giacché quello in giacca e cravatta è ancora in piedi e gode di ottima salute), oggigiorno è l'individualismo l'ideologia imperante;  un'ideologia materialista ed edonista che idolatra la ragione strumentale e che mette al centro il principio di autodeterminazione di ogni vita umana. Un'ideologia che fa credere all'uomo che (a certe condizioni, dico io) è indipendente e autonomo, libero e assolto «da ogni legame e da ogni costituzione naturale»; un uomo che crede oltre la natura, così come essa si presenta, non ci sia niente, che la natura sia tutto e comprenda tutto, compreso lo sviluppo storico dell'idea di Dio nel corso dei secoli, così come lo sviluppo e il progresso tecnico-scientifico. In tutto ciò il Papa intravede «una radicale negazione della creaturalità e filialità dell'uomo», giacché cercare di carpire i segreti della “creazione” fa capire all'uomo che la specie umana non è il e non è al centro dell'universo, non è creatura prediletta tra le tante, né tantomeno figlia di chissà quale architetto che le avrebbe dedicato un progetto particolare, tutto teso a sua maggiore gloria.

Obiezione: il capitalismo non è crollato: è fallito, ed ha ancora davanti a sé una lunga stagione di potere e di sfruttamento del pianeta, uomini e donne compresi. Ma il capitalismo buono, quello che riconosce l'autorità morale e spirituale e religiosa, che bacia la mano al papa e/o lo incontra da pari a pari, che stabilisce relazioni, che concede spazi e finanziamenti pubblici alla Chiesa, questo capitalismo ancora va bene, giacché sfrutta la stampella dell'autorità religiosa per tenere buono e ossequioso quella parte di popolo che è ancora vittima di una suggestione.
L'individualismo che attacca il papa invece, pur essendo ben inserito dentro una logica di sistema, tende a togliere gradualmente alla religione ogni credibilità, e uno dei passi principali per la conquista di una coscienza generale del proprio posto del mondo (primo passo verso un'autentica coscienza di classe) si compie attraverso la “numinosa” scoperta che Dio non c'è, che Dio è un'invenzione dannatamente umana - o se anche ci fosse (quante probabilità ci sono che esista?) non sarà come la religione, qualsiasi religione, ce lo rappresenta e che, soprattutto, la mediazione Dio-clero-credente è, forse, la truffa più colossale della storia dell'umanità (truffa che ancora si perpetua).
Il Papa attacca l'individualismo per ritagliarsi ancora uno spazio di manovra, per sé e per il suo Stato, dentro una società che dei preti non sa che farsene, preti che non tengono più buone le masse dentro il perimetro del sacro. Quello che resta della Chiesa è una finzione, e gli uomini e le donne di buona volontà che ancora vi credono con spirito di amore e carità, che si prestano al volontariato e fanno da copertura allo spettacolo indecente di maschi ultrasessantenni - i quali, vestiti con delle strane vesti, vanno ancora in giro a credere di rappresentare Dio - potrebbero fare tutto ciò che fanno, meritoriamente, senza credere in Dio e nella terra promessa. Voglio sperare che i volontari non credano che la fame e la miseria e la sofferenza siano parte di un inesplicabile progetto divino, ovvero che tali fenomeni siano la manifestazione più genuina con cui Dio offre loro la possibilità di dimostrare quanto sono bravi e generosi e buoni. Ma questo è un altro discorso. Voglio solo dire che la carità è l'alibi che la Chiesa si è ritagliata per continuare a esercitare la sua influenza di potere nella società moderna, soprattutto in Italia. Se i poveri e i diseredati della terra non ci fossero, la Chiesa si troverebbe senza armi, costretta a chiudere bottega. La solidarietà è il business della Chiesa, e i poveri vanno coltivati, così come certe formiche si coltivano funghi per sopravvivere.

Cari amici,
ditemi che non sono cattivo, per la parte finale mi sono ispirato a questo post di Formamentis.

sabato 19 gennaio 2013

Parabole politiche


Parabola Giolitti, parabola Mussolini, parabola Costituente, parabola monocolore Dc, parabola Centrosinistra, parabola Compromesso storico, parabola Pentapartito, parabola Berlusconi Uno, parabola Ulivo, parabola Berlusconi Due, parabola Unione, parabola Berlusconi Tre, parabola Monti...
In Italia, ogni parabola politica definisce una traiettoria che finisce, ineluttabilmente, sulle palle del popolo - ma non di tutto il popolo, vanno esclusi coloro che appartengono alla classe del dominio, giacché son essi che determinano la politica (la lanciano al popolo).  
Purtroppo però, per difendersi da tali parabole, al popolo degli scornati non basta munirsi di parapalle. Dai posti di comando picchiano sempre più duro, seppur in modi diversi, a seconda delle circostanze storiche. È vero, ci sono stati, nel susseguirsi dei governi, colpi che sembravano carezze - vedi quella della spesa pubblica alle stelle, con innalzamento vertiginoso del debito pubblico, per accontentare molti fortunati con un posto al caldo nella pubblica amministrazione, per aver votato - e fatto votare ai familiari - il partito giusto.
Che fare? Se Beppe Grillo valesse un quarto di Piero Gobetti proverei a credergli, ma non è così, non è così. 
Il dramma resta uguale a quello descritto da Gobetti novantun'anni fa; anzi, è peggiorato, giacché l'Italia di prove ne ha avute a bizzeffe, ma gli italiani sono sempre punto e a capo, cittadini ineducati che non hanno il senso della libertà (se non quella di fare i cazzi propri).
Ma il problema non è del singolo, bensì del collettivo. La famosa questione della coscienza di classe. 
E io, che darò il mio voto al Partito Democratico, so in anticipo dove dovrò mettere le mani, dopo. 
(Spero solo che il colpo sia più leggero di quanto sarebbe se vincessero Berlusconi e la Lega).

venerdì 18 gennaio 2013

Il gelo di Dio

Stasera sono così stanco che voglio esperire la scrittura a occhi semichiusi, à la Federigo Tozzi, scrittore del primo Novecento, molto bravo, molto apprezzato dalla critica - ma io non sono mai riuscito a leggere più di qualche pagina, mea culpa, mi piace di più Romano Bilenchi.
«Durante una notte, un giovane di abitudini libertine se ne tornava a casa a cavallo. Fu colto da sonnolenza e a sua insaputa il cavallo lo portò in quel luogo a lui sconosciuto, presso l'abbazia. Una voce gli disse: “Abbandona questa vita di turpitudini. Fermati qui e inizia una vita da eremita”. Come prova che quella fosse la voce di Dio il giovane aveva risposto: “Se la mia spada trafiggerà quella pietra obbedirò”. La spada si era conficcata fino all'impugnatura nel masso ed era ancora lì, alla vista dei visitatori». Romano Bilenchi, Il gelo, Rizzoli, Milano 1982.
Dicevo della stanchezza: stasera, ritornando a casa, malgrado le mie abitudini libertine siano meno abitudini di quanto vorrei, sono stato colto da sonnolenza a mia insaputa. Mi sono fermato a lato della strada e, per vincere il sonno, complice anche il bisogno di far la pipì, sono sceso nel semibuio, poco distante in linea d'aria da una piccola chiesa sconsacrata. Mentre espletavo il bisognino, una voce, improvvisa, mi ha detto: 
«Abbandona questa vita di turpitudini, di scrittura compulsiva, inizia una vita tutta tesa a nascondere la miseria del tuo io». 
«Chi sei, cosa vuoi?»
«Sono Dio».
«E chi me lo dice che tu sei Dio?»
«Chiedimi una prova, e te lo dimostrerò».
«Se la mia fava diventerà dura guardando quella pietra, obbedirò».
«Lo vedi che sei turpe?»
Dal getto fine e intimorito della mia pipì si è alzata una timida nube di vapore. Non ce l'ho mai avuto così piccolo e così indifeso come stasera, dato il gelo.

giovedì 17 gennaio 2013

C'era due volte il monsignor Mamberti

Ogni tanto conviene andare a leggere cosa dicono dalle parti dell'organo d'informazione della Conferenza Episcopale Italiana. Conviene, sì, perché si trovano perle argomentative che brillano tra le tante pietre grigie dei soliti discorsi di politica nostrana. 
Oggi, per esempio, ho trovato la trascrizione di un'intervista rilasciata a Radio Vaticana da Monsignor Dominique Mamberti, segretario per i rapporti della Santa Sede con gli Stati. Copio e incollo alcune parti, cercando di commentarle via via. 
«[...] le questioni relative alla libertà di coscienza e di religione sono compless[e], in particolare in una società europea caratterizzata dall’aumento della diversità religiosa e dal relativo inasprimento del laicismo».
Negli ultimi anni, diciamo: negli ultimi dieci anni, sono diventato, gradualmente, laicista - lasciando cadere a terra, via via, ogni forma di personale credenza religiosa. Ciò nonostante, non mi sembra affatto di essermi inasprito, anzi: se fosse appropriato descrivere con un frutto lo smarrimento della mia (già poca) fede, non è a un limone o a un pompelmo che penso, bensì a un fico o a un caco (diospero) autunnali, dolci, morbidi, e dal gusto lungo.
«È reale il rischio che il relativismo morale che si impone come nuova norma sociale venga a minare le fondamenta della libertà individuale di coscienza e di religione. La Chiesa desidera difendere le libertà individuali di coscienza e di religione in ogni circostanza, anche di fronte alla “dittatura del relativismo”. Per questo, è necessario illustrare la razionalità della coscienza umana in generale, e dell’agire morale dei cristiani in particolare. Quando si tratta di questioni moralmente controverse, come l’aborto o l’omosessualità, deve essere rispettata la libertà di coscienza. Piuttosto che un ostacolo allo stabilimento di una società tollerante nel suo pluralismo, il rispetto della libertà di coscienza e di religione ne è condizione.»
Parlare senza dire realmente quello che si vuole dire, ma lasciarlo intendere tra le righe, in modo che, chi deve capire, capisca, quando coinvolge la sfera personale è un modo aggraziato e non sfacciato di tentare di comunicare qualcosa a qualcuno, oppure di lanciare delle timide richieste di aiuto; quando invece coinvolge la sfera pubblica (politica o religiosa) è un parlare omertoso, da figli di puttana morali. 
Che cos'è, infatti, nel concreto, secondo la Chiesa, il «relativismo morale» detto altresì «dittatura del relativismo»? Come l'oracolo di Delfi, monsignor Mamberti non dice né nasconde, ma accenna. La chiave dell'accenno è la difesa delle «libertà individuale di coscienza e di religione in ogni circostanza», vale a dire, egli strepita affinché gli Stati laici, in particolar modo l'Italia, terra dei politici tappetino del cattolicesimo, lascino liberi alcuni particolari dipendenti dello Stato (i medici ginecologi in particolare, ma anche, forse, i futuri sindaci, o altre autorità competenti in materia di diritto civile) di non ottemperare alle leggi scritte, avanzando la pretesa della libertà di coscienza. In buona sostanza, la Chiesa vuole che l'Europa non rompa i coglioni a quegli stati che chiudono un occhio di fronte al mancato svolgersi di un diritto dei cittadini, qualora le leggi prevedano, per esempio nel caso dell'aborto, che se una donna vuole interrompere la gravidanza in una struttura pubblica non debba trovarsi di fronte il dottore obiettore che ne ostacola le intenzioni e la faccia dannare perché lui è cattolico e non vuole, vada affanculo, amen - e se dopo la donna in questione, umiliata e offesa, si ribella rivolgendosi alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, e se questa istituzione condanna lo Stato italiano e gli impone di adempiere ai suoi doveri, ecco che la Chiesa chiagne per fottere ancora di più lo spazio di laicità (e di adempimento del diritto civile) che uno stato liberale deve garantire.
«Rivolgendosi, la settimana scorsa, al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Benedetto XVI sottolinea che: per salvaguardare effettivamente l’esercizio della libertà religiosa, è quindi essenziale rispettare il diritto all’obiezione di coscienza. Questa “frontiera” della libertà sfiora principi di grande importanza, di carattere etico e religioso, radicati nella stessa dignità della persona umana. Sono come i “muri portanti” di qualsiasi società voglia definirsi veramente libera e democratica. Di conseguenza, vietare l’obiezione di coscienza individuale e istituzionale, in nome della libertà e del pluralismo, aprirebbe al contrario – paradossalmente – le porte all’intolleranza e ad un livellamento forzato. L’erosione della libertà di coscienza testimonia altresì una forma di pessimismo nei riguardi della capacità della coscienza umana a riconoscere quanto è bene e vero, a vantaggio della sola legge positiva che tende a monopolizzare la determinazione della moralità. E’ anche il ruolo della Chiesa ricordare che ogni uomo, qualsiasi sia il suo credo, è dotato dalla sua coscienza della facoltà naturale di distinguere il bene dal male e quindi di agire di conseguenza. In questo risiede la fonte della sua vera libertà.»
Avete inteso? La coscienza umana sarebbe capace di riconoscere quanto è bene e vero. Ma, di grazia, qual bene o qual vero? Quello cattolico, e che cazzo, disse la marchesa. Il bene e il vero non plus ultra ce li ha il cattolicesimo, dacché i laicisti son troppo relativi. I laicisti sono così poco propensi al bene e al vero che da essi (assoluti) prendono debite distanze; magari gestiscono il bene e il vero in modo relativo a seconda delle circostanze; perché sono “dittatori” tali che, anche per fottere, chiedono l'altrui consenso, non forzando, non imponendo il loro bene, il loro vero alle persone che non lo gradiscono.


A parte.
Il titolo del post richiama un famoso libro di Gianni Rodari, C'era due volte il barone Lamberto. L'assonanza Mamberti-Lamberto lo ha provocato. Insieme a ciò, notevole è la somiglianza tra gli impiegati del barone Lamberto, e i monsignori impiegati del Papa (Mamberti tra questi), i primi avendo come compito quello di ripetere in continuazione il nome del barone, i secondi quello di additare continuamente lo spauracchio della dittatura del relativismo.

In the name un cazzo


Domani in edicola comprate Internazionale: c'è un articolo tradotto di Emmauel Carrère, scritto in compagnia di Hélène Devynck, che è un reportage dal Forum economico mondiale, dove ogni anno si incontrano grandi manager e capi di stato.
Io ancora non l'ho letto, lo farò tra poco, abbonato alla versione elettronica sono. Ma sento che sarà un reportage divertente.
Per questioni di copyright non posso riportare. Posso, tuttavia, fornire indicazione della fonte ove si trova la versione originale: «XXI È un trimestrale francese di reportage. L’articolo è uscito nell’edizione della primavera 2012 con il titolo Quatre jours à Davos.»
Comprate e leggete Internazionale tuttavia, il più bel settimanale che ci sia.

Ho perso la confessione

Michel Foucault, Nascita della clinica, Einaudi, Torino 1998 (pag. 45, traduzione di A. Fontana)
Da quanto tempo è che non mi confesso, cattolicamente parlando? Non ricordo, davvero - e un po' me ne dispiace, giacché se me lo ricordassi potrei dire, qui e ora, quali peccati confessai al confessore, non mi ricordo neanche chi era, forse un frate che passava per caso prima di una messa, boh. Posso tuttavia fare delle ipotesi: sicuramente confessai qualche atto impuro («Quante volte figliolo?». «Una per ogni tetta di fuori delle ragazze Cin Cin, padre»), qualche litigio, qualche madonna, qualche mancanza di rispetto nei confronti dei genitori, poco più.
Poi avvenne che iniziai a trovare tale pratica riprovevole: andare da un prete a fingere di dire cose che neanche si ritengono peccati mi angosciava, già la parola “peccato” in sé mi sembrò insensata, e quindi dismisi il sacramento: mi confessavo da solo quelle poche volte che mi capitava di andare a messa e prendevo la comunione («O Signore non son degno di partecipare alla tua mensa ma di' soltanto una parola e io sarò salvato» e io, puntualmente, facevo finta che tale parola mi venisse detta).

Confessarsi resta, nondimeno, una buona pratica - certamente se svincolata da ogni meccanismo religioso e moraleggiante. Confessione come analisi di sé e del proprio vivere, cosa che, in parte, da alcuni anni, sia pure in modo indiretto, tra le righe, vado compiendo qui.
Non m'illudo che essa serva a qualcosa, tipo guarire da se stessi: buttarsi fuori sì, scatarrarsi l'anima, svuotarsi la mente, qualcosa del genere insomma, per liberarsi del troppo sé che conduce a un'inevitabile ipertrofia dell'io. Molti di questi ego pieni di sé, infatti, non camminano, no, volano, come mongolfiere.

A parte.
I politici che si definiscono pubblicamente cattolici praticanti, si confessano regolarmente? E, se sì, col prete confessore parlano anche di politica? Quanti Atti di dolore devono dire per lavarsi la coscienza?

mercoledì 16 gennaio 2013

Un giorno senza testa

Alzarsi con la voglia di lasciare la testa sul cuscino, iniziare la giornata senza, come niente fosse, così. Tanto fuori è tutto così bianco, così freddo, il corpo, da solo, trova lo stesso la strada e le ragioni per muoversi, dato il freddo. Saltare colazione, dato che la bocca è rimasta a letto, accendere la radio o la tv e non udire né vedere niente - il problema è che, senza caffè e senza la rassegna stampa, non si muove il simpatico e si rischia un giorno di stitichezza: pazienza, raddoppieremo la dose l'indomani, magari con l'aiuto della foto di Alessia Marcuzzi, ignuda, mentre s'incucchiaia di bifido, capezzoli ben più turgidi delle mitragliette al reggiseno di Lady Gaga. 
Certo che, per molti umani, uscire senza testa sarebbe davvero una pratica soluzione per diventare dei cazzoni innocui che una ne pensano e cento ne sbagliano. E invece, nonostante sia facile smontarsi il cranio e lasciarlo sul cuscino oppure appoggiarlo poi sulla credenza, tanti di loro ancor si ostinano, determinati, a restare delle riprovevoli testedicazzo che s'ingegnano da mane a sera sul come perseguitare il prossimo o quantomeno rendergli la vita difficile. Pensate a Berlusconi, per esempio, come starebbe bene lui (e anche noi) se. Chissà se già qualcuno ha già prodotto una testa in bronzo del cavaliere, sul genere di quelle che tanto erano in voga ai tempi del fascio (gli artisti-artigiani dell'epoca ebbero anche il coraggio di fare il volto di un Dante fascistissimo)


Ma adesso basta, giacché scrivere senza testa dopo un po' fa venire dei giramenti di testa e io oggi ho deciso di farla riposare, di lasciarla libera da impegni, e non subire tutti i miei pensieri che, sovente, la mandano fuori di sé.

martedì 15 gennaio 2013

Suonare non è mai esser suonato

Non aveva che quanto gli restava,
ché gli restava quello che credevano.
Così si sopravvive d'interesse:
così ci s'interessa a che qualcuno
muoia per noi:

ché amare quello in cui si crede
noi non crediamo a quello che si ama...

In questo modo il volto d'un musicista
può esibirsi in moneta corrente:
Fortuna nostra che possiamo spendere
anche quanto non fu mai guadagnato.
Fortunato chi s'intende di musica!
Suonare non è mai esser suonato!

Non si ha fede nella fede che abbiamo.
Tutti credono in quello
che non sanno fare.

Carmelo Bene, Credito Italiano V.E.R.D.I., in Opere, Bompiani, Milano 1995

Credere in quello che non si sa fare, la politica per esempio. Tutti i candidati credono di saper fare politica, ci credono così tanto, alcuni appaiono così convinti che a guardarli e ad ascoltarli, senza una minima diffidenza o distacco, si finisce spesso per crederci anche noi alle lor fandonie.
Durante la campagna elettorale, luogo delle promesse, alcune delle quali solenni - fatte da persone maggiorenni a persone maggiorenni, sennò chi le fa rischia di essere accusato di adescamento minorile - spariscono dubbi e incertezze; e i candidati si presentano come prodotti di mercato che l'elettore/consumatore deve scegliere durante il carosello televisivo. È evidente che, con questo meccanismo, chi sa meglio promuovere se stesso, ha più possibilità venga scelto dallo scaffale mediatico e poi votato - nel cassonetto della cabina elettorale.
È anche per questo che Berlusconi preferisce i luoghi della pubblicità a quelli della realtà: le strade, le piazze... più che una questione di sicurezza, è la dimostrazione che egli confida a fortiori nel telespettatore più che nel cittadino che prende una bandiera e va in piazza a tifare per lui.

lunedì 14 gennaio 2013

L'abolizione del voto segreto

Stasera, dopo uno smunto Blob da parcondicio, ho messo il tg di Mentana e l'ho sentito leggere un sondaggio in cui si dice che il Pd avrebbe perso un quasi 3% di consensi rispetto a un mesetto fa.
Ho cambiato canale e ho messo France 2 per vedere un po' di bombardamenti. Non perché soffra del calo del Pd, ma perché patisco il rialzo del pattume Pdl-Lega. Non capisco, ma mi adeguo, cerco di compensare questa indecenza come posso, mi arrangio, non ho i talenti, né la forza di emigrare, la bile voglio riservarmela per incazzature più nobili, staremo a vedere. Intanto, riprendo la  suggestione di un post del  ritrovato amico blogger Valerio Mele che, in un post post-strutturalista, scrive:
ma che è questa faccenda del “voto segreto“? o del segreto in generale (secrezione oscena del corpo elettorale o di qualche organo di stato, nella metafora organicistica delle istituzioni)… che ritroviamo anche nei “servizi segreti” o nel “segreto di stato”? Perché questo doppio movimento del rappresentato e del suo segreto, questo misterioso ed esoterico sdoppiamento del codice? Perché si dovrebbe essere obbligati ad avere un’identità se poi al momento decisivo dell’esercizio della “sovranità popolare” si compie un’azione anonima come il voto? E non è perché altrimenti ognuno potrebbe votare un numero indefinito di volte (cosa che comunque registrerebbe un’intensità e un’ostinazione oltre che alla mera conta dei capi di bestiame - “ognuno conta uno”)… è chiaro che vi è qualcosa di osceno nel voto o nei suddetti servizi, dal momento che son cose che vengono nascoste. Una sorta di illegittimità legalizzata… un po’ come darsi a rapporti sessuali orgiastici restando nell’alveo rassicurante del matrimonio.
E penso che, per quel che valga, abolire il voto segreto, imporre il voto palese al cittadino elettore sarebbe una gran bella cosa, perché io voglio vedere la faccia di chi mette una croce su Berlusconi, Bossi e candidati al seguito, compreso Calderoli; vorrei vederli in faccia, così per regolarmi, per sapere con chi ho a che fare, magari perché si stabiliscano differenze e responsabilità (ripeto: nel disvalore della sovranità popolare). In fondo siamo una democrazia matura. Che vergogna c'è a mostrare a tutti per chi si vota (o non vota)? Ecco il punto. Nessuno poi dovrà dare giustificazioni a nessuno, è solo per mettere in scena, realmente, la democrazia; mentre, come fa giustamente notare sopra Valerio, il voto segreto toglie dalla scena il popolo, lo deresponsabilizza dell'accaduto - e se Berlusconi e Tremonti, e Bossi e Calderoli sono stati i maggiori statisti dell'ultima generazione, l'ultima generazione abbia da prendersi - e per intero - tutta la sua responsabilità.

Non vogliono sentir l'odore di questo motore

Bronzo di Wolfsburg
Certo, un po' sbruffoncelli lo sono, quelli della Volkswagen, però hanno avuto e hanno, per ora, ragione, industrial-capitalisticamente parlando. Sono stati e sono i più bravi; fanno bene, quindi, a “gonfiarsi il petto” e prendere per il culo Elkann e Marchionne persino sul made in Italy. Personalmente, da cittadino italiano, non mi sento certo offeso, anzi: vorrei che la Volkswagen comprasse anche l'Anomina Lombarda Fabbrica Automobili Romeo. Sai che soddisfazione sarebbe vedere un'Alfa ri-disegnata da Da Silva (o Giugiaro) anziché vederla così lentamente morire, dato che, nonostante i vari rilanci e nuovi modelli, non riesce a tenere il passo, vattelappesca perché, le Alfa Romeo non attraggono il mercato tanto quanto la concorrenza tedesca (gli italiani in primis, ricordiamolo, sono i possessori di auto più esterofili d'Europa).

Ah, dite al salvalapatriadaicomunisti (detto anche, a volte, salviamolanostracompagniadibandiera) che, nel malaugurato caso diventasse ministro dell'Economia, dia subito l'esempio e venda la sua Audi blindata prima di fare una qualsivoglia critica alla Merkel.

A parte, ma mica tanto, ho trovato questa splendida battuta che copio e incollo:
«Gli stipendi italiani sono la metà di quelli tedeschi. E un millesimo di quelli italo-canadesi.» Roberto Biozzi.

domenica 13 gennaio 2013

Pensavo al puzzone (non di Moena) prima di cena.

Io non so se davvero er puzzone, dopo essere stato ospite della trasmissione di Santoro, avrà guadagnato reali consensi per la sua performance. Non lo so, ma se sì, non capisco perché. Perché ha proposto programmi politici convincenti, ovvero promesso credibili benefici ai cittadini elettori in caso di vittoria? Perché è stato un bravo ballerino, cantante, caratterista? Perché il suo eloquio fa l'effetto sui telespettatori come il suono del flauto dell'incantatore di serpenti?
In buona sostanza, mi piacerebbe conoscere non tanto le motivazioni politiche - non ce ne sono, Orazio, non ce ne sono - quanto le motivazioni psicologiche che porterebbero molti suoi precedenti elettori, delusi dalle sue ripetute prove di governante del cazzo, a ricredersi nel vedere lo spettacolo di arte varia di uno che, di sicuro, non è innamorato di loro, ma di sé.

Misteri della fede. Annunceremo la morte della Repubblica, proclameremo la sua Resurrezione.

E Monti? Quando passano all'attacco Monti e il suo centro che non si sente centro ma che vogliono superare i concetti di destra sinistra centro? Quando iniziano a far le pulci, ora che possono, ora che devono, al colossale conflitto di interessi che riguarda Berlusconi, trave enorme negli occhi della cosiddetta democrazia liberale?

La Chiesa cattolica, dopo un primo timido sbilanciamento al centro, attende di prendere una decisa posizione, passasse il caso che er sudicio riuscisse nell'impresa, meglio tenerselo buono, in fondo può tornare comodo per difendere i valori cristiani dal relativismo nichilista.

sabato 12 gennaio 2013

Limonov c'est moi


Sto leggendo Limonov e penso che, pur essendo un libro di gradevole e scorrevole lettura, non sia un capolavoro. Non è una recensione questa, è un'impressione dettata dal fatto che la supervita del protagonista, pur tornandomi utile a incorniciare il ritratto di un periodo storico-politico peculiare (l'Unione Sovietica dal primo dopoguerra sino alla caduta del regime), non mi entusiasma, né sorprende. Le raffica di esperienze vissute sempre al massimo da Limonov, contrariamente a quanto credevo, più che gettare all'angolo la mia vita mediocre, me la rendono ancor più degna di essere vissuta, sia pure in condizioni da pulcino in batteria rispetto alle scorribande da lupo della steppa del poeta-politico russo.
Non sono un buon lettore, dato che molto spesso commetto l'ingenuità di gettare il mio fantasma dentro al libro – operazione illegittima, che manca di rispetto alle intenzioni dell'autore. Sarà anche per questo che ho cercato sempre di leggere autori che impedivano di accavallarmi tra le righe della storia – con Nabokov, per esempio, m'è impossibile entrare nei panni di, o di mettermi accanto a, dacché l'arte nabokoviana alza delle mura invalicabili e io resto fuori, da lettore, a vedere l'incantevole spettacolo che viene rappresentato.
Ma con Limonov, basta aprire la prima pagina, e pluf, subito tuffato, ma l'acqua è fredda, il mare mosso e ci sono tanti pescecani.  Riesco e ripenso – anche perché la narrazione lo esige – a quando avevo vent'anni e lessi, fresco di stampa, Fuga da Bisanzio, di Iosif Brodskij (sempre edito dai tipi di Adelphi), modello-rivale di un Limonov schiavo della mimesi di appropriazione.
E mi ricordo anche dove presi i saggi brodskiani: una tenda della pace, io, da volontario, ero dietro la bancarella dei libri (e dove sennò?), e c'erano i Litfiba in concerto (fase new wave, ancora famosi famosi non erano). Venne una ragazza, sembrava sola ma forse non lo era, forse il suo ragazzo era un fan del gruppo fiorentino e lei no, stava in disparte, venne a vedere i libri della bancarella e io le misi gli occhi in faccia talmente era bella la sua faccia. Gli occhi, chiaramente, non erano insistenti, deviavano e ritornavano su di lei, e quelli di lei facevano lo stesso, finché tutti e quattro decisero che era il caso di ritardare la deviazione e prestare alle labbra il sorriso che già manifestavano.
Si svolse tutto rapidamente: dato il rumore assordante del concerto, chiesi all'amico che, come me, presenziava la bancarella, di fare un attimo da solo, dovevamo uscire per parlare che non riuscivamo proprio a sentirci là dentro quel tendone, io e lei. E appena fuori, fatti pochi passi, sotto la luce debole di un porticato, aprii il libro a caso e lessi:
«Oggi compio quarantacinque anni. Mi trovo ad Atene, seduto al Lykabettos Hotel, a torso nudo, immerso in un bagno di sudore, intento a ingurgitare potenti dosi di Coca-Cola. In questa città non conosco un'anima. Quando sono uscito al tramonto per cercare un posto in cui cenare, mi sono trovato invischiato in una calca eccitata che gridava parole inintelligibili. Per quel che posso capirne, è una vigilia elettorale. Mi trascinavo a fatica su uno stradone interminabile, bloccato da persone e veicoli, con gli orecchi rintronati dai clacson senza comprendere una sillaba, e all'improvviso mi è balenato il pensiero che quella, essenzialmente, era la vita dopo la morte – che la vita era cessata ma il movimento continuava, che l'eternità è fatta di questo.

Quarantacinque anni fa mia madre mi ha dato la vita. Lei è morta due anni fa. L'anno scorso è morto mio padre. Io, il loro unico figlio, sto camminando di sera per le strade di Atene, strade che loro non hanno mai visto né vedranno mai. Il frutto del loro amore, della loro povertà, della schiavitù in cui sono vissuti e sono morti – il loro figlio cammina libero. E poiché non s'imbatte in loro in mezzo alla folla, si rende conto che è in errore, che questa non è l'eternità.»*
No, non lo lessi tutto, il brano – a metà circa accadde un bacio dolce, lievemente insaporito da una birra al doppio malto che avevamo deciso di bere entrambi. Presto lei s'accorse che stava facendo qualcosa che non era il caso, no, e poi io non avevo la macchina, né una casa a disposizione per insistere, mi tenni il bacio e Brodskij e ritornammo ridenti nel casino della tenda.
Non l'ho più rivista, né più ricordo il nome.

Questo patetico ricordo mi serve solo a rendere l'idea del perché Limonov è un libro che non mi piace, perché non mi racconta niente che io già non sappia pur non sapendolo, né tantomeno avendolo vissuto. Sono diventato presuntuoso. Ho quarantacinque anni, capitemi bene, l'età giusta per esserlo – e non esserlo, ovvero per sapere, per osare credere quali siano le cose che vadano ancora imparate e lette, cose tali che dispieghino il tempo che resta, lo stirino con il ferro a vapore della mente, per scriverci sopra, per metterci dentro tutto quanto questi organi che non hanno bevuto vodka saranno capaci di esprimere.

E ora basta. Vado a finire di leggere il libro.

*Iosif Brodskij, Fuga da Bisanzio, Adelphi, Milano 1987 (traduzione di Gilberto Forti).