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lunedì 9 maggio 2011

Camminare ai margini


Lungo la polvere che ricopre sottilmente i fili d'erba delle banchine stradali, le polacchine di camoscio, ormai ridotte a un tenue strato di suola che lascia filtrare subito l'umido delle pozzanghere, imprimono tracce lievi e sollevano ciuffi bianchi di soffione, che infastidiscono (cof, cof), anch'essi, una respirazione già compromessa, purtroppo, da tutti i veicoli a motore che transitano senza tregua.
Tutto questo, tuttavia, non impedisce a Raul di camminare ai margini della strada, proprio in fossetta: egli non si fida dell'appariscente striscia bianca che delimita il bordo della carreggiata; non sopporta, poi, il fatto di dover tenere un piede sull'asfalto e l'altro sulla nuda terra. Mormora, tra sé e sé: «Perché devo camminare contemporaneamente su due superfici diverse? Quale sarebbe poi delle due la migliore? Dacché, sicuramente, una superficie è megliore dell'altra, per quale ragione devo mettere un piede sul meglio e uno sul peggio? Considerato che camminare come un acrobata sulla linea bianca è pericoloso (passano troppi autoveicoli rasenti rasenti col rischio che m'investano), allora cammino qui sotto, e anche se è più difficoltoso e, a volte, impervio, i piedi, anzi: le polacchine consunte, le tratto in egual misura: così è vera parità dei diritti! Così è vera uguaglianza! Così è vera democrazia!».
Raul aveva molti chilometri di banchine stradali alle spalle e molti veicoli che gli erano passati rasenti rasenti davanti ai suoi occhi vigili. A volte egli si metteva a contarli, a suddividerli, a selezionarli. Censiva, sondava perfino senza l'aiuto di carta e penna o altri ammennicoli elettronici. La sua era una vera e propria mania statistica che lo aveva posseduto fin da ragazzo. Tutto era cominciato sui banchi di scuola, durante l'ora di religione (occupava un banco vicino a una finestra che dava su una tangenziale).
Il dato più eclatante che aveva rilevato era che, nel corso di un ventennio, la percentuale degli autoveicoli stranieri era passata da un miserabile 40% al ragguardevole 80% dell'intero parco auto circolante. Povera Fiat, povera Italia.
A chi gli domandava cosa avrebbe fatto da grande, rispondeva: «Operatore per indagini conoscitive sui trasporti e sulla viabilità presso la Società Autostrada, o presso l'Anas, o presso la Provincia». A suo disdoro, Raul è diventato un normale disoccupato. Comunque sia, tutte le volte che, durante le sue passeggiate stradali, incontra alcuni dipendenti delle succitate aziende, i quali eseguono i vari tipi di manutenzione ordinaria e straordinaria della viabilità stradale, egli si rivolge loro con lo stesso garbo ed eleganza di un principe dignitario che si rivolge ai suoi giardinieri nel magnifico parco della sua magione. Ciò nonostante, tali scortesi lavoratori, si burlano di Raul, mandandolo altresì con frequenza a quel paese. 
Quale paese?
Raul cavalca le fossette, le sue polacchine trottano o galoppano a seconda della sua andatura.
Oggi è un giorno di inoltrata primavera: possiamo ammirare Raul affrontare un lunghissimo rettifilo. Il sole è alto e caldo, il vento teso, i pollini volano e fluttuano nell'aria con vivacità. Tutto questo svolazzìo provoca in Raul un fastidioso prurito, anche a causa del debole traffico che gli impegna poco la vista. Essendo allergico alle graminacee e altro tipo di erbe, Raul sa benissimo che l'errore più grave sarebbe quello di grattarsi. Quindi pensa bene di chiudere gli occhi, di mettersi le mani in tasca e di continuare a camminare. In fondo al rettifilo s'intravvede un ponte che attraversa un fiume. La fossetta dove Raul cammina è laterale al parapetto. Speriamo che qualche automobilista se ne accorga e, con un colpo di clacson, gli faccia riaprire gli occhi. 

sabato 25 dicembre 2010

Luminaria (racconto di Natale)

Raul era arrivato affannato all'appuntamento. Varie traversie si erano frapposte tra lui e il luogo dove lei lo stava aspettando. Per niente al mondo avrebbe voluto tardare, ma aveva sbagliato a calcolare il tempo che gli sarebbe occorso per compiere alcune commissioni personali: l'acquisto di un chilo di clementine affogliate, di tre mele ruggine, di due banane; la riconsegna di un libro in biblioteca; la spedizione di un calendario coi disegni di Eleuteri Serpieri a un amico lontano.
La successiva corsa che fece dall'ufficio postale alla sua auto fu, per lui, estremamente faticosa: le mani ingombre di fagotti di frutta e di nuovi libri presi in prestito, i piedi costretti in un paio di scarpe di cuoio non troppo comode, un abbigliamento un po' troppo pesante per l'inconsueta mitezza dicembrina – tutto questo lo fece sudare e accrebbe in lui il timore di presentarsi malconcio all'appuntamento.
Mara lo aspettava a bordo della sua auto nell'affollato parcheggio del cimitero, uno dei pochi ancora non a pagamento, ma relativamente vicino al centro. Il ritardo fu minimo, insignificante, pienamente giustificabile. Tuttavia lei mise subito il muso e si tacque. Dopo avergli lanciato un'occhiata rapida e sprezzante, lei volse lo sguardo in un qualsiasi punto dell'universo che non fosse lui.
Il silenzio imbarazzante fu spezzato soltanto dal rumore di vari veicoli, fastidiosi squarci di bieche e putride marmitte, ronzii di api piaggio, tremori cupi dei tir, giganteschi gracchi di autobus. Ancora silenzio tra loro. Il viso di lei sempre piegato verso ognidove fuorché il suo – mandibola di marmo. «Oh, se solo tu fossi davvero una statua, adesso almeno ti potrei parlare, sfiorare» si diceva tra sé Raul cercando di bloccare un piccolo rutto e un singhiozzo: la digestione andava avanti anche se aveva voglia di piangere e, per non farlo, continuò a pensare a quale tattica intraprendere per reclamare l'attenzione di quegli implacabili occhi. Mara era ancora più bella quando assumeva quell'aria altera: il suo seno conosceva in quei momenti d'immobilità e d'indifferenza il massimo di floridezza: sembrava esplodere sotto quella fine, aderente maglia avorio mistolana dal collo tondo e leggermente allargato – paradiso delle mani di lui in quei momenti interdetto.
Raul sapeva che ogni suo possibile tentativo retorico, che qualsiasi parola avesse detto, essa si sarebbe franta contro la teca di vetro inscalfibile che la custodiva. Era inutile insistere, lei non avrebbe parlato, non ora, non subito almeno. Allora Raul scese di macchina ed entrò nel cimitero. Si fece il segno della croce senza nemmeno pensarci, come un riflesso condizionato (tuttavia allo Spirito Santo si guardò intorno per controllare che nessuno lo vedesse). Non sapeva nemmeno bene perché era entrato, ma visto che c'era avanzò per andare a trovare i nonni. Lanciò un rapido sguardo all'irregolarità delle tombe italiane, sulla bruttura sfarzosa di certe lapidi, sullo squallore delle foto a colori dei defunti.
Cosa importa stare a spiegare che lei lo voleva lasciare, dire che Mara nel suo nuovo impiego aveva stretto una relazione “particolare” col figlio del principale, il principalino, con la sua potente attrattiva socio-economica e la garanzia di un futuro (uhi uhi il futuro) meno incerto, più garantito. «Oh, che miseria queste connotazioni sociali! Peggio ancora le connotazioni morali! Cosa sono queste intromissioni» – pensava Raul dopo aver detto, sottovoce, il requiem æterna ai nonni e ritornando verso di lei.
Il piazzale del cimitero, rammentò, fu il luogo ove si appartarono per la prima volta. Gli sarebbe piaciuto andarla a trovare lei al cimitero, ora, sottoterra. Salutarla, accarezzare il suo volto bello da lui colto in una foto in uno dei giorni della loro prima primavera, portarle finalmente dei crisantemi (fiori ingiustamente riservati ai morti), parlarle nel silenzio dei giorni come questi dove poche persone frequentano i cimiteri. Saperla lì sarebbe stata per lui una consolazione. Ma per andare a riposare in pace ella avrebbe dovuto morire e il pensiero della sua morte era solo una rapida immaginazione su un possibile scenario. Tuttavia, mai e poi mai aveva desiderato che morisse; prefigurava solo cosa la morte di lei avrebbe comportato; ma faceva così in fretta ad immaginarlo che non era possibile costruire scenari che gli rendessero l'ipotesi della sua morte appetibile.

Uscì dal cimitero. Lei era entrata nella vecchia utilitaria di lui: era tempo che non accadeva questo, da quando, circa un anno prima, lei si era comprata una nuova autovettura. Da quel momento ella ebbe come un rifiuto nel salire in quell'auto che considerava miserabile. Eppure, le ricordava lui, era proprio il luogo dove avevano consumato il loro primo amore.
Raul salì in macchina. Il silenzio e l'immobilità di Mara perduravano. Lo specchietto retrovisore era tutto girato verso di lei. Imbruniva. Lui allungò una mano sulla coscia di lei. Lei allungò uno schiaffo sulla guancia di lui. Lui allungò il braccio intorno al collo di lei. Lei allungò il collo e addentò la mano di lui. Lui bestemmiò, quindi accese il motore e partì. Solo quando raggiunsero il viale del centro illuminato, egli s'accorse che la sua mano destra sanguinava. Bestemmiò in silenzio contro se stesso. Era gonfio di rabbia, i denti serrati, i nervi come corda di violino; ma non disse una parola.
«Io non capisco come tu faccia: io non so proprio perché non reagisci, perché non mi picchi. Io, col mio primo fidanzato, poco prima che ci lasciassimo, ci davamo certe legnate, certe botte, che si tornava a casa tumefatti di lividi ed escoriazioni. Tu invece ti fai sanguinare la mano, ma non reagisci. Io voglio che tu mi picchi», disse lei.
Egli seppe allora di aver ragione, seppe che sarebbe stato sconfitto. Uscì dall'auto, da solo, e si perse nel fiume di gente del corso cittadino. Le luminarie natalizie si moltiplicavano sotto le lenti delle sue lacrime.