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giovedì 19 aprile 2018

Un giovane hegeliano

[***] Ieri pomeriggio, a Fahreneit (Radio Tre) [***], insieme al celebre giornalista Gad Lerner (il quale presentava La difesa della razza, trasmissione che prossimamente andrà in onda su Rai Tre), è stato intervistato Christian Raimo, presentato dal conduttore come giornalista, scrittore, insegnante. 
Argomento trattato è stato, beninteso, il ritorno di fiamma del razzismo, del perché sia così diffuso nel nostro paese, rafforzato certo dal sostegno di movimenti o partiti politici che soffiano sul fuoco del malcontento popolare faccia alla radicata presenza di una consolidata numero di "stranieri" presenti nel nostro territorio nazionale (ci rubano il lavoro, stuprano, scaracchiano per terra e - peggio mi sento - pregano iddii che suggeriscono loro di convertire o ammazzare gli indigeni infedeli, cioè noi che siamo passati a cresima).
Gli ospiti, a domanda del conduttore, hanno risposto. Hanno detto cose. Tra queste, una in particolare profferita da Raimo, il quale - in sostanza - lamenta il fatto che, mentre a destra vi sono molti ideologi e intellettuali che danno sostegno teorico a tesi suprematiste, pararazziste, nazionaliste e rizzati («una intellettualità nuova, forte, formata» e tra questi cita pure Fusaro), a sinistra, invece, non c'è nessun intellettuale e nessun testo di rilievo («faccio fatica a trovarlo») che possa essere faro delle tesi opposte, internazionaliste, cosmopolite, neoumaniste.
Sentito questo discorso, ho pensato che Raimo, oltre a essere stato scortese nei confronti dello stesso Lerner (in fondo, non è intellettuale anche l'immarcescibile Gad e, insieme, pure un pochino di sinistra?), in quanto insegnante, giornalista e scrittore  chiamato a dire la sua in una trasmissione culturale della Rai, se non è un intellettuale anch'egli, che cosa è? Un intellettuale vecchio, debole, informe? No, un semplice giovane hegeliano.

Poiché questi Giovani hegeliani considerano le rappresentazioni, i pensieri, i concetti, e in genere i prodotti della coscienza, da loro fatta autonoma, come le vere catene degli uomini, così come i Vecchi hegeliani ne facevano i veri legami della società umana, s'intende facilmente che i Giovani hegeliani devono combattere soltanto contro queste illusioni della coscienza. Poiché secondo la loro fantasia le relazioni fra gli uomini, ogni loro fare e agire, i loro vincoli e i loro impedimenti sono prodotto della loro coscienza, i Giovani hegeliani coerentemente chiedono agli uomini, come postulato morale, di sostituire alla loro coscienza attuale la coscienza umana, politica o egoistica e di sbarazzarsi così dei loro impedimenti. Questa richiesta, di modificare la coscienza, conduce all'altra richiesta, di interpretare diversamente ciò che esiste, ossia di riconoscerlo mediante una diversa interpretazione. Nonostante le loro frasi che, secondo loro, « scuotono il mondo », gli ideologi giovani-hegeliani sono i più grandi conservatori. I più giovani tra loro hanno trovato l'espressione giusta per la loro attività, affermando di combattere soltanto contro delle «frasi». Dimenticano soltanto che a queste frasi essi stessi non oppongono altro che frasi, e che non combattono il mondo realmente esistente quando combattono soltanto le frasi di questo mondo. I soli risultati ai quali questa critica filosofica poteva portare erano alcuni e per giunta parziali chiarimenti, nel campo della storia della religione, intorno al cristianesimo; tutte le altre loro asserzioni non sono che altri modi di abbellire la pretesa di aver compiuto, con quei chiarimenti insignificanti, scoperte di importanza storica universale. A nessuno di questi filosofi, è venuto in mente di ricercare il nesso esistente tra la filosofia tedesca e la realtà tedesca, il nesso tra la loro critica e il loro proprio ambiente materiale. 
Karl Marx, Friedrich Engels, L'ideologia tedesca, 1846
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[***]
Chiedo venia, perché ieri notte ho pubblicato il presente post senza la parte iniziale indicata dagli asterischi.

giovedì 27 luglio 2017

La palla delle generazioni

C'è uno «scritto» di Christian Raimo pubblicato dar sito Minima Moralia che ho provato a leggere fino a un certo punto, saltellando tra i capoversi, nei tempi di recupero tra un esercizio e l'altro, in palestra, così non vedevo l'ora di tornare a faticar per interrompere la fatica della lettura, appunto.

Sarà perché sono un provinciale poco ammanicato senza pretese e quindi esente (almeno credo) dal tipico atteggiamento risentito di chi vede qualcuno che occupa una posizione di prestigio immeritata: per me tutti meritano, anche quel mio compagno di corsi universitario che a forza di portare la ventiquattr'ore e porgere l'ombrello in caso di pioggia al prof ordinario, insisti insisti, ce l'ha fatta a ottenere un posto fisso come ricercatore di chissà che tipo di ricerca filosofica.

Quindi, lo dico in virtù del mio aplomb e del mia marginalità: con questa razza odierna di intellettuali che occupano i posti di nicchia (nicchia nicchia ponza ponza) dell'informazione, niente, non si fa una sega nulla, non si segano tralicci della luce, non si lanciano sampietrini in testa alla testedicazzo a prescindere, non si scortecciano gli alberi genealogici della classe dominante, si perpetua il dominio attuale e si fanno discorsi che mamma mia dire del cazzo sarebbe un complimento.

Eppure Raimo dice anche cose che, isolate e sintetizzate meglio (non lo farò io, ecché, c'ho scritto jocondor?), potrebbero risultare interessanti come piattaforma programmatica per buttarsi sotto, quando sotto non c'è una piscina o il mare, ma l'asfalto.

Stringo, che già abissalmente lungo e tedioso è lui. Riprendo giusto due passaggi, quelli che più mi hanno sdraiato in terra come un lottatore di sumo: il primo, quando egli racconta di aver intervistato una precaria cognitiva che rimediava circa settecento euro al mese, dalle quali sottraeva duecento per l'affitto condiviso con altre quattro donne a Tor Pignattara e, inoltre, trecento euro per «fare analisi».
«Ne aveva assoluto bisogno perché si sentiva piuttosto depressa [...] Alla fine di quella lunghissima intervista, che si era tramutata in un botta e risposta sulle condizioni materiali e morali di vita negli anni Zero italiani, me ne andai a casa triste. Dovevo ammettere che la mia situazione non era troppo differente dalla sua; eppure, oltre questa sorta di empatia e di ri- specchiamento, non era scattato nessun senso di identità condivisa, nessun grumo di coscienza di classe, come si sarebbe potuto dire.»
Ora, sarò superficiale e quindi poco intellettuale, tuttavia, se mi posso permettere, se volevi veramente far scattare un "senso di identità condivisa", o anche un "grumo di coscienza classe", dovevi invitarla a cena, cazzo, magari spendendo i soldi avuti per l'intervista che ti avevano commissionato.

Infine, secondo passaggio:
«C’è un episodio spesso ricordato da uno scrittore, Giorgio Vasta. Era la primavera del 2011 e la casa editrice Laterza ospitò un incontro che coinvolgeva quelli che in una lettera aperta sul Sole 24 Ore erano stati chiamati tq, intellettuali vari trenta-quarantenni. A un certo punto qualcuno, forse Vanni Santoni, forse Nicola Lagioia, per dare forza retorica al suo intervento, tirò fuori, quasi come sberleffo, un dispenser con del- le pilloline, dicendo una cosa del tipo: "Io sto così, mi capite!". Fu un attimo, che una alla volta, dieci, venti persone presero dalle loro borse, dalle loro tasche, i loro dispenser, le scatoline, le confezioni, le bottigliette di sonniferi, Xanax, melatonina, Tranquirit, Rescue e fiori di Bach vari. Si trattò di un momento di grande riconoscimento, a conti fatti l’atto fondativo di quel movimento di lavoratori della conoscenza che si sarebbe chiamato tq appunto.»
Sarò stronzo, tuttavia io, al sopra descritto mainstream culturale, preferisco (al momento preferivo, finché non tornerà in pista) di gran lunga gli affacci e le mosse estetizzanti di Lapo Elkann campione di razza che non si nasconde nei bunker della discrezione empirea (come fa il fratello o altri figliocci beneducati di papà). Almeno lui è divertente e rivela la superficie, la crosta esotica delle miniere inesplorate del capitale.

mercoledì 8 giugno 2016

La spremitura

Bisogna fare complimenti a Christan Raimo, giornalista e scrittore (e credo pure professore d'italiano in qualche liceo romano) per l'inchiesta-reportage scritta per Internazionale sui supermercati aperti ventiquattro ore al giorno.

A margine di essa, in ispecie dopo certi passaggi:
«Quel giorno entrando in diversi Carrefour si faceva difficoltà a trovare un addetto, sembrava veramente che fosse uno sciopero riuscito. Ai pochi che c’erano ho chiesto: “Quanti hanno scioperato qui?”.
“Tutti”.
“E tu perché non hai scioperato?”.
“Perché ho un contratto per una società esterna”. 
Al banco dei salumi, o a quello del sushi lavorano per esempio persone che non sono assunte da Carrefour ma da agenzie interinali: sono stati chiamati apposta a lavorare per sostituire il personale in sciopero il 28.
Una di loro mi ha detto: “Che dovevo fare? Ho un contratto che mi rinnovano di settimana in settimana da ormai un anno, una figlia piccola…”. Un’altra donna, anche lei madre, l’avevano chiamata la settimana prima quando lo sciopero era stato confermato: “A me fanno dei contratti giornalieri. Gli potevo dire di no, per solidarietà ai colleghi? Non mi avrebbero più chiamato”.
I dirigenti di Carrefour sostengono che sempre più lavoratori sono contenti di lavorare in modo flessibile, di fare esperienza, di poter gestire il proprio tempo. Praticamente però tutto quello che mi raccontano i lavoratori mi dice il contrario: desiderio di stabilità, bisogno di certezze, e stanchezza, moltissima stanchezza – l’esasperazione di questi contratti di lavoro che sono spesso brevissimi o intermittenti.»
mi viene da chiedergli se, in quanto professore, quando parla (se parla anche) di questi argomenti in classe, soprattutto agli studenti più grandi e vicini al diploma, che effetto ottiene con la scolaresca? Straniamento lunare? Disperazione? Pungolo (stimolo allo studio)? Ribellione? Rassegnazione? Indifferenza?

Come si preparano, insomma, i giovani al futuro? Non certo con queste domande retoriche
«Possiamo accettare che qualcosa non serva a niente? Possiamo immaginare che ci sia una parte del nostro tempo che non è dedicata al consumo e all’accumulazione di capitale? Possiamo dare un senso al perdere tempo? Alla gratuità della pura riflessione, di un’esistenza che almeno per un momento non abbia nulla di funzionale?»
Giacché, anche rispondendo affermativamente a tutte, Raimo non mette mai in discussione il fatto che il sistema economico e produttivo capitalistico - responsabile di queste nuove forme di schiavitù - sia l'unico modo che gli umani hanno per organizzare la produzione, l'economia, tout court: la vita.

Finché per vivere la stragrande maggioranza degli umani dovrà vendere la propria capacità lavorativa a una minoranza che la compra per estrarre dal pluslavoro, plusvalore, finché tutto ruoterà intorno a quella cazzo di merce prodotta per essere venduta e quindi consumata scartata in un ciclo produttivo che si crede infinito, non riusciremo a immaginare che ci sia una parte del nostro tempo che non sia dedicata al consumo e all'accumulazione, non potremo dare un senso alla perdita di tempo, alla gratuità della pura riflessione (si calcoli il numero dei disoccupati che frequentano le biblioteche), non vivremo neanche per un momento senza pensare in funzione di come riuscire a pagare il nostro sopravvivere.

venerdì 9 maggio 2014

Non c'è nemmeno bisogno di scrivere

Pochi anni fa, ho avuto il privilegio (onere e onore) di man-tenere una rubrica settimanale (tag: I piedi a terra) su Giornalettismo, a titolo completamente gratuito, ove esprimevo, commentavo, raccontavo qualcosa di inerente gli avvenimenti che schiumavano sulla broda mediatica della settimana.
Smisi per varie ragioni, la principale è perché mi faceva fatica sostenere tal obbligo espressivo settimanale, dover comporre con cura un articolo coerente (un principio, uno sviluppo, una chiusa), e poi perché non sempre, non su tutto potevo (posso) aver qualcosa da dire, trovare parole giuste, agganci e appoggi para intellettuali, eccetera (qui sono libero di scrivere eccetera senza onta, anche lasciando a mezzo i discorsi).
Vero è che grazie a tale rubrica ho ampliato la mia platea (oddio che brutta espressione, la cambio) - ho avuto modo di raggiungere un pubblico più ampio e variegato, persone che poi - bontà loro - hanno continuato a leggermi anche qui.
E tuttavia non mi pento della mia scelta, perché so che prima o poi avrei dovuto occuparmi anch'io di qualcosa del genere, scrivendo magari le stesse parole qui sotto di Christian Raimo che, se le avessi scritte, dopo, mi sarei preso a schiaffi da solo.
«Non c’è nemmeno bisogno di citare René Girard e la sua psicologia delle folle (i suoi capri espiatori, la sua violenza mimetica) per provare a commentare la narrazione tossica che ha avuto il suo incipit sabato 3 maggio con le notizie degli scontri vicino l’Olimpico ed è proseguita con la telecronaca Rai della contrattazione tifosi-giocatori-polizia dentro lo stadio e poi ha ingrossato la fiumana di indignazione nazionale contro gli ultras e l’incarnazione iconica espressa da Genny ‘a Carogna.»
L'unica giustificazione per scrivere un articolo così è che, forse (supposizione assolutamente non maligna), l'autore è pagato, anche poco, per scrivere una roba così - ed ha un “dovere” settimanale di mantenimento sua rubrica. 
Per il resto, maremma schifosa, come cazzo si fa a scrivere «narrazione tossica», oppure «ha ingrossato la fiumana di indignazione nazionale» oppure (il colpo più basso), «l'incarnazione iconica»?
La libertà del blog, anche se a volte, come spesso capita, come ora per ora per esempio, non ho niente da dire, è quella di permettermi il lusso di evitare simili nefandezze espressive. E senza avere bisogno di citare qualcuno per dire che non si ha bisogno di citarlo. 

domenica 12 giugno 2011

Critica della ragione veltroniana

Micidiale Christian Raimo. Dopo una recensione del genere, sinceramente, fossi Veltroni preferirei ritirassero il mio libro dal mercato.

P.S.
Se casomai un giorno avessi ispirazione, forza e costanza per scrivere un libro, mi troverei costretto a implorare Christian di gettarci un occhio prima che qualche tipo lo pubblichi.

sabato 7 maggio 2011

Provoca dipendenza 2

Premetto: sono iscritto a Facebook ma non ne sono un fanatico frequentatore. Sì, anch'io metto foto, qualche scritto breve, a volte clicco "mi piace", linko video e post miei e altrui, chatto saltuariamente con amici e amiche, e ho conosciuto - ma guarda un po' - persone senza conoscerle fisicamente, avendo la sensazione di esserne diventato amico sul serio. Comunque, sia detto a mio disdoro, ultimamente lo frequento poco, forse per supponenza o, semplicemente, perché amo molto di più bloggare in tutte le sue forme (attive e passive).
È probabile che, istintivamente, avverta che Facebook sia una gigantesca macchina di controllo ontologico  e di sfruttamento a gratis di quello che vorremmo essere e non siamo. Quindi, quando leggo articoli come questo, mi dico: meno male qualcuno riesce a formulare analisi critiche soddisfacenti del fenomeno facebookiano. 

E quella di Christian Raimo è un'ottima analisi critica che mi sento di condividere sì, ma fino a un certo punto. Questo: io non ci vedo nulla di male nel "tempo rubato" dallo Zuckerberg, detto l'Uomo Grigio. Cioè a dire, perché mi devo preoccupare se un individuo - che ha scoperto un meccanismo per fare soldi "geniale" - convince delle persone a seguirlo con le sue nuove "subdole" proposte che illudono di far guadagnare gli iscritti, quando poi, in fondo, è lui, l'Uomo Grigio, l'unico che ci guadagna?

Io non vedo nulla di male in quest'ottica paradossalmente iperdemocratica che consentirebbe di parcellizzare i guadagni per tutti gli iscritti facebookiani che si pigliano la briga di sorbirsi per intero gli spot pubblicitari proposti. E non ci vedo nulla di male perché nessuno obbliga nessuno e Mark Zuckerberg non ha avuto e non avrà (si spera) bisogno di specifici decreti governativi per trasmettere le sue boiate pubblicitarie; Mark Zuckerberg non monopolizza, col beneplacito statale, un bene pubblico. Egli, ripeto, ha semplicemente ideato un meccanismo di condivisione dove, sulla carta, ogni persona ha un nome e una sua specificità. In buona sostanza: chi usa Facebook e dirige un particolare mercato pubblicitario lo fa, più o meno, consapevolmente, offrendo un indice di rilevazione abbastanza attendibile per le aziende che pagano per essere pubblicizzate. Chi misura, invece, la quantità di volte che uno cambia canale televisivo (o toglie l'audio) non appena viene annunciato un blocco pubblicitario in tv?

Pur avendo molteplici sfaccettature, sia brillanti che opache, Facebook è il fenomeno internet che maggiormente può spezzare il monopolio del mercato pubblicitario televisivo. E questo, in Italia soprattutto, non può che essere un bene.

Perché lo Zuckerberg non sta parassitando uno stato come Berlusconi, come i magnati russi, come i petrolieri arabi o venezuelani o italiani, o altri famelici oligarchi sparsi per il pianeta. Zuckerberg ha inventato un marchingegno che ha avuto successo grazie al desiderio mimetico: gran parte di noi umani siamo degli assetati di essere, bisognosi di essere "riconosciuti", identificati, per sentirci vivi. 

Facebook è una specie di banca che offre una sorta di microprestito ontologico al quale tutti possono avere accesso in cambio del proprio nome e cognome: e se vuoi un minimo credito in più mettici pure la tua fotografia.

martedì 5 ottobre 2010

Il sesquipedale Riotta

Avevo letto anch'io quel piccolo intervento a firma Polaris sulla Domenica del Sole 24 Ore.
Ma non avevo ritenuto la pena di commentare, perché non avevo voglia, non mi sentivo in forma di riportare simili parole, ritrascriverle soprattutto, dacché non erano linkate. Mantellini provvede con garbo, inserendo delle sue note che paiono medicare un po' la bile espulsa contro i bloggers dallo pseudonimo dietro il quale pare si nasconda Gianni Riotta.
Aggiungo solo, che per mia parte, e non certo a mia difesa, per come intendo modo e metodo di comunicazione del blogger, comincio a capire le ragioni della astiosità riottiana. Egli è preoccupato perché teme che i bloggers sottraggano terreno con la gratuità dei loro pensieri ai suoi dei pensieri; egli teme l'abbandono del lettore che non capisce bene più perché debba stare a leggersi il Riotta quando ha a disposizione un mondo di intellettuali (dilettanti o meno) più in gamba. Egli, non avendo più una mazza da dire per far contenta la Confindustria e i Sindacati, oppure Marchionne e il semplice operaio Fiat, o ancora il Vaticano e la laicità dello stato, riproponendo le solite frittate di uno che prima era totalmente esposto verso le ragione dei secondi termini dei binomi proposti - mentre ora invece si trova in toto dalla parte del potere, epperò non ha il coraggio di ammetterlo pienamente per non passare come anima venduta.

Io non so bene quali e quanti siano i miei lettori. Posso vedere le statistiche per capire, più o meno, quanti siano, per vedere persino con meraviglia che qualcuno mi legge anche da Singapore.
Ma però se qualcuno passa di qui non è perché io dico merda merda o cazzo cazzo; non dico stronzo stronzo o culo culo così a caso come fossi uno Sgarbi qualsiasi. (Perché conoscete ancora qualcuno che si prenda la briga di ascoltarlo uno così che sbava rabbia e spavento? Boh, forse un pubblico lo avrà, non ci sono limiti alla perversione). Ma ciò che Riotta teme non sono tanto coloro i quali pensa di rivolgersi offendendo. No, lui teme quelli come me, quelli come tanti amici linkati qui, come tanti bloggers che ho nel reader ai quali Riotta oramai non saprebbe nemmen legar le scarpe. E vedo ancora e constato con fatica che anche le nuove firme, anche autorevoli, che hanno il privilegio di scrivere per l'inserto culturale più prestigioso tra i quotidiani italiani, soffrono la pena di non esser più  presi in considerazione. Penso a un Gianluigi Ricuperati, a un Christian Raimo, a un Sergio Luzzato i quali oramai traggono vantaggio solo dal fatto di ricevere un piccolo compenso dallo scrivere lì ma non certo perché i loro articoli pubblicati significhino l'apertura di un dibbatito: lo spazio pubblico è qui sulla rete, qui si può «cominciare a pensare a come ricostruire un piccola civiltà culturale» (Raimo).
È Riotta quindi il rancoroso, non il blogger, se è Riotta colui che si cela dietro uno pseudonimo per dire simili stronzate. Niente di male per carità nell'uso di uno pseudonimo. Ognuno sceglie il nome che vuole per rappresentare le proprie ubbie intellettuali. Ma Polaris mi sembra davvero un nome inappropriato, perché simili sciocchezze non guidano alcun viandante nella notte né della rete né dei lettori dei quotidiani.