A Giovanni Raboni
Io, sovente, perdo
spesso la conta degli anniversari.
Questo però non è importante:
importante è tenere a mente
la faccia e la mente di chi
si vuole ricordare.
E io ricordo Giovanni alla stazione
una mattina fredda di gennaio
vestiti quasi uguale, io giovane
lui meno ma forse il giovane era lui
e io già vecchio con quel cappello
che nascondeva i capelli neri
e i suoi bianchi a illuminare
la Centrale di Milano.
Lo riconobbi, ci stringemmo la mano
e chiese: "Dove va?" e io
non seppi rispondere perché
pur viaggiando mi sentivo di star fermo
davanti a lui che primeggiava
io facendomi sempre più piccolo
sebbene non in lui ci fosse
la volontà di porsi sul piedistallo
del Poeta. "Vorrei andare nella
sua stessa direzione" dissi, incerto,
con un velo di rossore. E lui rispose:
"Non glielo consiglio se vuole
restare inascoltato, se vuole
avere voce in capitolo, se vuole
avere un posto nella storia
o anche un semplice posto di comando".
Ci congedammo così con le sue parole
e un sorriso largo e complice che ci unì
nell'istante del saluto. Ognuno poi salì
sul treno per il suo viaggio.
Dopo tanti anni, posso dirti, Giovanni,
che, pur non volendo contraddirti,
non ho seguito il tuo consiglio,
ho dato ascolto alla voce tua
e di altri che non volevano
che li si ascoltasse. Meglio stare
ai margini della storia e lanciare
versi al cielo o seminarli in terra
perché comandare non è mai e poi mai
meglio che fare l'amore
o tentare di darlo con una parola o due
capaci di toccare l'anima e muovere
il palpito del cuore.
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