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lunedì 22 giugno 2015

Un dio decrescente

VENTO SULLA MEZZALUNA
Edimburgo
Il grande ponte non portava a te.
T'avrei raggiunta anche navigando
nelle chiaviche, a un tuo comando. Ma
già le forze, col sole sui cristalli
delle verande, andavano stremandosi.


L'uomo che predicava sul Crescente
mi chiese: « Sai dov'è Dio? ». Lo sapevo
e glielo dissi. Scosse il capo. Sparve
nel turbine che prese uomini e case
e li sollevò in alto, sulla pece.

Eugenio Montale, La bufera e altro.

__________
Anche a me oggi un uomo, un viandante, mi ha fatto la stessa domanda e, non so se indicando il medesimo luogo di Montale, gli ho risposto che lo sapevo e gliel'ho detto. 
Lui mi ha fatto il dito. Un buon segno.
«È una buona pratica per titillare l'infinito», ho osservato.
«L'infinito è troppo profondo, non ci arrivo», ha ribattuto.
«Supponiamo un universo a termine», ho continuato.
«Già. Prima o poi bisognerà porre limiti alla profondità» ha sentenziato, ricordando quel che disse il dentista della Santanchè.
Dopo aver convenuto con tale proponimento, ho chiesto al viandante cosa viandava a fare e lui, per tutta risposta, si è messo a predicare sul Decrescente citando Latouche.
Questa volta ho scosso io il capo:
«Decrescere è ovvio. Felicemente: è possibile?»
«Lo sarebbe, se la decrescita avviene a palle a mollo in una spa».
Ahimè, non è da tutti giungervi, o viandante.

giovedì 25 settembre 2014

DejaVu Sans

Ci sono momenti in cui sono molto irresponsabile e quindi mi inoltro in situazioni inconsapevoli e probabilmente interconnesse con un certo irredentismo della ragione - cosa esso sia non so ma di sicuro qualcosa che mi fagocita, mi perplime, mi angoscia anche, lo sento dal prurito su una coscia - poi scopro che è una zanzara tigre semi stordita dall'improvviso calo delle temperature, non se l'aspettava l'invertebrata di trovarsi a tu per tu col palmo della mia vendicativa mano - spam, metamorfizzata nella polverina sottile grigioscura di un ex essere vivente che ha concluso il suo ciclo vitale incastrata nel mio tenero vello quadricipiteo.
Ma dicevo dell'irresponsabilità e perché ne dicevo non lo so, mi è scappata la parola, mi scappano troppe parole di bocca - eccola qua, l'irresponsabilità, il - cioè - non saper dare seguito alle parole che sembravano responsabilmente dette, ragionevolmente pronunciate, perché esse esprimevano un sentire che reputavo inedito invece era edito, bastava leggere meglio, andare a ritroso nell'etimo - e così, poi, niente, riposte le parole all'interno del vocabolario di un ruvido non praticante.
Serate in cui mi sento poco tascabile, meno emendabile, per niente redimibile. Nondimeno potrei redigere un trattato sulla noncuranza e fare di me un cialtrone patentato. Malgré-moi sono un dilettante - e i dilettanti, è risaputo, non sbagliano da professionisti.

lunedì 16 luglio 2012

La situazione si aggrava


John Ashbery, Autoritratto di uno specchio convesso, Garzanti, Milano 1983 (traduzione di Aldo Busi).
Guardavo le nuvole camminare nel cielo. Erano poche per sperare in un temporale o in una mutazione dei colori del campo giallo appena mietuto: giallo e blu fa verde, ma col cielo grigio anche il giallo diventa qualcos'altro e io volevo questo. Non sapevo decidermi a dirti che non ti amavo, troppe erano le varianti per dirtelo, ma ognuna troppo debole per essere decisiva. E senza una ragione forte, convincente, innanzitutto a me stesso, non sarei mai riuscito tagliare tutta quella serie di legami fatti di sensi di colpa, di prospettive funeste, incertezze, paure del vuoto.
Mentre dal campo passavo al bosco, in uno stretto sentiero circondato da rovi, uno spino si è conficcato nel mio polso, e io ho gridato il tuo nome come fosse un'imprecazione, come se avessi avuto colpa tu di tutto questo e non era vero: la colpa esiste solo se c'è l'opzione dell'odio, ma non è mai stato il nostro caso. 
Ci stiamo logorando ai fianchi, almeno ci piacesse tutto questo logorìo, fossero mani anche finte che ti s'attaccano a pagamento come quelle di un'estetista in gamba che, per pochi soldi, ti gratifica con la sua idea di primavera. Siamo qui tanto per fare, esattamente; la storia che ci ha portato a essere noi sembra scritta da sceneggiatori in cassa integrazione. Andiamo in vacanza? Massì, distraiamoci, cerchiamo di vedere qualcos'altro al mattino, aldilà della finestra, che non sia noi. Sono tentativi, tutti leciti, per rimandare la consegna delle nostre rispettive delusioni. Facciamole crescere, da bravi, così che quando verrà il momento, avremo la schiena curva tanto sarà peso il loro carico.
E poi è arrivato un giorno particolare, vicino al giorno del tuo compleanno ricordi. Eravamo seduti distanti nel divano, ognuno coi propri pensieri divergenti. Suonò il telefono, dicesti ciao con un sorriso e andasti a chiuderti in bagno per proseguire la conversazione. Quando tirasti lo sciacquone e uscisti io non ero più lì, ero scivolato via, a cercare di attaccarmi alle tette delle tua cara amica che mi guardava da tempo coi suoi occhi dolci, ma io ero sempre stato irreprensibile.
È stato la mia maniera di difendermi, la più sbagliata, una Maginot a tutti gli effetti che mi ha fatto anche temere che sarei stato per sempre occupato dal pensiero dittatore di te. Non è stato così, mi hanno liberato delle giovani socialiste terzomondiste norvegesi che mi hanno insegnato, non tanto a perdonare, quanto a credere ancora nell'utopia dell'amore. But
«my wife thinks I'm in Oslo - Oslo, France, that is.»