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martedì 24 dicembre 2019

the end of a short affair

I tried it standing up
this time.
it doesn’t usually
work.
this time it seemed
to …
she kept saying
“o my God, you’ve got
beautiful legs!”
it was all right
until she took her feet
off the ground
and wrapped her legs
around my middle.
“o my God, you’ve got
beautiful legs!”
she weighed about 138
pounds and hung there as I
worked.
it was when I climaxed
that I felt the pain
fly straight up my
spine.
I dropped her on the
couch and walked around
the room.
the pain remained.
“look,” I told her,
“you better go. I’ve got
to develop some film
in my dark room.”
she dressed and left
and I walked into the
kitchen for a glass of
water. I got a glass full
in my left hand.
the pain ran up behind my
ears and
I dropped the glass
which broke on the floor.
I got into a tub full of
hot water and epsom salts.
I just got stretched out
when the phone rang.
as I tried to straighten
my back
the pain extended to my
neck and arms.
I flopped about
gripped the sides of the tub
got out
with shots of green and yellow
and red light
flashing in my head.
the phone kept ringing.
I picked it up.
“hello?”
“I LOVE YOU!” she said.
“thanks,” I said.
“is that all you’ve got
to say?”
“yes.”
“eat shit!” she said and
hung up.
love dries up, I thought
as I walked back to the
bathroom, even faster
than sperm.

Charles Bukowski, Love is a Dog from Hell, 1977

domenica 8 giugno 2014

Digitando poesia seminudo

Bukowski

Ho praticamente smesso di scrivere poesia perché m'affatica uscire da me stesso in versi, come se dovessi portarmi sulla china dell'essere – e una volta in cima rotolare giù, macigno di Sisifo.

Non posso più ripetere l'esercizio, cercare la virtù nel vizio. Quindi resto a terra e accetto la caduta nel tempo (disse un Cioran in guerra con le disposizioni del Creatore).

La poesia sfiora le cose in apparenza, ma invero i suoi raggi penetrano l'essenza delle cose (intanto sul prato uno scarafaggio mi percorre con estrema competenza).

Sempre sul prato: seduto tra campanule, fiordalisi e rari papaveri mi diletto a sfiorare petali in arpeggio: ne esce fuori la tua voce, al telefono.


Se questo incanto non lo traduco in versi è perché non voglio andare troppe volte a capo. Di più: vorrei trasformarlo in una semiretta, una volta capito da quale punto farla partire.

(Penso di averlo capito, anche se, in realtà, il punto sono due punti che si trasforma in uno).

venerdì 29 marzo 2013

Lasciate che vi dica una cosa

Lasciate che vi dica una cosa
ho incontrato uomini in galera che avevano più stile
della gente che bazzica i college
e va alle letture di poesia
Sono delle sanguisughe che vengono a vedere
se i calzini del poeta sono sporchi
o se gli puzzano le ascelle
Credetemi io non li deluderò quelli lì
Ma voglio che vi ricordiate questo
c'è solo un poeta in questa stanza stasera
solo un poeta in questa città stasera
forse solo un poeta vero in questa nazione stasera
e quello sono io*

Ho provato a crederci e per questo stasera sono salito sul monte di una sera che ancora mi vede alzato, per capire se sono in pace con me stesso e se questa è l'unica consolazione possibile per scappare da una vita in balia dei desideri altrui e dalle proprie insoddisfazioni derivanti.
Sono cosciente che gran parte di quel che sono è determinato dal contesto storico e sociale nel quale ho avuto e ho sorte di vivere; avrei potuto dimenarmi, lottare come un disperato per sottrarmi a questa condizione, ma in me ha giocato sempre una una scarsa volizione nello scambiare ruolo all'interno di meccanismi predeterminati del sistema.
Sono un mite, forse, per non dire un pavido, uno che si sottrae volentieri alla contesa, non tanto per la paura di soccombere (tanto, prima o poi, si soccombe tutti), quanto per la natura stessa della lotta sì faticosa e assurda (sono troppo infingardo per fare la fine di Sisifo).
Che cosa sono dunque? Cosa scrivere alla voce professione di un'improbabile carta d'identità di specie? Quale cosa di me sento che più mi descrive e certifica, mi qualifica e mi contraddistingue?

Ricordare Nietzsche: io sono questo e quello e soprattutto non scambiatemi per altro.
Ma è poi così importante venire scambiati per altro? Perché prendersi questa pena di essere riconosciuti per quello che si vorrebbe? 
Perché, per quanto lo si pretenda e fortissimamente creda, non siamo noi a determinare ciò che siamo, ma gli altri.
Allora meglio non deluderli gli altri e mostrarle per intero le proprie debolezze, le proprie paure, i propri limiti, i propri calzini sporchi e le ascelle non troppo profumate. Solo così, tramite la propria miseria d'uomo, si ha diritto, come il poeta, di gridare:
«c'è solo un poeta in questa stanza stasera... e quello sono io».
Mi farò una sega - e sarà abbastanza sufficiente per continuare a essere ciò che sono.

*versi estratti da Raymond Carver, Voi non sapete che cos'è l'amore (Una serata con Charles Bukowski), id., Minimum Fax, Roma 2000 (traduzione di R. Duranti e F. Durante).