Visualizzazione post con etichetta Elsa Morante. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Elsa Morante. Mostra tutti i post

mercoledì 4 aprile 2012

Di Finzione cingersi


Di te, Finzione, mi cingo,
fatua veste.
Ti lavoro con l'auree piume
che vestì prima d'esser fuoco
la mia grande stagione defunta
per mutarmi in fenice lucente!


L'ago è rovente, la tela è fumo.
Consunta fra i suoi cerchi d'oro
giace la vanesia mano
pur se al gioco di m'ama non m'ama
la risposta celeste
mi fingo.

(1947)

Elsa Morante, Alibi, (prima edizione Longanesi, 1958), ristampata da Garzanti, Milano 1988.

Elsa Morante nacque nel 1912 e aveva un anno meno di mia nonna materna che si chiamava Laìde. Elsa Morante era figlia di una maestra elementare e di un istitutore di riformatorio, mia nonna era figlia di un boscaiolo-caorbonaio e di una casalinga. Elsa Morante lesse tanti libri, mia nonna forse avrà letto un libro, di Liala. Elsa Morante era una scrittrice, mia nonna no. Elsa Morante si sposò con Alberto Moravia e poi si separò; mia nonna si sposò con mio nonno (il quale morì di tisi nel 1937) e si risposò con il padre di mio zio. Elsa Morante è morta nel 1985, mia nonna nel 1983. Elsa Morante la posso leggere, mia nonna la posso ricordare. Con Elsa Morante mi sarebbe piaciuto fare l'amore, con mia nonna no. Requiem æterna a entrambe.

lunedì 19 settembre 2011

Come larve di una popolazione assediata


Ma, come larve di una popolazione assediata
che teme le offerte della pace più del proprio sterminio,
essi aggrappati alle loro macerie
insultano e smentiscono le nostre voci straniere.

E noi come ostaggi di una anarchia senza grado
a cui si nega la fiducia del riscatto,
siamo la preda lasciata alla loro vendetta puerile:
io per le piaghe, tu per la pietà.

Impari all'ordalia del supplizio e della morte
noi due siamo l'estremo paragone del loro scandalo.
Noi dobbiamo giustificare il valore del loro campo
con lo spettacolo della nostra povera agonia.

E il sogno agisce. Nella convulsione e nel sudore
noi stessi rinneghiamo la nostra testimonianza.
Rotti e dispersi tra i loro cenci mortuari
ci arrendiamo alla terra.

NINNA OH NANNA OH
NINNA NINNA NINNA.

Elsa Morante, La smania dello scandalo, in Il mondo salvato dai ragazzini, Einaudi, Torino 1968

Lo stato di compromissione generale che permea la Repubblica democratica fondata sul lavoro è tale che coinvolge tutti, anche coloro che si sentono estranei, al riparo, certi di non avere alcuna responsabilità sulle cose che sono accadute, che accadono, che accadranno. Che fortuna, per i protagonisti del potere, vivere in una società quasi completamente secolarizzata, lontani dalle secche assurde del fanatismo, tutti avviluppati in un assopimento egotistico che non consente gesti estremi (a parte qualche cavalletto, o qualche madonnina volanti). 
Il fatto è che sono promessi degli scarsi paradisi. Anche la nostra religione di stato che cosa vuoi prometta se non un posto in banca o alla Finmeccanica? In fondo, poi, perché incitare il gregge alla ribellione se gli zelanti servitori dello Stato abbassano il capo più volentieri di fronte a Sua Santità che al Presidente della Repubblica?
Forse, per qualche senza lavoro in crisi mistica, ci fossero prigioni come quelle norvegesi, piene di confort e di accesso internet, qualche motivazione in più l'avrebbero se volessero sacrificarsi per la patria. Ma allo stato delle cose meglio penzolare da un contratto a termine a un altro, in un monolocale o in una camera, che andare in una cella sovraffollata per aver attentato alla vita del re. Re che, poi, è difficile da raggiungere considerato l'eccezionale impiego di guardie del corpo che lo proteggono.
Già, le guardie del corpo. Ormai, fisso più le loro facce che quelle di colui che stanno proteggendo. Chissà chi sono, come si chiamano, quali scuole hanno fatto, quando e dove vanno in ferie. Soprattutto: chissà quanto sono pagati; e se, un giorno, avranno la pensione.

domenica 24 luglio 2011

La sera domenicale


A Filippo: lui sa chi è, lui sa perché
Lo so: lo spazio di un post esige una misura contenuta, altrimenti la lettura si affatica e il lettore giustamente rinuncia; a meno che il blogger non sia capace di tenere il lettore incollato fino in fondo, fino all'ultima riga.
Ora, dato che ciò che andrò sotto a riportare non è mio, ma di quella magnifica scrittrice che è Elsa Morante, vi prego di leggere tutto il componimento poetico, tutto.
Sappiate che l'ho trascritto io, che non l'ho copiaincollato da qualche parte. Per cui, anche per gratificare questa mia "fatica", vi ri-prego (e che il mio prego valga mille, come disse Dante) di andare fino in fondo, fino all'ultimo verso della domenica morantiana.
Leggendo vi sentirete trascinati in un gorgo di preveggenza, di chiarificazione di eventi umani che ci scuotono, e il pensiero vedrete dove correrà. Ma troverà rifugio, statene certi.


Per il dolore delle corsie malate
e di tutte le mura carcerarie
e dei campi spinati, dei forzati e dei loro guardiani,
e dei forni e delle Siberie e dei mattatoi
e delle marce e delle solitudini e delle intossicazioni e dei suicidi
e i sussulti della concezione
e il sapore dolciastro del seme e delle morti,
per il corpo innumerevole del dolore
loro e mio,
oggi io ributto la ragione, maestà
che nega l'ultima grazia,
e passo la mia domenica con la demenza.
O preghiera trafitta dell'elevazione,
io rivendico per me la colpa dell'offesa
nel corpo vile.
Stàmpami nella mente malcresciuta
la tua grazia. Io ti ricevo.

E ricomincia la piccola strage.
Il sudore la nausea il freddo dei polpastrelli l'agonia delle ossa
e la ridda delle astrazioni meravigliose
nell'orrore della scarnificazione.
La solita pavonessa funesta detta Sheerazade
spiega la sua ruota di trafitture,
piume e flore subito pietrificate
nella vertigine dei colori contro natura, linciaggio lacerante
di sassi puntuti. Nessuna via di fuga.
La gamma dell'illimitato è un'altra legge carceraria
più perversa di ogni limite. Ma ancora
di là da un'era glaciale la norma quotidiana
si riaffaccia a intervalli col suo povero viso domestico
mentre la mescolanza dei regni della natura
scioglie le vene a ondate come il primo mestruo infantile
finché la linfa è bruciata. La febbre carnale è consumata.
La coscienza è ormai solo una tignola che batte nel buio micidiale
in cerca di un filo di sostanza. L'estate è morta.
Addio addio recapiti e indirizzi papi bestiari e numerazioni,
Via della Scimmia, la Navona, Avenue Americas.
Addio misure, direzioni, cinque sensi. Addio doveri servi e diritti servi e giudizi servi.
Rifùgiati alla cieca dall'altra parte, inferi o limbi non importa,
piuttosto che ritrovarti nel tuo domicilio laido
dove ti schiacci fra le pareti bruttate dalle tele dipinte
che si riconoscono stracci e polveri di Sindoni degradate.
Il pavimento è un fango sanguinoso che ribolle
alle stanze,, ossari che si sfanno, nell'ultimo baleno
di un piatto d'ottone deformato, dove i limoni
si gonfiano a bolle di plastica. E dallo specchio
ti fissa con le occhiaie polverose qualcosa di estraneo ma pure
prossimo intimo, squama oscura di qua da ogni incarnazione,
che nega anche lo scheletro e tutta la vicenda
delle genesi e delle epifanie
e dei sepolcri e delle pasque. Non tentare l'itinerario
storpio e rovinoso della scala, che per te è un'ascensione di secoli,
e di sopra e di sotto c'è sempre l'inferno.
Il cielo decaduto è la bassa tenda cenciosa
del lazzaretto terrestre. E il flauto mozartiano
è un saltarello maligno, che ti ribatte
fin dentro il bulbo dell'occhio la sua triviale mimica
di un'aritmetica ossessiva che non significa altro...
Nessun cielo ulteriore si scopre. Non s'apre il loto dei mille petali.
Tu sei tutta qui. E non c'è altro.
Assisti a questo. E cessa di chiamare
amanti morti, madri morte.
Denudàti, più poveri ancora di te, loro non frequentano questa
né altre dimensioni. Ultima loro dimora
resta soltanto la tua memoria.

Memoria, memoria, casa di pena
dove per cameroni e ballatoi deserti
un fragore di altoparlanti non cessa di ripetere
(il meccanismo s'è incantato) sempre il punto amaro
degli Elì Elì senza risposta. L'urlo del ragazzo
che precipita accecato dal male sacro.
Il giovane assassino che smania nel folle dormitorio.
La mozza litania cristiana nel deposito
dell'ospedale, intorno alla vecchia ebrea morta
che scostò la croce con le sue manine deliranti.
SENZA I CONFORTI DELLA RELIGIONE. Questa casa è piena di sangue
ma il sangue stesso, tutti i sangui, non sono che vapori larvali
conformi alla mente che li testimonia.
E quando per te venga l'ora del requiem, così sarà per quelle grida.
La domenica sconsacrata ormai declina
le lune della peste sono giù calanti
la siepe spinata rigermoglia, i tuoi sensi scampanano a cinque voci.
Riaffréttati, riaffréttati all'incontro dei tuoi poveri domani consueti
e del tuo solito corpo morituro.
È l'ora di cena. O fame di vita, nùtriti
ancora alla sostanza quotidiana delle stragi.
Rinasci alle forme e confidenze e cori arbitrari
alla coscienza
alla salute
all'ordine delle date
al tuo posto.

Nessuna Rivelazione (Lo spettacolo, anche illegale,
dipende sempre dalla fabbrica collettiva degli arbitrii).
Nessun peccato (La macchina architettata per il supplizio
non ha colpa dei supplizi, o poveri peccatori).
E nessuna grazia speciale.
(Unica grazia comune è la pazienza
fino all'amen della consumazione).
Vàttene contenta. Assolta, assolta, benché recidiva.
Buona sera, buona sera.
Anche questa domenica è passata.

Elsa Morante, Il mondo salvato dai ragazzini, Einaudi, Torino 1968

domenica 17 luglio 2011

Un'attesa notturna


[...]
E adesso io qua in questa veglia di secoli
seduta nell'angolo della stanza presso all'uscio
dietro la finestra illuminata nella notte
aspetto l'ora del tuo ritorno a casa.


Non posso lasciarmi al sonno, finché tu tardi.
Voglio riaverti qua vicino, sentire il tuo fiato
e medicarti della lebbra impossibile
che ha sfigurato l'allegria dei tuoi occhi.


Spio dai vetri, sto in ascolto, Nella distanza scorre
il tetro rumore delle vie, come una striscia dentata.
tutte le città della terra sono un'unica, maledetta congrega
contro i ragazzetti celesti.

[...]

Senza requie mi aggiro dall'uscio alla finestra.
Tendo l'orecchio a ogni passo della strada.
E la lunga notte avanza. Si dirada lungo gli asfalti
il fruscio delle ruote. Le insegne si spengono.


Le ultime finestre illuminate si sono chiuse.
Più nessun passo sui marciapiedi.
Nessun cancello più stride. Cessato ogni tardo sussulto
dell'ascensore coi suoi rauchi ingranaggi per tutti i piani.


Finché nel declino ormai dell'ora silenziosa
un sopore mi piega le palpebre. La mia fronte si abbatte
sul piano del tavolino quasi in un  urto
fra i capelli canuti in disordine.
[...]
Elsa Morante, “Addio” (cap. II) Il mondo salvato dai ragazzini, Einaudi, Torino 1968