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sabato 27 luglio 2019

La grande donazione

La moglie di Douglas Tompkins (un imprenditore tessile, ambientalista, escursionista, regista, agricoltore, filantropo americano), giorni fa, a pochi anni dalla morte del marito (2015), ha effettuato «la più grande donazione di terra mai fatta da un privato a uno Stato», il Cile - e si appresta, altresì, a fare una donazione analoga all'Argentina -, con il vincolo che siano creati dei parchi nazionali in cui gli stati s'impegnano a preservarne la biodiversità.

Brava. E bravo il marito. E, naturalmente, giù lodi, peana, osanna per una vita spesa all'insegna di un nobile fine: la salvaguardia della natura dai disastri ambientali provocati dall'uomo. Quali uomini? Fuori i nomi, i cognomi, i conti e banca e le azioni.

Ma a parte ciò: oltre a me, c'è qualcuno che si chiede come sia possibile (tollerabile) che un "privato", una persona sola abbia potuto e possa, forte di un ingente quantitativo di quattrini, riuscire a comprare uno sterminato numero di ettari di terra del pianeta? Direte: Tompkins ha fatto i soldi legittimamente; come i Benetton, era una magliettaio anche lui, poi ha ceduto le (azioni delle) aziende e, anziché comprarsi le Autostrade, con la liquidazione ha deciso di acquistare terreni per un nobile fine che neanche un dio.

Neanche un dio, appunto.

- Eh, ma ha fatto i soldi onestamente, mica con il narcotraffico o la vendita illegale di armi.

Ma io non discuto l'onestà, la regolarità, la bravura dell'individuo. Discuto la dismisura e conseguente diseguaglianza che regolano i rapporti di proprietà all'interno di una società di classe. La finitezza umana, singola, individuale non potrebbe, da sola, essere bastante per porre un limite oggettivo che la società intera (almeno quella democratica: escludiamo le monarchie assolute e le dittature, per esempio) pone al consumo e al possesso di risorse di un pianeta finito? Giacché non esiste alcun merito, alcuna eccezionalità imprenditoriale o di altro genere che renda umanamente accettabile il fatto che qualcuno possegga sconfinati appezzamenti di suolo (e forse sottosuolo). Eppure il diritto (borghese) garantisce e tutela il diritto di proprietà fondiaria senza limiti. 


Occorre però fare attenzione: non sta nell'espropriazione tout court il riscatto del bene comune, per favorire la collettività ai danni del singolo possidente; bensì nello scardinare un meccanismo economico e produttivo che determina tale smisurato squilibrio di appropriazione del valore.


La produzione sociale è frenata, inceppata dai «rapporti di proprietà».

C'è un simpatico account Twitter chiamato Has Jeff Bezos Decided To End World Hunger? 
che rende bene l'idea dell'immensità della ricchezza concentrata su un solo individuo: 
«Jeff Bezos has a net worth of $165bn. The UN says it would cost $30bn to end world hunger per year. So, has Jeff Bezos decided to end world hunger today?»
Ma ripeto: non si tratta di assaltare la diligenza Bezos, ma semplicemente di iniziare a rimettere in circolo alcuni ragionamenti che, sebbene siano stati formulati più di centosettant'anni fa, sono ancora gli unici in grado di fare il punto reale della situazione:
«A un certo grado dello sviluppo di quei mezzi di produzione e di scambio, le condizioni nelle quali la società feudale produceva e scambiava, l'organizzazione feudale dell'agricoltura e della manifattura, in una parola i rapporti feudali della proprietà, non corrisposero più alle forze produttive ormai sviluppate. Essi inceppavano la produzione invece di promuoverla. Si trasformarono in altrettante catene. Dovevano essere spezzate e furono spezzate.Ad esse subentrò la libera concorrenza con la confacente costituzione sociale e politica, con il dominio economico e politico della classe dei borghesi.
Sotto i nostri occhi si svolge un moto analogo. I rapporti borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la società borghese moderna che ha creato per incanto mezzi di produzione e di scambio così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate. Sono decenni ormai che la storia dell'industria e del commercio è soltanto storia della rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti moderni della produzione, cioè contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio.Basti ricordare le crisi commerciali che col loro periodico ritorno mettono in forse sempre più minacciosamente l'esistenza di tutta la società borghese.
Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta non solo una parte dei prodotti ottenuti, ma addirittura gran parte delle forze produttive già create. Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che in tutte le epoche precedenti sarebbe apparsa un assurdo: l'epidemia della sovraproduzione. La società si trova all'improvviso ricondotta a uno stato di momentanea barbarie; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; l'industria, il commercio sembrano distrutti. E perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive che sono a sua disposizione non servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti borghesi di proprietà; anzi, sono divenute troppo potenti per quei rapporti e ne vengono ostacolate, e appena superano questo ostacolo mettono in disordine tutta la società borghese, mettono in pericolo l'esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta. - Con quale mezzo la borghesia supera le crisi? Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall'altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse.
A questo momento le armi che son servite alla borghesia per atterrare il feudalesimo si rivolgono contro la borghesia stessa.
Ma la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che la porteranno alla morte; ha anche generato gli uomini che impugneranno quelle armi: gli operai moderni, i proletari.» 
L'unica riserva è sulla frase finale: gli uomini che impugneranno quelle armi contro il capitalismo, non in una nazione ma nell'intero pianeta, non sono stati ancora generati. Va dato atto alla borghesia di aver impedito di far nascere i suoi becchini. Come ci è riuscita? Come ci sta riuscendo? La butto là: panem et circenses.

venerdì 15 luglio 2016

Colpi allo Stato

Da un notevole post di Sebastiano Isaia, (il suo blog è, per me, una scoperta notevole), riporto la seguente citazione tratta da Fredrich Engels, Per la storia del cristianesimo primitivo:
«Tutti i movimenti di massa del medioevo», scriveva Engels, «portavano necessariamente una maschera religiosa, apparivano come restaurazioni del cristianesimo primitivo degenerato da secoli; ma di regola dietro l’esaltazione religiosa si nascondevano interessi mondani molto forti». In una nota, Engels abbozza un interessante confronto tra la funzione ideologica della religione islamica dopo la sua iniziale ed esplosiva (rivoluzionaria) espansione geografica, e la funzione ideologica della religione cristiana a partire dal dissolvimento della società medievale: «L’islam è una religione fatta per orientali, specialmente per gli arabi; quindi, da una parte, per città che esercitano commercio e industria, e dall’altra per beduini nomadi. Ma qui sta il germe di un urto che si ripete periodicamente. Le città diventano ricche, sfarzose, rilassate nell’osservanza della “legge”. I beduini, poveri e, per povertà, austeri di costumi, guardano con invidia e desiderio a queste ricchezze e a questi piaceri. Allora si raccolgono sotto un profeta per castigare i peccatori, per restaurare il rispetto per la legge e per la vera fede, e per intascare come ricompensa i tesori degli infedeli. Dopo cent’anni essi naturalmente si trovano proprio a quel punto deve stavano quegli infedeli; una nuova purificazione della fede è necessaria, sorge un nuovo profeta, e il gioco ricomincia. […] Sono tutti movimenti scaturiti da cause economiche e che hanno un travestimento religioso; ma, anche se vittoriosi, lasciano sopravvivere intatte le vecchie condizioni economiche. tutto resta quindi come prima e l’urto diventa periodico. Nelle sollevazioni popolari dell’occidente cristiano, al contrario, il travestimento religioso serve solo come bandiera e come maschera per l’assalto a un ordinamento economico antiquato; questo, alla fine, viene rovesciato, ne sorge uno nuovo, il mondo va avanti».
***
In questo momento c'è un colpo di stato in Turchia. Bene. Lo fanno seguendo modalità classiche, esercito nelle strade, nei palazzi del potere, alla tv. A comunicare che? Ed Erdogan? Riusciranno ad arrestarlo? Magari a metterlo in cella con Ocalan.
Io penso che Bruno Vespa darebbe dieci anni di vita per intervistare un capo di stato maggiore golpista che sale tutto impettito negli studi della Rai. Magari anche in differita.
Vedremo. Comunque non è un caso che oggi abbia fatto il pesto (o meglio: una salsa al basilico) usando pinoli della Coop, provenienza Turchia. 

giovedì 28 gennaio 2016

Portar rimedio agli inconvenienti sociali

«Una parte della borghesia desidera di portar rimedio agli inconvenienti sociali, per garantire l'esistenza della società borghese.

Rientrano in questa categoria economisti, filantropi, umanitari, miglioratori della situazione delle classi lavoratrici, organizzatori di beneficenze, protettori degli animali, fondatori di società di temperanza e tutta una variopinta genia di oscuri riformatori. E in interi sistemi è stato elaborato questo socialismo borghese.
[...]
I borghesi socialisti vogliono le condizioni di vita della società moderna senza le lotte e i pericoli che necessariamente ne derivano. Vogliono la società attuale sottrazion fatta degli elementi che la rivoluzionano e la dissolvono. Vogliono la borghesia senza proletariato. La borghesia si raffigura naturalmente il mondo ov'essa domina come il migliore dei mondi. Il socialismo borghese elabora questa consolante idea in un semi-sistema o anche in un sistema intero. Quando invita il proletariato a mettere in atto i suoi sistemi per entrare nella nuova Gerusalemme, il socialismo borghese non fa in sostanza che pretendere dal proletariato che esso rimanga fermo nella società attuale, ma rinunci alle odiose idee che di essa s'è fatto.

Una seconda forma di socialismo meno sistematica e più pratica cercava di far passare alla classe operaia la voglia di qualsiasi movimento rivoluzionario, argomentando che le potrebbe essere utile non l'uno o l'altro cambiamento politico, ma soltanto un cambiamento delle condizioni materiali della esistenza, cioè dei rapporti economici. Ma questo socialismo non intende affatto, con il termine di cambiamento delle condizioni materiali dell'esistenza, l'abolizione dei rapporti borghesi di produzione, possibile solo in via rivoluzionaria, ma miglioramenti amministrativi svolgentisi sul terreno di quei rapporti di produzione, che dunque non cambiano nulla al rapporto fra capitale e lavoro salariato, ma che, nel migliore dei casi, diminuiscono le spese che la borghesia deve sostenere per il suo dominio e semplificano il suo bilancio statale.

Il socialismo borghese giunge alla sua espressione adeguata solo quando diventa semplice figura retorica.

Libero commercio! nell'interesse della classe operaia; dazi protettivi! nell'interesse della classe operaia; carcere cellulare! nell'interesse della classe operaia. Questa è l'ultima parola, l'unica detta seriamente, del socialismo borghese. 
Il loro socialismo consiste appunto nell'affermazione che i borghesi sono borghesi – nell'interesse della classe operaia.»
Karl Marx, Friedrich Engels, Manifesto del Partito Comunista.

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Mi sembra sufficiente questo paragrafo per capire certe dinamiche. Aggiungerò soltanto qualche nota confusa.
La Svezia prevede di rimandare in Turchia ottantamila profughi. 
I profughi prevedono che poi, dalla Turchia, proveranno a ritornare di nuovo in Europa, passando per la Grecia e per l'Italia, alcuni per rimanerci, altri su a scorrere, interminabile periplo di carni. Per pochi fortunati estratti a caso: campo profughi in loco offerto da organizzazioni umanitarie finanziate da stati e benefattori bisognosi di sgravare surplus argenteo. Molti a pregare, altri a figliare, alcune a prostituirsi, taluni terroristi.
Gli accordi con l'Iran: vedi l'Italia, la Francia: nell'interesse della classe operaia (saranno contenti alla Peugeot, all'Airbus, alla Finmeccanica e sarà contento l'Iran di vendere alla Total e all'Eni qualche milione di barili).

Proposta per la Svezia: imponga all'Ikea di aprire una quindicina di negozi tra Turchia, Siria, Kurdistan e Iraq giusto per consentire a ogni capofamiglia profugo di arredarsi a modino la propria tenda.

domenica 31 maggio 2015

Lo Stato è...

... «un prodotto della società giunta a un determinato stadio di sviluppo, è la confessione che questa società si è avvolta in una contraddizione insolubile con se stessa, che si è scissa in antagonismi inconciliabili che è impotente a eliminare. Ma perché questi antagonismi, queste classi con interessi economici in conflitto non distruggano se stessi e la società in una sterile lotta, sorge la necessità di una potenza che sia in apparenza al di sopra della società, che attenui il conflitto, lo mantenga nei limiti dell'ordine; e questa potenza che emana dalla società, ma che si pone al di sopra di essa e che si estranea sempre più da essa, è lo Stato.»
[...]
«Per mantenere questo potere pubblico sono necessari i contributi dei cittadini: le imposte. Esse erano completamente ignote alla società gentilizia. Ma noi oggi le conosciamo fin troppo bene. Col progredire della civiltà, anche le imposte non bastano più; lo Stato firma cambiali per il futuro, ricorre a prestiti, a debiti pubblici. E anche di questo la vecchia Europa ne sa qualcosa.
In possesso della forza pubblica e del diritto di riscuotere imposte, i funzionari appaiono ora come organi della società al di sopra della società. La libera, volontaria stima che veniva tributata agli organi della costituzione gentilizia non basta loro, anche se potessero riscuoterla; depositari di un potere che li estrania dalla società, essi devono farsi rispettare con leggi eccezionali in forza delle quali godono di uno speciale carattere sacro e inviolabile. Il più misero poliziotto dello Stato dell'epoca civile ha più autorità di tutti gli organi della società gentilizia presi insieme, ma il principe più potente, e il maggiore statista o generale dell'età civile possono invidiare all'ultimo capo gentilizio la stima spontanea e incontestata che gli viene tributata. L'uno sta proprio in mezzo alla società, l'altro è costretto a voler rappresentare qualcosa al di fuori e al di sopra di essa.
Lo Stato, poiché è nato dal bisogno di tenere a freno gli antagonismi di classe, ma contemporaneamente è nato in mezzo al conflitto di queste classi, è, per regola, lo Stato della classe più potente, economicamente dominante che, per mezzo suo, diventa anche politicamente dominante e così acquista un nuovo strumento per tener sottomessa e per sfruttare la classe oppressa. Come lo Stato antico fu anzitutto lo Stato dei possessori di schiavi al fine di mantener sottomessi gli schiavi, così lo Stato feudale fu l'organo della nobiltà per mantenere sottomessi i contadini, servi o vincolati, e lo Stato rappresentativo moderno è lo strumento per lo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale. Eccezionalmente tuttavia, vi sono dei periodi in cui le classi in lotta hanno forze pressoché eguali, cosicché il potere statale, in qualità di apparente mediatore, momentaneamente acquista una certa autonomia di fronte ad entrambe. Così la monarchia assoluta dei secoli XVII e XVIII che mantenne l'equilibrio tra nobiltà e borghesia; così il bonapartismo del primo e specialmente del seconde impero francese che si valse del proletariato contro la borghesia e della borghesia contro il proletariato. »


Friedrich Engels, L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, 1884

Il presente brano sia la premessa necessaria per capire quel che sta accadendo in Grecia e quel che probabilmente accadrà in Italia. Ne riparliamo.

venerdì 29 maggio 2015

Una pigrizia generale

via
La politica che un paese esprime è il riflesso condizionato di quello che esprime il popolo di quel paese. Nella fattispecie, il popolo italiano che cosa esprime? A parte il sempiterno mugugno da malcontento, il desiderio politico degli italiani non è quello di una società più giusta, equa, prospera e solidale, ma è quello di veder soddisfatto il proprio interesse particolare, relegando l'interesse generale ai discorsi ufficiali che le massime autorità dello Stato tengono nelle varie occasioni comandate – e niente è più vacuo, inutile, disatteso di un discorso presidenziale.
Che cosa c'è alla base della nostra attesa politica? Avere una casa, un'auto, in breve: avere accesso ai beni di consumo per avere i quali occorre, per la stragrande maggioranza degli individui, vendere a ore la propria forza lavoro.
Quindi, si lavora principalmente per sussistere.

Se non c'è alcun progetto politico che azzardi a immaginare un tipo di società diversa da quella della sussistenza, è perché fondamentalmente il popolo non ha altra mira, altra ambizione che quella di veder soddisfatti, più o meno decentemente, i propri bisogni primari e, quando è grassa, anche alcuni secondari, per esempio quelli ricreativi, che vedranno domani tante famiglie allegramente andare a trascorrere brevi vacanze repubblicane fuori porta.

Siano giorni lieti per tutti, soprattutto se serviranno per non andare a votare.

« Il comunismo non toglie a nessuno il potere di appropriarsi dei prodotti della società, toglie soltanto il potere di assoggettarsi il lavoro altrui mediante tale appropriazione.
Si è obiettato che con l'abolizione della proprietà privata cesserebbe ogni attività e prenderebbe piede una pigrizia generale.
Da questo punto di vista, già da molto tempo la società borghese dovrebbe essere andata in rovina per pigrizia, poiché in essa coloro che lavorano, non guadagnano, e quelli che guadagnano, non lavorano. Tutto lo scrupolo sbocca nella tautologia che appena non c'è più capitale non c'è più lavoro salariato.» K.Marx-F.Engels


giovedì 29 marzo 2012

Il pensiero è il feto dell'azione

«Al principio era il Pensiero? o al principio era la Azione? Il pensiero è il feto dell'Azione o piuttosto l'azione ormai giovane. Non introduciamo un terzo termine, il Verbo: perché il Verbo non è che il Pensiero percepito, sia da colui che esso abita, sia dai passanti dell'esteriorizzato. Ma notiamolo tuttavia: perché fatto il Verbo il Pensiero è irrigidito in uno dei suoi attimi, ha una forma - in quanto percepito - dunque non è più embrione - embrione dell'azione. - Bisogna che al principio l'Azione sia, per lo svolgersi degli atti del presente e del passato. Essa era, è, sarà nei minuti della durata, mediante l'indefinito discontinuo. - Al principio il Pensiero non era, perché È fuori del tempo: esso secerne il tempo con la sua testa, il suo cuore e i suoi piedi di Passato, di Presente e di Futuro. È in sé e per sé, e scende verso la morte scendendo verso la Durata.»  
Alfred Jarry, Essere e vivere, Adelphi, Milano 1969 (traduzione a cura di C. Rugafiori e H.J. Maxwell)
Ci pensavo oggi a tutto questo. Mica vero. È un pensiero scorretto il mio. Analisi: oggi cosa ho pensato? Diverse cose, come tutti. Ne ricordo una, scaturita dopo una conversazione sul mercato immobiliare con dei colleghi immobili.
Gli immobili sono fermi. Ma anche i prezzi. O meglio scendono pochino pochino. Gli interessi dei mutui, invece, sono alti. Dici: cento metri quadrati in condominio ti costano più di trent'anni di galera di mutuo. Sì, ma sono cose fuori del tempo, il mutuo, la casa, il Passato, il Presente, il Futuro. Mi sovviene Malvino di qualche mese fa che scrisse qualcosa di ineccepibile sul perché in Italia esista una siffatta politica immobiliare, che abbia spinto la maggioranza della popolazione a sacrificarsi per la casa - per impiccarli economicamente e politicamente e dar loro l'illusione di essere proprietari. 
«La rincorsa al modello della casa di proprietà ha portato una gran parte degli italiani alla dipendenza dal blocco di potere bancario, con quanto ne deriva sul piano del condizionamento della vita economica, sociale e politica.»
Piccoli proprietari siamo noi. Dei padroni delle nostre mura. Di cemento che tende a sgretolarsi. Occorre concepire un pensiero. Oppure - forse meglio - trovare qualcuno che ne abbia concepito uno al riguardo. Comunque la pensiate, ammesso che non siate in quell'un per cento della popolazione che pensa come Piero Ottone, penso che Marx ed Engels abbiano pensato e scritto le cose giuste in un capitolo del Manifesto del Partito Comunista, dal titolo Proletari e comunisti. Ne riporto un estratto, usufruendo, per comodità, della traduzione (datata) che offre Wikipedia:

Rimproverano, a noi comunisti, di volere abolire la proprietà personale acquistata col lavoro, la proprietà che è garanzia di tutte le libertà, dell’attività e dell’indipendenza.
Per proprietà acquistata col lavoro intendono la proprietà del contadino, del piccolo borghese, anteriore alla proprietà borghese? questa noi non abbiamo ad abolirla; il progresso dell’industria l’ha di già abolita, o è dietro ad abolirla.
Oppure vogliono parlare della proprietà privata, della proprietà borghese moderna?
Ma come il proletario col suo lavoro gode della proprietà? In nessun modo; esso crea il capitale, cioè la proprietà, che sfrutta il lavoro salariato, e che non può accrescersi, che a condizione di creare del nuovo lavoro salariato, affine di sfruttarlo ancora.
Nella sua forma presente, la proprietà si muove tra i due termini in antinomia tra loro: capitale e lavoro salariato. Esaminiamo le due parti di questo antagonismo.
Essere capitalista significa non soltanto occupare una posizione personale, ma ancora una posizione sociale nel sistema della produzione. Il capitale è un prodotto collettivo; esso non può essere messo in movimento che con gli sforzi combinati di una massa d’individui: in ultimo luogo esso esige per il suo funzionamento gli sforzi combinati di tutti gl’individui della società.
Arriviamo al lavoro salariato.
Il prezzo medio del lavoro salariato è il minimo del salario, cioè la somma dei mezzi d’esistenza, di cui l’operaio ha bisogno per vivere da operaio. Per conseguenza ciò che l’operaio salariato s’appropria colla sua attività, è giusto ciò che gli è necessario a mantenere la sua esistenza. Noi non vogliamo in alcun, modo, abolire quest’appropriazione personale dei prodotti del lavoro indispensabile al mantenimento dell’esistenza quest’appropriazione non lascia dietro di sé alcun profitto netto, che dia del potere sul lavoro degli altri. Ciò che noi vogliamo è, sopprimere le miserie di quest’appropriazione, che fanno sì che l’operaio non vive, che per accrescere il capitale, e nei limiti voluti dagl’interessi della classe dominante.
Nella società borghese, il lavoro vivente non è che un mezzo d’accrescere il lavoro accumulato. Nella società comunista, il lavoro accumulato non sarà che un mezzo di allargare e di abbellire l’esistenza dei lavoratori.
Nella società borghese, il passato domina il presente; nella società comunista, è il presente che dominerà il passato. Nella società borghese, il capitale è indipendente e personale, mentre l’individuo, che agisce, è dipendente e privo di personalità.
Ed è l’abolizione di un simile stato di cose che la borghesia chiama abolizione della personalità e della libertà. In questo essa non ha torto. Poiché si tratta effettivamente dell’abolizione dell’individualità, dell’indipendenza, e della libertà borghese.
Per libertà, nelle condizioni attuali della produzione borghese, s’intende la libertà del commercio, il libero scambio.
Ma abolite il traffico, e voi abolirete nel medesimo tempo il traffico libero.
Del resto, tutte le belle frasi sul libero scambio, come pure tutte le furfanterie liberali dei nostri borghesi, non hanno un senso che per opposizione al commercio impedito, al borghese asservito del medio evo; esse non ne hanno alcuno, allorché si tratta dell’abolizione del traffico, dell’abolizione dei rapporti della produzione borghese e della borghesia stessa.
Voi siete spaventati perché vogliamo abolire la proprietà privata. Ma nella vostra società attuale, la proprietà privata è abolita per nove decimi dei suoi membri. Ed è precisamente perché essa non esiste per nove decimi, che esiste per voi..
Voi ci rimproverate dunque, di volere abolire una proprietà, che non può costituirsi senza privare l’immensa maggioranza della società d’oggi proprietà.
In una parola, voi ci accusate di volere abolire la vostra proprietà. Diffatti è ben questa la nostra intenzione.
Dal momento che il lavoro non può più essere trasformato in capitale, in moneta, in proprietà fondiaria, in potere sociale capace di essere monopolizzato; cioè dal momento che la proprietà può più essere convertita in proprietà borghese, voi vi affrettate di dichiarare che l’individualità è soppressa.
Voi confessate dunque, che allorché parlate dell’individuo, voi non intendete parlare che del borghese. E questo individuo, è vero, noi vogliamo sopprimerlo.*
Il comunismo non toglie a nessuno potere d’appropriarsi la sua parte dei prodotti sociali, esso non toglie che il potere di assoggettare coll’aiuto di quest’appropriazione, il lavoro degli altri.
Voi pretendete ancora che coll’abolizione della proprietà privata, cesserebbe ogni attività, che una poltroneria generale s’impadronirebbe del mondo. Se ciò fosse possibile sarebbe molto tempo che la società borghese sarebbe morta di pigrizia, poiché coloro che lavorano non guadagnano, e coloro che guadagnano non lavorano. Tutta l’obbiezione si riduce a questa tautologia: che non vi è lavoro salariato, dove non è capitale.
Le accuse mosse contro il sistema comunista di produzione e d’appropriazione dei prodotti materiali, sono state mosse egualmente contro la produzione e l’appropriazione intellettuale. Come per il borghese, l’abolizione della proprietà di classe è l’abolizione d’ogni proprietà, così l’abolizione della coltura intellettuale di classe è l’abolizione d’ogni coltura intellettuale.
La coltura di cui esso deplora la perdita, significa per l’immensa maggioranza la maniera di divenire macchina.
Ma cessate di criticarci, finché giudicherete l’abolizione della proprietà privata secondo le vostre nozioni borghesi di libertà, di coltura, di diritto, ecc. Le vostre idee sono esse stesse i prodotti dei rapporti della produzione e della proprietà borghese, come il vostro diritto non è che la volontà della vostra classe eretta in legge, e come questa volontà, è essa stessa creata dalle condizioni materiali della vita della classe vostra.
Il concetto interessato che vi fa vedere nei vostri rapporti di produzione e di proprietà non dei rapporti transitorii nel progresso della produzione, ma delle leggi eterne di natura e di ragione, questo concetto illusorio, voi lo divideste con tutte le classi un tempo regnanti, ed oggi scomparse. Ciò che concepite per la proprietà antica, ciò che intendete per la proprietà feudale, non comprendete per la proprietà borghese.

* Confesso che questo è l'unico punto in cui non mi trovo d'accordo con gli autori. Questo "sopprimerlo" m'inquieta - forse su tale termine si sono appoggiati i dittatori del proletariato. Credo, tuttavia, che con sopprimere qui s'intende la mentalità borghese che tende a far credere che il suo pensiero, la sua azione siano l'unico Verbo, l'unica Legge, l'unico Potere possibile.

mercoledì 29 febbraio 2012

Le cose vanno forse meglio

«Sì parlò mai nell'antichità, tra schiavi e padroni, o nel Medioevo, tra servi della gleba e baroni, di un  ugual diritto di tendere alla felicità? Non venne forse la tendenza alla felicità delle classi oppresse sacrificata senza riguardi e in “ossequio al diritto” a quella delle classi dominanti? Sì, e la cosa era immorale; ma ora questo ugual diritto viene riconosciuto. Riconosciuto a parole, dacché e finché la borghesia, nella sua lotta contro la feudalità e nella formazione della produzione capitalistica, era costretta a sopprimere tutti i privilegi di casta e quindi personali, e a introdurre l'uguaglianza giuridica delle persone, prima nel diritto privato, poi a poco a poco anche nel diritto pubblico. Ma la tendenza alla felicità si alimenta solo in piccolissima parte di diritti ideali, e per la maggior parte di mezzi materiali, e a questo riguardo la produzione capitalistica ha cura che la grande maggioranza delle persone uguali in diritto riceva solo lo stretto necessario per vivere. Essa dunque non rispetta l'uguale diritto della maggioranza di tendere alla felicità più di quanto lo rispettassero la schiavitù o la servitù della gleba, se pure lo rispetta, in generale. E le cose vanno forse meglio per quanto riguarda i mezzi spirituali della felicità, i mezzi dell'educazione intellettuale?».

Di tutto il brano di Friedrich Engels riportato (tratto da Ludovico Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, 1886, Editori Riuniti, Roma 1969), che - mi sembra- dovrebbe essere mandato a mente da tutti gli umani che non sono capitalisti,  io vorrei limitarmi a rispondere alla domanda “finale”, che riscrivo:
«E le cose vanno forse meglio per quanto riguarda i mezzi spirituali della felicità, i mezzi dell'educazione intellettuale?»
Per quel che  mi riguarda, sì, anche se mi rendo conto che questo non basta, in fondo i mezzi spirituali sono le briciole che i padroni lasciano a noi che non abbiamo la vocazione, l'urgenza di essere loro servi o di emularli al punto di diventarlo anche noi, padroni. In fondo, dai tempi in cui Marx ed Engels scrivevano, il mondo è stato sufficientemente alfabetizzato, soprattutto la sua parte “occidentale”, che se uno vuole, almeno spiritualmente (leggi: seghe mentali), un po' di catene riesce a togliersele, riesce a godere, a essere felice fruitore della beltà, ovvero di quelle cose del pensiero per cui vale la pena vivere. Va bene, a casa non ho un Van Gogh, un Picasso o chi volete voi, ma posso comunque vederli. Va bene, nessun musicista mi compone variazioni, tuttavia le posso ascoltare; così come posso leggere Dante, vedere Amarcord, o altre cose che mi strappano alla disperazione. Certo, prima lo stomaco, un tetto, un po' di pelo, eccetera, tutto vero; ma poi, prendo un libro (anche Engels) o un post di qualche amica/o blogger e, anche se rasoterra, mi succede di volare.

sabato 14 gennaio 2012

Knockin' On Earth's Door


«Questa concezione della storia si fonda dunque su questi punti: spiegare il processo reale della produzione, e precisamente muovendo dalla produzione materiale della vita immediata, assumere come fondamento di tutta la storia la forma di relazioni che è connessa con quel modo di produzione e che da essa è generata, dunque la società civile nei suoi diversi stadi, e sia rappresentarla nella sua azione come Stato, sia spiegare partendo da essa tutte le varie creazioni teoriche e le forme della coscienza, religione, filosofia, morale ecc. ecc. e seguire sulla base di queste il processo della sua origine, ciò che consente naturalmente anche di rappresentare la cosa nella sua totalità (e quindi anche la reciproca influenza di questi lati diversi l'uno sull'altro). Essa non deve cercare in ogni periodo una categoria, come la concezione idealistica della storia, ma resta salda costantemente sul terreno storico reale, non spiega la prassi partendo dall'idea, ma spiega le formazioni di idee partendo dalla prassi materiale, e giunge di conseguenza al risultato che tutte le forme e prodotti della coscienza possono essere eliminati non mediante la critica intellettuale, risolvendoli nella autocoscienza o trasformandoli in spiriti, fantasmi, spettri, ecc., ma solo mediante il rovesciamento pratico dei rapporti sociali esistenti, dai quali queste fandonie idealistiche sono derivate; che non la critica, ma la rivoluzione è la forza motrice della storia, anche della storia della religione, della filosofia e di ogni altra teoria. Essa mostra che la storia non finisce col risolversi nella autocoscienza come “spirito dello spirito”, ma che in essa ad ogni grado si trova un risultato materiale, una somma di forze produttive, un rapporto storicamente prodotto con la natura e degli individui fra loro, che ad ogni generazione è stata tramandata dalla precedente una massa di forze produttive, capitali e circostanze, che da una parte può senza dubbio essere modificata dalla nuova generazione, ma che d'altra parte impone ad essa le sue proprie condizioni di vita e le dà uno sviluppo determinato, uno speciale carattere; che dunque le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze».

Karl Marx, Friedrich Engels, L'ideologia tedesca, cap. I, Editori Riuniti.

In punta dei piedi, bussando, cerco d'entrare nel grande complesso architettonico del pensiero marxista. Sarà la crisi di sistema, sarà che il quotidiano esercizio pedagogico di Olympe de Gouges su me funziona, sarà anche perché, insomma, e lo dico a naso, Marx sta all'economia come Darwin sta all'evoluzionismo¹ - e come l'idea pericolosa di quest'ultimo ha contribuito a modificare la mia forma mentis, così, credo, anche Marx, potenzialmente, potrebbe darmi, non dico fedi, ma ragioni per capire il mondo il reale, e catturarlo come un entomologo cattura e studia le farfalle.
Finora mi sono tenuto lontano da Marx ed Engels per varie ragioni: la prima, è che ho iniziato a leggere libri nel momento in cui il socialismo reale non stava tanto bene, le voci del dissenso dell'est europeo sgretolavano la cortina di ferro e io le ascoltavo pieno di rabbia e di ammirazione  per quello che avevano subito e subivano  (penso a Salamov, a Brodskij, ad Havel); il Pci italiano, poi, era così grigio (Gaber dixit) e triste, e poi - insomma, la variegata composizione del pensiero umano non mi consentiva di concentrarmi su un pensiero così denso, totalizzante. Ne avevo paura di per sé, anche se intuivo che Marx non c'entrava niente con l'URSS e con la Cina, limitandomi solo a dire, in fondo, come Gesù stesso non c'entra niente col cristianesimo, tantomeno col cattolicesimo.
Bene, a piccoli passi, e senza alcuna pretesa di interpretazione e sistematicità, solo buttando là estratti e chiosandoli con quello che, al momento, essi mi danno come ispirazione, comincio a visitare il pensiero di Marx.
E riguardo al brano riportato cosa dire in particolare se non assentire? La nostra contemporaneità s'è trovata in sorte questa somma di forze produttive che stanno lacerando quel piccolo tessuto di benessere prodottosi, dal dopoguerra in poi, da quella cazzo di politica del debito, attraverso la quale hanno goduto un po' di persone, sì, ma a scapito di molte e di gran parte del mondo stesso. E infine, quando Marx ed Engels scrivono che «non la critica, ma la rivoluzione è la forza motrice della storia», mi sembra di leggere, con ciò, la sentenza di fallimento di ogni riformismo. I piccoli aggiustamenti del sistema non cambiano la natura di esso e i rapporti sociali esistenti perché il riformismo dà per scontato, aprioristicamente, che le classi sociali siano qualcosa di immodificabile e che siano giustificate, a prescindere, le separazioni di censo. In fondo chi è l'artefice delle riforme se non il potere stesso? E come può, chi comanda, riformare il sistema per danneggiare se stesso

¹Non vorrei dire cazzate, ma penso che, come l'incontro con la genetica mendeliana ha fornito alla teoria darwiniana di selezione naturale il pieno statuto di scientificità, a Marx servirebbe qualcosa di analogo, ovvero che qualche teorico fornisca, coi suoi studi sui piselli in scatola del supermercato (leggasi in modo estensivo tutto il sistema di produzione capitalistico) nuove applicazioni del marxismo.