domenica 8 luglio 2012

Meno ventiquattro

«Ogni uomo va morendo di ventiquattro ore al giorno. Ma a prima vista non si riconosce precisamente in nessun uomo di quanti giorni egli sia già avanzato verso la morte». Karl Marx, Il capitale, Libro I, Sez. III, Cap. 6 “Capitale costante e capitale variabile”.

È per questo, Lucas, che stamani non ti sei fatto la barba e sei fuggito via dallo specchio, sei uscito quasi in mutande e hai fotografato un girasole (qualcuno l'ha visto, da qualche parte l'hai condiviso). Volevi quello come ritratto, come autoritratto, dato che - avverti - la vita si spegne, gradualmente; non dici userai mai un interruttore, un click, no, ma una specie di manopola tipo le vecchie autoradio che giravi e giravi e non trovavi mai una stazione giusta, un parcheggio giusto, dove fermarsi, e baciarsi perdutamente con colei che ti prese il cuore, senza tema di essere visti da chi eventualmente poi avrebbe potuto potenzialmente sputtanare un amore improbabile. 
Ma l'inquietudine non è roba che si nasconde, che si spinge nel profondo, quando c'è c'è, viene su, come il vomito, e devi in qualche modo espellerla, per liberarti. Non dico per sentirti meglio, non si sta meglio dopo aver vomitato, l'amertume resta - e la bocca non è delle migliori. Ok, ma dopo puoi camminare, puoi leggere, urlare, mandare a fanculo il prossimo che ti sta antipatico, addentare delle ore che scorrono un pezzo di crosta di tempo, e rifarti lo stomaco forte, sicuro che il debito di vita di cui ognuno è creditore, vada esatto (participio passato verbo esigere). E questo, soprattutto, perché non appartieni a quell'«esiguo un per cento» di figli di puttana che ammorbano il mondo perché non vogliono condividerlo.
Ecco, così va meglio. Senti, ci sono delle braccia che ti stanno cercando e il pomeriggio ti appartiene. No, non devi rincrescerti se hai macchiato di vita questo spazio bianco. Puliamo noi, dopo.

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