Visualizzazione post con etichetta György Lukàcs. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta György Lukàcs. Mostra tutti i post

martedì 7 agosto 2018

Un atteggiamento spirituale

«Così come il migliore degli astronomi, nonostante il suo sapere copernicano, soggiace comunque alla sensazione del “sorgere” del sole, la più decisa analisi marxista dello Stato capitalistico non potrà mai sopprimere la sua realtà empirica. E neppure lo deve. La conoscenza marxista deve far sì che il proletariato assuma un atteggiamento spirituale nel quale lo Stato capitalistico si presenti, nel momento in cui viene osservato, come un elemento dello sviluppo storico. Esso non costituisce perciò “il” mondo circostante “naturale” dell'uomo, ma soltanto un reale dato di fatto, del cui potere effettivo occorre tener conto, ma che non può di per se stesso pretendere di determinare le nostre azioni. La validità dello Stato e del diritto deve quindi essere trattata come un fatto meramente empirico. Nello stesso modo un aliante deve adeguarsi alla direzione del vento, non perché sia esso a determinare la sua rotta, ma al contrario per attenersi alle mète originariamente fissate, utilizzando il vento ed a suo malgrado. Eppure, questa spregiudicatezza che l'uomo ha acquisito a poco a poco di fronte agli avversi poteri della natura nel corso di un lungo sviluppo storico, manca ampiamente ancora oggi al proletariato di fronte ai fenomeni della vita sociale. E con ciò è ben comprensibile. Infatti, benché nei casi particolari le regole coercitive della società siano tanto duramente e brutalmente materiali, tuttavia il potere di ogni società è essenzialmente un potere spirituale, e da esso ci può liberare soltanto la conoscenza: non certo la conoscenza astratta, puramente cerebrale che è propria anche di molti “socialisti”, ma una conoscenza che sia divenuta carne e sangue, una “attività critico-pratica” secondo le parole di Marx. 
L'attualità della crisi del capitalismo rende una simile conoscenza tanto possibile quanto necessaria. Essa diventa possibile per il fatto che, a causa della crisi, la vita stessa fa apparire visibilmente ed in modo direttamente esperibile la problematicità del mondo circostante sociale abituale. Ma essa diventa decisiva e quindi necessaria per la rivoluzione perché il potere effettivo della società capitalistica viene scosso al punto che essa non è più in grado di imporsi con la violenza, nel momento in cui il proletariato contrappone coscientemente e decisamente il proprio potere al suo. È un elemento di natura ideologica che impedisce un simile agire. Ancora durante la crisi mortale del capitalismo, le larghe masse del proletariato sentono lo Stato, il diritto e l'economia della borghesia come l'unico mondo circostante possibile della loro esistenza, nel quale indubbiamente molte cose debbono essere migliorate (“organizzazione della produzione”), ma che forma tuttavia la base “naturale” della società.»
György Lukács, Storia e coscienza di classe, ("Legalità ed illegalità", II).

sabato 14 gennaio 2017

Il senso del suo stesso tramonto

“L’impossibilità economica della accumulazione in una società puramente capitalistica non si manifesta quindi nel ‘cessare’ del capitalismo con l’espropriazione dell’ultimo produttore non capitalistico, ma nelle azioni che l’approssimarsi di questa situazione […] impone alla classe capitalistica nella colonizzazione febbrile, nella lotta per la conquista dei mercati e dei territori ricchi di materie prime, nell’imperialismo e nella guerra mondiale, ecc. Infatti, il dispiegarsi di una tendenza dialettica dello sviluppo non è un progresso all’infinito che si approssima alla mèta attraverso graduali incrementi quantitativi. Le tendenze di sviluppo della società si esprimono piuttosto in un’interrotta trasformazione qualitativa della struttura sociale (della composizione delle classi, del loro rapporto di forze, ecc.). E nella misura in cui la classe attualmente dominante cerca di padroneggiare queste modificazioni nell’unico modo ad essa possibile – e sembra realmente riuscirvi in rapporto ai ‘fatti’ ed ai loro elementi particolari – con la sua cieca ed inconsapevole attuazione delle necessità della sua situazione, essa accelera il realizzarsi di quelle tendenze il cui senso è il suo stesso tramonto.”

György Lukács, Storia e coscienza di classe, cap. III, par. 4.

martedì 7 aprile 2015

Nessuno può imitarci il particolare

«So bene che è difficile, ma la comprensione e la rappresentazione del particolare è anche la vita propria dell'arte. E poi: finché ci si ferma all'universale ognuno ci può imitare; ma nessuno può imitarci il particolare. Perché? Perché gli altri non lo hanno vissuto. Non c'è neppure da temere che il particolare non trovi eco. Ogni carattere, per quanto tipico possa essere, ogni oggetto da rappresentare dalla pietra sino all'uomo possiede universalità; poiché tutto si ripete e non vi è cosa al mondo che sia esistita soltanto una volta.»

Goethe a Zelter, 30 ottobre 1808, tratto da “Il problema estetico del particolare nell'illuminismo e in Goethe”, G. Lukács, Prolegomeni a un'estetica marxista, Editori Riuniti, Roma 1957, traduzione di Fausto Codino e Mazzino Montinari.

Attaccarsi al particolare, insomma, è un po' come attaccarsi al cazzo: ognuno s'attacca al proprio, perlomeno credo, ché difficile in queste stagioni attaccarsi a quello degli altri [*] 
Di tale similitudine sono debitore a un breve dialogo rubato tra una cuoca e un ospite anziano di una residenza sanitaria, con la cuoca che chiedeva come andassero le giornate e l'ospite che rispondeva lamentandosi che gli faceva male qui, che gli prudeva là, soprattutto i coglioni, la base dell'attaccamento al particolare, appunto.

_______
[*] A meno che la tua particolarità non trovi eco in certe orecchie mercanti, da mezzano, tipo quelle che avevano per esempio un Tarantini o un Lele Mora (esempi triti, d'accordo, ma sono i primi che mi sono venuti, anche per evidenziare che il particolare in oggetto è unisex).

lunedì 9 febbraio 2015

Apologetica diretta e indiretta

«Mentre l'apologetica diretta si preoccupa di nascondere, di contestare in modo sofistico, di far sparire le contraddizioni del sistema capitalistico, l'apologetica indiretta prende le mosse proprio da queste contraddizioni, ne riconosce l'effettiva esistenza e l'impossibilità di negarle come dato di fatto, ma ne dà un'interpretazione che – nonostante tutto questo – torna a vantaggio della conservazione del capitalismo. Mentre l'apologetica diretta s'ingegna di presentare il capitalismo come il migliore degli ordinamenti, come la vetta suprema e definitiva dell'evoluzione dell'umanità, l'apologetica indiretta mette in rilievo senza riguardo i lati cattivi e gli orrori del capitalismo, ma afferma che essi non sono proprietà specifiche del capitalismo, ma della vita umana, dell'esistenza in generale. Ne consegue necessariamente che la lotta contro questi mali appare fin da principio non solo come vana, ma come qualcosa di assurdo, come un tentativo di distruggere l'essenza stessa dell'uomo».

György Lukács, La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959 ( pag. 208, traduzione di Eraldo Arnaud)

Se avessi un forziere elvetico, è presumibile sarei un pessimista cosmico, alla Schopenhauer. Se invece non ce l'avessi - come di fatto non ce l'ho - allora più che asciugarmi le lacrime col velo di Maya, comincerei oltreché a sfanculare contro i figli di troia che affamano il mondo, a meditare sul perché pochi d'essi riescono a farlo in bella guisa senza che nessuno dica pio. Se non lo facessi e continuassi a credere che, lo dico a stronco, il mondo è volontà e rappresentazione, che è naturale ch'esistano superòmini che ciucciano il ciucciabile e il resto, la ciurma di contorno, mangi macedonia di polvere e catrame, allora, lo dico francamente, mi sentirei nel fondo, non dico colpevole, ma un po’ complice sì, leggermente, perché mi sentirei di soffiare sulle vele di chi già ha il vento in poppa e in culo - e scorreggia sul  mondo, il mondo che non è rappresentazione, no, prova a strusciare il cazzo contro un muro, Arturo, e senti come brucia.

giovedì 22 gennaio 2015

Parallasse



«La lotta per l'unità nazionale domina tutto lo sviluppo politico e ideologico della Germania nel secolo XIX. E la forma particolare in cui questo problema trovò infine soluzione, dà la sua particolare impronta a tutta la vita spirituale della Germania dalla seconda metà del secolo XIX fino ad oggi.
In questo consiste la caratteristica principale dello sviluppo della Germania; ed è facile vedere come questo asse intorno al quale tutto gira non è nient'altro che una conseguenza del ritardato sviluppo capitalistico di questo paese. Gli altri grandi popoli dell'Occidente, particolarmente l'Inghilterra e la Francia, hanno raggiunto la loro unità nazionale già sotto la monarchia assoluta, vale a dire, l'unità nazionale fu in esse uno dei primi risultati della lotta di classe fra borghesia e feudalesimo. In Germania, invece, la rivoluzione borghese deve ancora conquistare quest'unità, deve ancora porne le fondamenta. (Soltanto l'Italia ha avuto uno sviluppo simile; le conseguenze spirituali mostrano, pur nella diversità della storia dei due popoli, una certa affinità, che ha agito manifestamente proprio nei tempi più recenti).»
György Lukàcs, La distruzione della ragione, (Vol. 1), “Alcune caratteristiche dello sviluppo storico della Germania”, Einaudi, Torino 1959

mercoledì 17 dicembre 2014

Vorrei fottermene

«Gli scrittori di questa generazione [fine Ottocento] odiavano la società borghese perché essa non concedeva alla personalità questo margine di libero sviluppo. Essi si volgevano verso i ceti inferiori, perché là vedevano i propri compagni nella sofferenza, soprattutto nella repressione della personalità. Essi divennero “socialisti” in seguito a confusi sentimenti messianici. Via via che le loro idee diventarono, almeno soggettivamente, più consapevoli, e che essi si volsero sempre più decisamente verso il problema dello sviluppo della personalità – il loro vero problema cardinale –, andò dileguandosi il loro interesse per gli ideali socialisti, e in pari tempo essi cominciarono ad allontanarsi dal Naturalismo, che era diventato ormai per loro un abito troppo stretto. […]
Il notevole poeta lirico Detlev von Liliencron […] esprime chiaramente lo stato d'animo dell'epoca del superamento del Naturalismo:
No, le assurdità socialdemocratiche non le capisco. Quel che capisco è l'anarchismo.. questo mi piace, perché qui viene fuori direttamente, senza ipocrisie, l'orribile animale da preda che ha nome uomo”.

Le simpatie anarchiche, in molti casi legate a Nietzsche, sono generali in questo periodo, ma pochissimi gli scrittori in grado di esprimere le conseguenze di questa svolta con la schietta disinvoltura mostrata qui e altrove Liliencron. Egli non si perita nemmeno di dichiarare apertamente che tali simpatie anarchiche si possono benissimo conciliare intimamente con l'accettazione dell'imperialismo. Egli si chiede una volta che cosa troveranno i posteri nel suo poema epico Poggfred, e risponde:
... la miseria filistea del tran tran quotidiano; l'ipocrisia sociale, morale e religiosa; il vile punzecchiamento di tutti i forti impulsi; e, ciò nondimeno, l'irrefrenabile volo della fantasia personale, la gioia indistruttibile per l'esistenza naturale, per le avventure dell'amore, della guerra e dei viaggi per il mondo; ma soprattutto l'illimitato umorismo dell'uomo di mondo che si affida solo a se stesso, che davanti ad ogni bassezza dell'umano destino finirà sempre per dire: Je m'en fiche.

Qui l'imperialismo è approvato apertamente e senza ambagi.»

György Lukács, Breve storia della letteratura tedesca, Einaudi, Torino 1956 (traduzione di Cesare Cases).

È una grande tentazione quella di dire, più o meno tra i baffi, «davanti ad ogni bassezza dell'umano destino» “me ne frego”, vada a farsi fottere il mondo, tanto è irredimibile, disastri, storture, carneficine che non hanno fine e tante facce tante che ripetono, ipnotiche, che «dobbiamo procedere con coerenza e senza battute d'arresto sulla via delle riforme».

La via delle riforme battuta da decenni più della Salaria. Quante puttane, quanto lavoro, quanti soldi sprecati. Il pensiero, soprattutto, che si è smarrito a forza di procedere con coerenza. La coerenza non è più la bussola adatta per orientarsi in un mondo d'incoerenti...
Ma come conciliare il fottersene e il rifiuto dell'«imperialismo»? 
Ora ci dormo su.

lunedì 15 settembre 2014

Libertà intellettuale relativa

«Non bisogna tuttavia dimenticare che questo atteggiamento dipende strettamente dalla situazione economico-sociale degli scrittori tedeschi. La povertà e la piccineria delle condizioni tedesche rendono estremamente difficile l'esistenza indipendente degli scrittori. Anche per essi, come per gli intellettuali piccolo-borghesi in generale, la base economica è data dai posti subalterni della burocrazia statale. Ne consegue non soltanto la dipendenza materiale, ma nella maggior parte dei casi anche una limitazione degli orizzonti. E se con l'andar del tempo si sviluppa in alcune corti un certo mecenatismo, i suoi effetti “liberatori” non dovrebbero essere sopravvalutati. In parte esso comporta uno spaventoso sfruttamento delle forze migliori per miseri lavori burocratici (Herder a Weimar), e in parte si tratta, là dove la situazione è relativamente migliore, di casi eccezionali. E gli scrittori che, nonostante questa dipendenza, hanno tentato di esprimere le loro opinioni con una relativa libertà, dovettero per lo più espiare con una lunga prigionia nelle carceri dei principi».


György Lukács, Breve storia della letteratura tedesca, Einaudi, Torino 1956 (traduzione di Cesare Cases)

Quanto di ciò che Lukács scriveva sull'illuminismo tedesco può essere riferito allo stato degli intellettuali (di cartello) italiani? Molto, ma con una differenza fondamentale che provo a riformulare così: La povertà e la piccineria delle condizioni italiane rendono estremamente facile l'esistenza dipendente degli scrittori. Anche per essi, come per gli intellettuali piccolo-borghesi in generale, la base economica è data dai posti di rilievo della burocrazia statale e dell'industria culturale e/o di intrattenimento. Ne consegue non soltanto la dipendenza materiale, ma nella maggior parte dei casi anche una limitazione degli orizzonti.

E con gli orizzonti limitati, agli intellettuali resta solo l'auspicio delle riforme. La riforma del titolo quinto della Costituzione: tanta roba da espiare di per sé.

venerdì 18 aprile 2014

Una zazzera centroeuropea

« Gli Entretiens si sono ridotti in sostanza a un dialogo fra l’esistenzialista Karl Jaspers e il marxista Lukács György. Jaspers è popolarissimo in Europa, Lukács infinitamente meno. Personalmente, io cedevo un poco all’influsso della rappresentazione mitica che me n’aveva fornita l’amico Theophil Spoerri, assiduo ed entusiastico frequentatore dell’unico esemplare del capolavoro di Lukács che figuri in una biblioteca pubblica svizzera. Quando codesta opera, su marxismo e coscienza di classe, fu giudicata eterodossa dalle supreme istanze del partito, Lukács si sottomise alla condanna e sottrasse alla circolazione quante più copie gli fu possibile, tanto che il libro è diventato una rarità: dimostrando per tal modo di non essere soltanto, teoreticamente, la testa più forte del marxismo, ma, nei fatti, un fedele senza riserve. E si capisce come, esule in Russia dopo la disfatta del regime Bela Kun in cui era stato sottosegretario, vi abbia esercitato funzioni direttive della propaganda; e come da poco sia tornato in Ungheria, quale professore di estetica (forse noi gli avremmo preferito un’altra cattedra, ma non più “utile”) all’università di Budapest. Mentre Jaspers, gentiluomo altissimo, esile, pallido e canuto, figurino impeccabile in nero o in grigio, possedeva il capitale d’un volto amabile a priori all’uditorio e lasciava visibilmente trasparire sotto l’eleganza letteraria la nobiltà d’una gradevole personalità morale, il piccolo Lukács, col suo volto di asceta magro e duro, con la bocca larghissima e piatta, gli occhiali ampî, la zazzera centroeuropea appena contenuta e un vestitino color senape, di sé offriva crudelmente sempre e soltanto la lama. Con ciò, non so su quanti ascoltatori potesse contare disposti a provare, non dirò attrattiva, ma addirittura simpatia, verso lo spettacolo dell’intelligenza pura, intendo anche scevra d’ogni altra qualità umana. Comunque, c’era chi scrive, affetto di codesta infrenabile debolezza. S’aggiunga che non è diffusa la sensibilità al rigore del ragionamento. Il discorso di Jaspers era benissimo composto e sistematico, ma si può dubitare che un’interiore coerenza e necessità speculativa legasse alle premesse esistenzialistiche i corollari di fraternità universale e di vago liberalismo (Jaspers s’inibiva ogni preciso esame politico) che egli offriva come coronamento della sua etica. (Poiché a un filosofo non chiederemo né di condurre né di predicare una vita irreprensibile, ma di produrre una morale teoreticamente soddisfacente). La chiusura era invece totale dalla parte di Lukács, fra l’elogio del razionalismo cartesiano, illuministico e hegeliano e il riscontro di simile tradizione nella sola società organizzata se non altro come germe di democrazia reale e non formale, o addirittura la ricorrente applicazione della formula d’alleanza del ’41 fra i due generi di democrazie. Lukács, voglio dire l’intelligenza di Lukács, è stato il trionfatore ideale di questa corrida filosofica, e con lui qualche marxista francese passabilmente eterodosso, da buon intellettuale; o diciamo che, sia pure per l’interposta persona dei marxisti, ha trionfato Hegel. Si potrà deplorare la lacuna aperta fra le due concezioni, l’assenza della “terza” voce, per esempio del hegelismo liberale, il silenzio del pensiero italiano¹; ma i fatti son questi. »

Gianfranco Contini, Dove va la cultura europea?, Quodlibet, Macerata 2012

¹Alla Fiera letteraria Rencontre Internationales svoltasi a Ginevra nel 1946 era stato invitato anche Benedetto Croce, il quale non partecipò. Contini, innanzi a quanto sopra trascritto, testimonia uno spassoso perché:
«Quanto a Croce, anche lui preannunciato, e che poi mise innanzi impedimenti fisici, era facile prevedere ch’egli pure paventasse un’anfizionìa radicaleggiante, alla Guglielmo Ferrero; ma mi hanno autorevolmente assicurato ch’egli fu soprattutto sensibile alla minaccia d’una calata di Sartre: «E allora che ci andiamo a fare?», badava a ripetere.»

martedì 14 giugno 2011

Coscienza di classe


Il proletariato […] si presenta anzitutto come puro e semplice oggetto dell'accadere storico. In tutti i momenti della vita quotidiana, nei quali l'operaio singolo sembra presentarsi come soggetto della propria vita, quest'illusione gli viene tolta dall'immediatezza della sua esistenza: «Il consumo individuale dell'operaio continua dunque ad essere sempre un momento della produzione e della riproduzione del capitale, sia che avvenga dentro o fuori dell'officina, fabbrica, ecc., dentro o fuori del processo lavorativo, proprio come la pulizia della macchina, sia che avvenga durante il processo lavorativo sia durante determinate pause di questo» [Karl Marx, Il Capitale]. Nella vita dell'operaio, la quantificazione degli oggetti, il loro essere determinati da astratte categorie riflessive viene alla luce immediatamente come un processo di astrazione operato sul lavoratore stesso: esso separa da lui la sua forza-lavoro e lo costringe a vendere questa forza-lavoro come unica merce di sua proprietà. Così facendo, l'operaio inserisce questa merce (e quindi se stesso poiché essa non è separabile dalla sua persona fisica) in un processo parziale, meccanico-razionale, che egli trova immediatamente di fronte a sé come definito, concluso e funzionante anche senza di luio: in esso, egli è inserito come un numero puramente ridotto ad astratta quantità, come uno strumento accessorio meccanizzato e razionalizzato.
Il carattere reificato della modalità immediata di manifestazione della società capitalistica viene spinto così per l'operaio sino alle sue estreme conseguenze. È vero: questa duplicazione della personalità, questa lacerazione dell'uomo in un elemento del movimento delle merci ed in uno spettatore (oggettivamente impotente) di questo movimento sussiste anche per il capitalista. Ma per la sua coscienza esso assume necessariamente la forma di un'attività sia pure oggettivamente apparente, di un attivo dispiegarsi del suo soggetto. Quest'apparenza occulta è per il capitalista la vera condizione di fatto: per l'operaio, invece, al quale è precluso questo margine interno di un'attività apparente, la lacerazione del suo soggetto conserva la forma brutale di un asservimento tendenzialmente illimitato. Egli è perciò costretto a subire come oggetto del processo la propria mercificazione, la propria riduzione a pura quantità.

György Lukàcs, Storia della coscienza di classe, 1922, ed. Sugarco, Milano 1991, traduzione di Giovanni Piana, pag. 218-219