« Gli Entretiens si
sono ridotti in sostanza a un dialogo fra l’esistenzialista Karl
Jaspers e il marxista Lukács György. Jaspers è popolarissimo in
Europa, Lukács infinitamente meno. Personalmente, io cedevo un poco
all’influsso della rappresentazione mitica che me n’aveva fornita
l’amico Theophil Spoerri, assiduo ed entusiastico frequentatore dell’unico esemplare del capolavoro di Lukács che figuri in una
biblioteca pubblica svizzera. Quando codesta opera, su marxismo e
coscienza di classe, fu giudicata eterodossa dalle supreme istanze
del partito, Lukács si sottomise alla condanna e sottrasse alla
circolazione quante più copie gli fu possibile, tanto che il libro è diventato una rarità: dimostrando per tal modo di non essere
soltanto, teoreticamente, la testa più forte del marxismo, ma, nei
fatti, un fedele senza riserve. E si capisce come, esule in Russia
dopo la disfatta del regime Bela Kun in cui era stato
sottosegretario, vi abbia esercitato funzioni direttive della
propaganda; e come da poco sia tornato in Ungheria, quale professore
di estetica (forse noi gli avremmo preferito un’altra cattedra, ma
non più “utile”) all’università di Budapest. Mentre Jaspers,
gentiluomo altissimo, esile, pallido e canuto, figurino impeccabile
in nero o in grigio, possedeva il capitale d’un volto amabile a
priori all’uditorio e lasciava visibilmente trasparire sotto
l’eleganza letteraria la nobiltà d’una gradevole personalità
morale, il piccolo Lukács, col suo volto di asceta magro e duro, con
la bocca larghissima e piatta, gli occhiali ampî, la zazzera
centroeuropea appena contenuta e un vestitino color senape, di sé
offriva crudelmente sempre e soltanto la lama. Con ciò, non so su
quanti ascoltatori potesse contare disposti a provare, non dirò
attrattiva, ma addirittura simpatia, verso lo spettacolo
dell’intelligenza pura, intendo anche scevra d’ogni altra qualità
umana. Comunque, c’era chi scrive, affetto di codesta infrenabile
debolezza. S’aggiunga che non è diffusa la sensibilità al rigore
del ragionamento. Il discorso di Jaspers era benissimo composto e
sistematico, ma si può dubitare che un’interiore coerenza e
necessità speculativa legasse alle premesse esistenzialistiche i
corollari di fraternità universale e di vago liberalismo (Jaspers
s’inibiva ogni preciso esame politico) che egli offriva come
coronamento della sua etica. (Poiché a un filosofo non chiederemo né
di condurre né di predicare una vita irreprensibile, ma di produrre
una morale teoreticamente soddisfacente). La chiusura era invece
totale dalla parte di Lukács, fra l’elogio del razionalismo
cartesiano, illuministico e hegeliano e il riscontro di simile
tradizione nella sola società organizzata se non altro come germe di
democrazia reale e non formale, o addirittura la ricorrente
applicazione della formula d’alleanza del ’41 fra i due generi di
democrazie. Lukács, voglio dire l’intelligenza di Lukács, è
stato il trionfatore ideale di questa corrida filosofica, e con lui
qualche marxista francese passabilmente eterodosso, da buon
intellettuale; o diciamo che, sia pure per l’interposta persona dei
marxisti, ha trionfato Hegel. Si potrà deplorare la lacuna aperta
fra le due concezioni, l’assenza della “terza” voce, per esempio
del hegelismo liberale, il silenzio del pensiero italiano¹; ma i fatti
son questi.
»
Gianfranco Contini, Dove
va la cultura europea?,
Quodlibet, Macerata 2012
¹Alla Fiera letteraria Rencontre Internationales svoltasi a Ginevra nel 1946 era stato invitato anche Benedetto Croce, il quale non partecipò. Contini, innanzi a quanto sopra trascritto, testimonia uno spassoso perché:
¹Alla Fiera letteraria Rencontre Internationales svoltasi a Ginevra nel 1946 era stato invitato anche Benedetto Croce, il quale non partecipò. Contini, innanzi a quanto sopra trascritto, testimonia uno spassoso perché:
«Quanto a Croce, anche lui preannunciato, e che poi mise innanzi impedimenti fisici, era facile prevedere ch’egli pure paventasse un’anfizionìa radicaleggiante, alla Guglielmo Ferrero; ma mi hanno autorevolmente assicurato ch’egli fu soprattutto sensibile alla minaccia d’una calata di Sartre: «E allora che ci andiamo a fare?», badava a ripetere.»
Nessun commento:
Posta un commento