venerdì 18 aprile 2014

Una zazzera centroeuropea

« Gli Entretiens si sono ridotti in sostanza a un dialogo fra l’esistenzialista Karl Jaspers e il marxista Lukács György. Jaspers è popolarissimo in Europa, Lukács infinitamente meno. Personalmente, io cedevo un poco all’influsso della rappresentazione mitica che me n’aveva fornita l’amico Theophil Spoerri, assiduo ed entusiastico frequentatore dell’unico esemplare del capolavoro di Lukács che figuri in una biblioteca pubblica svizzera. Quando codesta opera, su marxismo e coscienza di classe, fu giudicata eterodossa dalle supreme istanze del partito, Lukács si sottomise alla condanna e sottrasse alla circolazione quante più copie gli fu possibile, tanto che il libro è diventato una rarità: dimostrando per tal modo di non essere soltanto, teoreticamente, la testa più forte del marxismo, ma, nei fatti, un fedele senza riserve. E si capisce come, esule in Russia dopo la disfatta del regime Bela Kun in cui era stato sottosegretario, vi abbia esercitato funzioni direttive della propaganda; e come da poco sia tornato in Ungheria, quale professore di estetica (forse noi gli avremmo preferito un’altra cattedra, ma non più “utile”) all’università di Budapest. Mentre Jaspers, gentiluomo altissimo, esile, pallido e canuto, figurino impeccabile in nero o in grigio, possedeva il capitale d’un volto amabile a priori all’uditorio e lasciava visibilmente trasparire sotto l’eleganza letteraria la nobiltà d’una gradevole personalità morale, il piccolo Lukács, col suo volto di asceta magro e duro, con la bocca larghissima e piatta, gli occhiali ampî, la zazzera centroeuropea appena contenuta e un vestitino color senape, di sé offriva crudelmente sempre e soltanto la lama. Con ciò, non so su quanti ascoltatori potesse contare disposti a provare, non dirò attrattiva, ma addirittura simpatia, verso lo spettacolo dell’intelligenza pura, intendo anche scevra d’ogni altra qualità umana. Comunque, c’era chi scrive, affetto di codesta infrenabile debolezza. S’aggiunga che non è diffusa la sensibilità al rigore del ragionamento. Il discorso di Jaspers era benissimo composto e sistematico, ma si può dubitare che un’interiore coerenza e necessità speculativa legasse alle premesse esistenzialistiche i corollari di fraternità universale e di vago liberalismo (Jaspers s’inibiva ogni preciso esame politico) che egli offriva come coronamento della sua etica. (Poiché a un filosofo non chiederemo né di condurre né di predicare una vita irreprensibile, ma di produrre una morale teoreticamente soddisfacente). La chiusura era invece totale dalla parte di Lukács, fra l’elogio del razionalismo cartesiano, illuministico e hegeliano e il riscontro di simile tradizione nella sola società organizzata se non altro come germe di democrazia reale e non formale, o addirittura la ricorrente applicazione della formula d’alleanza del ’41 fra i due generi di democrazie. Lukács, voglio dire l’intelligenza di Lukács, è stato il trionfatore ideale di questa corrida filosofica, e con lui qualche marxista francese passabilmente eterodosso, da buon intellettuale; o diciamo che, sia pure per l’interposta persona dei marxisti, ha trionfato Hegel. Si potrà deplorare la lacuna aperta fra le due concezioni, l’assenza della “terza” voce, per esempio del hegelismo liberale, il silenzio del pensiero italiano¹; ma i fatti son questi. »

Gianfranco Contini, Dove va la cultura europea?, Quodlibet, Macerata 2012

¹Alla Fiera letteraria Rencontre Internationales svoltasi a Ginevra nel 1946 era stato invitato anche Benedetto Croce, il quale non partecipò. Contini, innanzi a quanto sopra trascritto, testimonia uno spassoso perché:
«Quanto a Croce, anche lui preannunciato, e che poi mise innanzi impedimenti fisici, era facile prevedere ch’egli pure paventasse un’anfizionìa radicaleggiante, alla Guglielmo Ferrero; ma mi hanno autorevolmente assicurato ch’egli fu soprattutto sensibile alla minaccia d’una calata di Sartre: «E allora che ci andiamo a fare?», badava a ripetere.»

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