Visualizzazione post con etichetta Robert Kurz. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Robert Kurz. Mostra tutti i post

domenica 12 giugno 2022

Il capitale mondo

«Nel mainstream della coscienza sociale (inclusa la cosiddetta scienza) si manifesta il degrado del presupposto fondamentale di ogni teoria, vale a dire la capacità di collocarsi in una prospettiva virtuale esterna o superiore, ossia di “distanziarsi” e di osservare la propria realtà da un punto di vista differente. Ma l'unica prospettiva riconosciuta dallo pseudo-dibattito dominante, che presuppone pur sempre il consenso universale sull' “economia di mercato” e sulla “democrazia”, è una prospettiva capovolta, tutta interna al capitalismo. Ed è questo a rendere il dibattito così deprimente e insulso. Una percezione immanente, deformata e priva di distacco, non potrà mai dar vita a una riflessione teorica. Ciò che appare come riflessione o che si contrabbanda come tale, resta confinata sin dal principio sul livello fenomenologico. D'altro canto questa limitazione si concilia perfettamente con il Credo postmoderno, che nega qualsiasi differenza tra l'essenza e l'apparenza e proclama la fine delle “grandi narrazioni”, ossia la fine di ogni teoria che abbia per oggetto la totalità, che si sforzi di ricostruire un nesso tra l'essenza e l'apparenza mediante la riflessione critica».
Robert Kurz, Il capitale mondo, Meltemi Editore 2022, 
traduzione a cura di Samuele Cerea e Massimo Maggini.


sabato 28 luglio 2018

A scaffale

Il termine "mercantile" si riferisce solo al comprare e al vendere. Una società mercantile nemmeno esiste. Il capitalismo è essenzialmente un modo di produzione e non un semplice modo di circolazione. Perciò l'espressione "economia di mercato" induce in errore. Marx già dimostrò che la riduzione della modernità a circolazione delle merci costituisce l'eldorado dell'ideologia capitalista, perché nel mercato appaiono solo proprietari "eguali" e "liberi" di merci e denaro. Però la merce ha da essere oggetto di produzione prima di diventare oggetto di circolazione.
Il mercato non è il luogo dell'incontro di soggetti "liberi", ma essenzialmente la sfera di "realizzazione" del plusvalore, pertanto della riconversione della forma merce nella forma del denaro. Si tratta del movimento del valore, del "soggetto automatico" (Marx), di uno stato di aggregazione verso l'altro. La merce non sussiste per sé, ma è uno stadio della valorizzazione. E i soggetti del mercato non sono che gli agenti di questo movimento. Ma la produzione generale delle merci è possibile solo attraverso la trasformazione della forza lavoro umana in una merce sui generis, e una forma generale del valore è possibile solo attraverso il plusvalore come irrazionale fine a se stesso. Esattamente in questo punto si mostra che la "socializzazione negativa" del capitale non consiste nell'appropriazione soggettiva del plusvalore da parte dei proprietari giuridici ma nella stessa forma valore, che si rende generale solo mediante il postulato sistemico del plusvalore. Dietro la "libertà" formale della circolazione, si incontra la soggezione (originalmente violenta) degli esseri umani al "lavoro astratto". È questa la relazione basica genuina del sistema produttore di merci. E questa relazione è portata all'assurdo nella terza rivoluzione industriale. Non è solo un problema di disoccupazione e miseria di massa, ma anche un problema dello stesso capitale, il quale comincia a perdere la "sostanza" della sua valorizzazione a causa della sua stessa dinamica.
La valle dove abito ha conosciuto, all'incirca dagli anni Sessanta a fine anni Novanta dello scorso secolo, una relativa espansione industriale e artigianale (con conseguente occupazione e parziale ricchezza del territorio), che si è andata via via esaurendo, fino ad assistere, a partire dagli anni duemila, alla vendita e al trasferimento di alcune imprese, al fallimento di altre (e al conseguente calo dell'occupazione e impoverimento del territorio). Resistono ancora alcune imprese che hanno mantenuto e/o sviluppato la propria capacità produttiva e di mercato, ma certo non sufficienti, da sole, a garantire prosperità all'intera vallata.

Accanto al declinante andamento del cosiddetto settore economico secondario (lasciando perdere il primario che è svolto da poche imprese agricole a gestione per lo più familiare che fanno buoni prodotti di nicchia), è cresciuto, oserei dire a dismisura, il settore terziario, non tanto quello relativo ai servizi e al turismo, bensì quello che riguarda il comparto super e iper mercati presenti sul territorio, non giustificato in rapporto al numero degli abitanti e alla loro complessivamente ribassata capacità di spesa. Infatti, la popolazione della vallata è più o meno la stessa di sempre, ma con meno soldi in tasca.

Questa riflessione socio-economica deriva dal fatto che ieri sono entrato per la prima volta in un grande negozio gestito da cinesi, di quelli che vendono di tutto (tranne alimentari, credo), ubicato in un ex capannone industriale nel quale, forse, prima si trovava un maglificio o chissà che.

Undici del mattino, tre persone (io, una signora dalla voce roca e un giovane cassiere col ciuffo manga) e una quantità sterminata di merci in vendita: abbigliamento, giardinaggio, utensileria, materiale elettrico, pentolame, bricolage, cartoleria, prodotti per la pulizia. Allo spaesamento generale che tali negozi (negozi? veramente negano l'ozio?) provocano, si è aggiunto lo stupore quando alla cassa la signora per pagare una ventina di euro di roba ha usato un biglietto da 100€. Nel farle il resto, il cassiere ha alzato il cassetto di banconote e spiccioli per ivi riporre le cento euro (comunemente non c'è lo spazio per le cento euro nei registratori di cassa) e, appunto sotto, ho visto una mazzetta di banconote di quel taglio che, considerata la scarsità della clientela in quel momento, mi ha fatto pensare: come diamine avrà fatto il negoziante a incassare tutti quei quattrini in una mattinata? Oppure anche: se i soldi in cassa non erano frutto delle vendite incassate quel giorno, perché i soldi non sono stati trasferiti su un conto corrente o, più facilmente, in una cassaforte?

Ma a parte questo dettaglio venale, riprendendo le parole sopra riportate di Robert Kurz: se la merce non sussiste di per sé ma è uno stadio della valorizzazione, quando si osserva, da vicino, il mancato assolvimento di tale compito di mediazione (schiere di supermercati con scaffali pieni di invenduto), è naturale domandarsi: dov'è la razionalità in tutto questo andamento economico e produttivo? 

martedì 27 giugno 2017

Il deliquio del capitale

«Gli svenimenti, comunque, sono diminuiti nell’ultimo anno: da 1.800 nel 2015 a 1.160 nel 2016. Lo ha assicurato Cheav Bunrith, direttore dell’ente di previdenza cambogiano» via
Gran parte dell'abbigliamento che compro e indosso è prodotto in Cina e in altre nazioni del Sud-Est asiatico. Devo dunque sentirmi, seppur in parte minima, responsabile delle condizioni di lavoro in cui sono costrette a lavorare le operaie e gli operai del settore tessile e calzaturierio di quegli stati?

No.

Non cominciamo con le colpe e con la coscienza creativa del consumo responsabile. Per un paio di Asics decenti ci vogliono almeno una settantina di euro (scontate), e che? devo spenderne settemila per non far svenire le addette alla produzione?

Sono dunque colpevoli Nike, Asics, Puma, VF Corporation, eccetera - nella fattispecie: il management che - in virtù della globalizzazione - ha dislocato la produzione in stati dove lo sfruttamento della forza lavoro è massimo e i diritti dei lavoratori al minimo?
Sì e no. Sì, nel senso che sono responsabili di adeguare la produttività dell'azienda agli standard previsti per essere competitivi sul mercato globale, pena il declino e, poi, il fallimento dell'azienda; no, perché questo adeguamento non lo fanno perché sono cattivi insensibili e inumani (anche se ci mettono del suo), ma perché, appunto, al sistema produttivo capitalistico fotte sega quali sono le condizioni di lavoro delle operaie e degli operai, l'importante è spremere per estrarre il succo, il pluslavoro, che è l'unica sostanza che aggiunge plusvalore al valore investito. Per non scimmiottare la questione, rimando a Olympe de Gouges, perché spiegare la faccenda meglio di così...

Sono per caso i governi di quelle nazioni a essere responsabili perché permettono alle multinazionali di imporre un regime produttivo ai limiti del servaggio?
Neanche. Nella competizione globale, alle nazioni con una struttura socio-economica arretrata e che non hanno ricchezze copiose nel sottosuolo, non resta che gareggiare con il capitale umano presente nel proprio territorio, per sfruttarlo in modo estensivo - e sottocosto.

E allora, anche questa volta, la colpa muore vergine?
No. Il problema è che il colpevole non è qualcuno, bensì qualcosa di impersonale: un sistema di riproduzione sociale che fa dell'uomo un mezzo e non il fine. È la logica del valore il vero responsabile della crisi che investe il consorzio umano.
Lascio la parola a Samuele Cerea che, nell'introduzione al libro di Robert Kurz, Il collasso della modernizzazione, Mimesis, scrive:
«Nella società moderna plasmata dal valore le relazioni umane su cui si fonda la riproduzione sociale devono prendere necessariamente la forma dello scambio di merci e della transazione monetaria e gli individui sono membri della società a pieno titolo solo in quanto venditori della loro forza-lavoro».
Ecco, care operaie cambogiane, piango con voi, ma sappiate che i vostri svenimenti - oltre a pagarvi un piatto di riso e poco più - sono una garanzia di identità. 

Che fare? 
Per il momento non mi sembra che ci sia qualcuno in esilio in Svizzera.

domenica 9 aprile 2017

Quando la gerarchia è scossa

O, when degree is shaked,
Which is the ladder to all high designs,
Then enterprise is sick!

W. Shakespeare, Troilus and Cressida, I, 3.


In un articolo scritto qui, si parla di un saggio (breve) scritto qua, dove si sostengono tesi a favore della gerarchia.
Bene, aldilà del sommo discorso che l'Ulisse shakespeariano rivolge ad Agamennone e alle truppe greche in stato d'assedio a Troia - discorso che ribadisce l'importanza del degree (grado, gerarchia) nell'ordine naturale delle cose, anche e soprattutto per contenere il caos dell'indifferenziazione e della violenza mimetica che conseguono in assenza di un ordine gerarchico («Tutto si risolve in potere: il potere in volere, il volere in appetito: e l'appetito, lupo universale, assecondato da due parti dal volere e dal potere, vorrà farsi una preda dell'universo, e alla fine divorerà se stesso» id. traduzione di Cesare Vico Lodovici, Einaudi, 1965) -, vorrei soffermarmi su alcune considerazioni estratte dal suddetto articolo, queste:


È evidente che per molte attività umane la gerarchia, il degree, è indispensabile: non si diventa medici per acclamazione, idraulici qualificati per raccomandazione, esperti informatici per sorteggio. 
Nondimeno, aldilà delle abilità dei vari quadri funzionali della macchina statale (il ragioniere, il funzionario, l'ambasciatore, il portaborse, il generale, il dirigente di vario tipo), nelle democrazie l'ordine gerarchico è stabilito democraticamente mediante elezioni. Purtuttavia, è un dato di fatto che i politici, pur bravi che siano, soprattutto per salvaguardare gli interessi nazionali, in molti casi riuscendovi (in Italia meno che altrove), essi non rientrano nella categoria gerarchica di selezione del personale migliore in ordine alle sue capacità.

Allora in che senso «la gerarchia può rafforzare la democrazia»?

In un senso solo: nel guidare lo Stato di Eccezione (dell'ordine democratico). Esempio a bomba: è stato o non è stato in base a un ordine gerarchico, del Comandante in Capo (certamente su pressione e suggerimento degli alti grado dello Stato Maggiore dell'Esercito), che gli Stati Uniti d'America hanno sparato un centinaio di Tomahawk sulla Siria? E questo ordine ha rafforzato la democrazia? 
No.

«Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione», sentenziava Carl Schmitt, teologo politico d'impronta nazistella. E, appunto, l'appetito gerarchico in campo politico sembra alluda a una autentica fame di autoritarismo, di aggiustapopoli con la mazza e lo scalpello perché... già, perché?

Perché in quest'epoca del tardocapitalismo avanzato il meccanismo della valorizzazione del capitale (che tutto informa e sorregge, comprese le gerarchie) si è inceppato, meccanismo  che, per circostanze storiche oramai irripetibili, ha funzionato (a sbalzi) dal dopoguerra fino alla caduta del Muro di Berlino (ma anche meno), dando l'impressione di essere l'unico sistema di riproduzione economica e sociale possibile per l'umanità. Adesso che, invece, da decenni oramai, questo sistema rimasto l'unico sulla piazza cozza contro i propri limiti (invalicabili), pastori e gregge sentono nuovamente il desiderio di ordine e disciplina, di guida sicura nei momenti incerti della crisi.

Tutta gente che ha bisogno di manico, dato che lo stato di eccezione è diventato la norma nelle democrazie liberali.
Come sostiene Robert Kurz in pagine di grande intensità teoretica (grazie a chi lo ha tradotto),
«il vero nocciolo della democrazia moderna è la dittatura e la vera essenza della cittadinanza dello Stato moderno consiste, in ultima istanza, in un rapporto di potere. Il guaio è che Schmitt sottolinea certo questa sgradevole verità, ma non allo scopo di formulare una critica emancipatoria della cittadinanza giuridica e della sua forma sociale (capitalistica); al contrario egli si assoggetta alla decisione autoritaria, al puro e semplice potere decisionale come fondamento ultimo di tutta la sovranità moderna, anche e soprattutto di quella democratica. Il teorico dello stato di eccezione è, simultaneamente, il cantore dello stato di eccezione e il rappresentante intellettuale del potere autoritario come posizione ontologica.
Per Schmitt lo stato di eccezione e, con esso, il nucleo di violenza autoritaria della democrazia, rappresenta l’autentica esistenza positiva della società come comunità di lotta esistenziale della nazione mistificata nella contesa cruenta tra le nazioni. Egli avversa la democrazia liberale e lo stato di diritto come una specie di stadio di debolezza della comunità di destino nazionale, in grado di oscurare la dimensione esistenziale del politico.»
Ecco fino a che punto la gerarchia può rafforzare la democrazia. Fino alla lotta stessa delle democrazie le une contro le altre (e ci sarà sempre uno meno democratico di te da tirargli in testa bombe democratiche).

Per il resto, per chi è interessato alla questione sulla gerarchia e lo stato di eccezione, rimando alla lettura del IX capitolo del libro di Robert Kurz,  Weltordnungskrieg, Das Ende der Souveränität und die Wandlungen des Imperialismus im Zeitalter der Globalisierung, Horlemann Verlag, Bad Honnef 2003, tradotto da Samuele Cerea. Prima parte. Seconda parte.

Godi popolo.

domenica 27 novembre 2016

Cuba Libre

«Mentre il liberalismo non ha fatto altro che criticare la gestione esteriore e burocratica della società guidata dallo Stato, chiaramente per favorire il mercato e la sua pretesa libertà d'azione, la critica radicale dello Stato di Marx vede nel mercato il rovescio della stessa medaglia: l'autoritarismo dello Stato non è che il pendant complementare dell'autoritarismo del mercato e il totalitarismo politico non è che una manifestazione del totalitarismo economico. Da ogni lato, gli individui non sono liberi perché alla mercé della burocrazia gli uni ed esposti alle potenze della concorrenza anonima gli altri. Mercato e Stato, politica ed economia non sono che le due facce di una situazione sociale paradossale, irrazionale e schizofrenica in cui gli individui si sdoppiano in “homo oeconomicus” e “homo politicus”, in “borghese” e “cittadino” e si trovano dunque in contraddizione con se stessi. Sono figure umane che hanno lo stesso grave difetto e che non si deve utilizzare l'una contro l'altra, ma annullarle in egual misura – certamente facendo di essi degli “individui sociali concreti” unici, come voleva lo stesso Marx nella sua critica del lavoro astratto».

Robert Kurz, Marx Lesen, Frankfurt am Main, 2000, versione francese Lire Marx, Éditions de la Balustrade, Paris 2002 (pag. 165, traduzione dal francese mia).

Tra le baruffe di bassa lega che si sono scatenate in occasione della morte di Fidel Castro, la cosa che più m'impressiona è l'anacronismo.
Nessuno che si accorga di colpire a vuoto, di menare fendenti all'aria, ché l'avversario non esiste. Tutto il mondo tutto – anche quando c'era il muro di Berlino (ma quando c'era era indubbiamente più difficile accorgersene) – è informato da una stessa logica costitutiva: il capitalismo. E la natura del capitalismo, sia esso di Stato o di Mercato, è sempre la stessa, ovunque, perché costretta ovunque dalle medesime leggi: produzione, sfruttamento del lavoro, conquista dei mercati, vendita, accumulazione, e così via, a ripetere, ripetere tuttavia cercando di sfuggire all'ineludibile caduta tendenziale del saggio di profitto.
Quel che più abbiamo da temere, come umani, è che prima del profitto cada la specie.

giovedì 7 luglio 2016

Invito alla lettura

Segnalo due testi di alto valore teorico.

Li segnalo in ordine cronologico, il primo essendo un saggio composto nel 1994 e l'altro un post (un semplice post!) pubblicato oggi.
***
Robert Kurz , La non autonomia dello Stato e i limiti della politica (traduzione di Samuele Cerea).
È un saggio che offre un'interpretazione illuminante sulla falsa dicotomia Stato-Mercato; dà, inoltre, una spiegazione assai convincente del perché il socialismo reale (i cosiddetti regimi comunisti) non fu affatto una vera alternativa agli stati in cui vigeva l'economia di mercato.
Ma in particolare spiega nel dettaglio perché i due poli contraddittori, Stato e Mercato, siano necessari l'uno all'altro.
«nella misura in cui l’economia di mercato si espandeva strutturalmente, assorbendo la riproduzione sociale nella sua interezza e convertendosi in un modo di vita universale, anche lo Stato doveva a sua volta allargare il suo raggio di azione. Si tratta di un’inevitabile relazione vicendevole.»
***
Olympe de Gouges, Oscuro sarà lei, stronzo!
Lo stronzo - interpreto - più che Vilfredo Pareto, sarebbe un fondamentalista del liberismo economico che, dalle pagine de Il Giornale, ha richiamato dei pensieriucoli a cazzo di cane del noto sociologo ed economista italiano.
A parte ciò, quello che più mi piace sottolineare del post suddetto, è una rinnovata esposizione di come interpretare correttamente il pensiero di Marx riguardo al ‘possibile’ superamento del capitalismo, sgombrando il campo dai pregiudizi di natura borghese.
«la teoria marxista della crisi è, soprattutto, la teoria della necessità del superamento del capitalismo, ovvero l’impossibilità della sua continuazione (che non significa – sia ben chiaro – la necessità assoluta del comunismo, ma solo la sua possibilità)».

domenica 14 febbraio 2016

Varoufakis è vivo e lotta insieme a noi

L'intervista è interessante, ci sono anche analisi e proposte condivisibili. Purtuttavia, come tutti gli economisti che si tengono a debita distanza dall'unica teoria in grado di fornire una spiegazione esaustiva del perché della crisi generale del capitalismo [*], anche Varoufakis rimane intrappolato nella credenza che il vero responsabile della crisi economica e sociale che investe l'Europa e il mondo, sia l'idrovora del capitalismo finanziario:
«C’è una crisi generale della democrazia, nell’epoca del capitalismo finanziarizzato. Il capitale finanziario è nemico della democrazia, ovunque nel mondo, negli Stati Uniti come in Europa. Il problema è universale, per così dire. Ma c’è una specificità tossica per quanto riguarda l’Europa: non abbiamo una federazione con specifiche istituzioni democratiche, la stessa Banca Centrale Europea ha uno statuto assolutamente unico, non paragonabile ad esempio a quello della Federal Reserve. »
Ah se noi europei potessimo dar vita, per esempio, a
«un movimento che imponga alla Banca Centrale di cominciare ad acquistare il debito della Banca Europea per gli Investimenti anziché quello tedesco o italiano, per finanziare un ambizioso Green New Deal per l’Europa. Così, invece di stampare moneta per i circuiti del capitale finanziario, la creazione di moneta andrebbe a finanziare la cooperazione produttiva, a creare posti di lavoro in settori innovativi, ponendo al tempo stesso condizioni favorevoli per l’organizzazione e la lotta dei lavoratori e contrastando la mercificazione e la precarizzazione del lavoro.»
Eccolo qua, un altro proudhoniano del cazzo. 
Ma come si fa ancora a credere a simili fandonie? Possibile che la Storia non abbia insegnato niente? Niente. Il capitale finanziario non è, di per sé, nemico di alcunché. Se ne frega della democrazia che può anche stargli bene, anzi: l'importante per esso è riuscire a far soldi dai soldi. C'est tout. Piuttosto: l'idea stessa di nemico della democrazia e dell'umanità presuppone una sorta di caccia alla streghe, bruciate le quali si ritrova l'idillio perduto, che in realtà non c'è mai stato, se non nei troppo mitizzati anni del boom economico. Non si tratta, insomma, di vittimizzare e riformare. Niente del capitalismo può essere riformato perché esso stesso ha, in sé, le cause della sua rovina.
Se il capitale, da decenni oramai, si è concentrato sulla finanza non è per chissà quali misteriosi intrighi di avidi banchieri e finanzieri, magari ebrei. No. È perché investire soldi nella finanza, anziché nella produzione, è stato l'unico modo per salvare dal fallimento un sistema economico e produttivo che ha incontrato i suoi limiti strutturali di valorizzazione del capitale investito.

E poi: ancora con 'sta storia che lo Stato può regolare il Mercato. Suvvia:
Non è lo Stato che tiene per le palle il Mercato, ma viceversa.
Stampare denaro fuori dalla esigenze del Mercato conduce, presto o tardi, alla bancarotta:
«lo Stato decreta che la sua Banca Centrale crei "denaro improduttivo" a partire dal niente. Facendolo, si arroga, contro le leggi del sistema di mercato, il potere di creare denaro, cioè nega con la forza, in quanto polo politico, il predominio strutturale del polo economico. Il castigo arriva dopo, come si sa, nella forma dell'iper-inflazione. Dalla fine della prima guerra mondiale, questo fenomeno si è verificato periodicamente come conseguenza della creazione di denaro improduttivo da parte dello Stato, ed oggi è già diventato, in un numero crescente di paesi, una condizione strutturale permanente. Contro ogni illusione sul "primato della politica", si è dimostrato da tempo, nella pratica, che, a causa del denaro, lo Stato è un'istituzione fondamentalmente priva di autonomia nei confronti del mercato e che la politica, da parte sua, di fronte all'economia, costituisce una sfera anch'essa fondamentalmente sprovvista di autonomia.» Robert Kurz, Quattro tesi sulla crisi della regolazione politica.

Ma vabbè: che Varoufakis la pensi in un certo modo fa parte del gioco, ci sta, cosa si può pretendere da un professore di economia che insegnava negli Stati Uniti. Il problema sono gli intervistatori, i quali parlano di lotta di classe senza aver ben chiaro contro che cosa lottare, giacché - almeno mi pare - sembrano non aver capito granché della crisi della legge del valore. 
_______
[*] Si segnalano qui due mirabili post “tecnici”(1, 2), nondimeno godibilissimi, di Olympe de Gouges

domenica 24 gennaio 2016

Dobbiamo cambiare il modo in cui

"La crisi dei rifugiati, dalla mia personale prospettiva, un po' o la va o la spacca", ha spiegato la numero uno del Fmi. Allora le è stato chiesto se "la va o la spacca" per lo spazio di libera circolazione europea di Schengen. Lagarde ha risposto: "Sì, penso". In Europa l'integrazione dei migranti - spiega - potrebbe avere un impatto positivo sul Pil nell'ordine dello 0,2% in Europa. E aggiunge: "Dobbiamo cambiare il modo in cui guardiamo all'economia, ci sono molti fattori che non misuriamo bene". - Intervista a Christine Lagarde

Bene, proviamo a cambiare questo modo di vedere l'economia:

1.
«È un privilegio avere un lavoro precario e sfruttato, ma sono centinaia di milioni quelli che non hanno nemmeno questo tipo di privilegio, i più poveri tra i poveri. Ad ogni modo la guerra condotta dal capitale riguarda tutta quella umanità sul cui sfruttamento e sulle cui sofferenze fonda il processo di accumulazione capitalistico. I terroristi che ne sono a capo, che hanno dalla loro parte il denaro, i media di cui sono proprietari e la forza della legge, si sono riuniti in un loro covo in Svizzera (e dove sennò?). Non hanno bisogno di pezzi di carta e di timbri per circolare, non c’è frontiera o barriera che li possa fermare, anzi, viaggiano con jet privati o di Stato e sono accolti con onori e protetti in alberghi e residence extra lusso.»
Olympe de Gouges, 23 gennaio 2016

2.
«In realtà non si tratta affatto di bloccare l'accesso di qualche "altro capitale a livello nazionale", al contrario, l'obiettivo dichiarato è quello di "mantenere aperto" il mondo alle multinazionali e non più al capitale "su base nazionale". E' proprio in questo che si riflette la distruzione della "sovranità". Lo Stato non è più il "capitalista globale ideale" di uno "stock di capitale nazionale", ma il capitale e lo Stato si separano sempre di più nel processo di crisi della globalizzazione. Gli interessi dei consorzi transnazionali non sono territoriali, ma mirati; lo Stato, al contrario, rimane basato sul paradigma territoriale. Gli Stati non possono più agire come istanze globali nell'arena capitalistica mondiale, ma solo reagire come pilastro riparatore e come polizia ausiliaria nei processi indipendenti dei capitali transnazionali, dal cui processo di valorizzazione rimangono dipendenti.
[...]
In queste condizioni di globalizzazione [...] l'isolamento delle regioni di crisi e il contenimento del flusso di rifugiati costituisce un interesse materiale concorrenziale perfettamente autonomo dello sciovinismo del benessere collettivo dei lavoratori salariati [guerra tra poveri, nota mia], dei dirigenti e della classe politica dell'Occidente. Nei limiti del modo di produzione capitalista, fa semplicemente parte dell'interesse superiore dello "imperialismo globale ideale" mantenere con la forza la forma capitalista dell'interesse in quanto tale, insieme ai suoi presupposti (prevedibilità delle relazioni giuridiche ecc.), benché, per la maggioranza dell'umanità, tale forma sia diventata impossibile da vivere o possa esprimersi ormai solo nella forma dell'economia di saccheggio. In questo modo si acutizzano i paradossi della relazione del capitale come relazione mondiale immediata; tuttavia, la razionalità interna capitalista e le motivazioni del suo interesse non scompaiono, ma assumono soltanto nuove forme.»
Robert Kurz, Exit, aprile 2001

3.
Un altro modo per guardare l'economia si può leggere, lateralmente, anche in questo post di Miguel Martinez, blogger fiorentino di lungo corso.

«E siccome siamo appena all’inizio della crisi e dell’inutilizzazione della maggior parte dell’umanità, diciamo pure che ci finiremo in tanti [all'Albergo popolare di Firenze]. Ho visto un sacco di gente proprio come te, che leggi queste parole, finirci, quindi non fare il finto tonto.»

Non faccio il finto tonto e neanche faccio il finto Madia che sbandiera licenziamenti con quella faccina linda da sceriffa vogliosa di far rispettare la legge. Penso soltanto che siamo in una fase storica che produce un'innumerevole quantità di scarti umani, semplici «fattori» che, chi comanda, non riesce «a misurare bene» e dunque gestisce mettendoli agli angoli, non ce l'hanno fatta poveri in questo bengodi di opportunità, è colpa loro, non gli è andata bene, hanno spaccato.

4.
«Oh, yeah. One final thing that deserve mentioning: this mechanism for keeping jobs from going away is what broke down in 2008 — so, yeah, we’re fucked

lunedì 29 giugno 2015

Se fallisce la Germania, fallisce...?

Dice la Merkel: «Se fallisce l'Euro, fallisce l'Europa». E se invece, prima ancora dell'Europa, fallisse l'esportazione tedesca?

Peter Jellen: Ci può dare un'opinione su quello che succederà nel futuro prossimo?
Robert Kurz: Dal momento che le politiche monetarie ed economiche sono contraddittorie, nei prossimi anni c'è da aspettarsi una seconda ondata di crisi economica globale. La quale potrebbe avere come punto di partenza la prova del fuoco dell'Unità Monetaria Europea. In casi come quello della Grecia, si tratta, formalmente, di uno scenario simile a quello sofferto dall'Argentina più di dieci anni fa. Ma la crisi dell'Argentina era limitata ad un solo paese che era quasi senza peso nell'economia mondiale. Assai diverso è il caso che minaccia il fallimento di uno Stato dentro la zona euro, in quanto ciò potrebbe gettare nel baratro tutta l'Unione Europea. Il collasso del circuito del deficit europeo arriverebbe all'osso dell'economia di esportazioni tedesca e verrebbe quindi meno l'attuale forza finanziaria della Germania. Questo significherebbe grandi fallimenti di massa e licenziamenti che finora in questo paese sono stati evitati, e non solo. Anche le finanze pubbliche tedesche, comunque già indebitate, arriverebbero ad una situazione simile all'attuale situazione delle finanze pubbliche greche, se, dopo il crollo delle esportazioni unilaterali, dovesse crollare anche il rating di credito sui mercati finanziari. Un tale sviluppo sarebbe un disastro non solo per tutto lo spazio europeo, ma anche per la situazione economica globale, vista l'importanza dell'Europa nell'economia mondiale.

Da un'intervista a Robert Kurz del 2010 trovata qui.