sabato 28 luglio 2018

A scaffale

Il termine "mercantile" si riferisce solo al comprare e al vendere. Una società mercantile nemmeno esiste. Il capitalismo è essenzialmente un modo di produzione e non un semplice modo di circolazione. Perciò l'espressione "economia di mercato" induce in errore. Marx già dimostrò che la riduzione della modernità a circolazione delle merci costituisce l'eldorado dell'ideologia capitalista, perché nel mercato appaiono solo proprietari "eguali" e "liberi" di merci e denaro. Però la merce ha da essere oggetto di produzione prima di diventare oggetto di circolazione.
Il mercato non è il luogo dell'incontro di soggetti "liberi", ma essenzialmente la sfera di "realizzazione" del plusvalore, pertanto della riconversione della forma merce nella forma del denaro. Si tratta del movimento del valore, del "soggetto automatico" (Marx), di uno stato di aggregazione verso l'altro. La merce non sussiste per sé, ma è uno stadio della valorizzazione. E i soggetti del mercato non sono che gli agenti di questo movimento. Ma la produzione generale delle merci è possibile solo attraverso la trasformazione della forza lavoro umana in una merce sui generis, e una forma generale del valore è possibile solo attraverso il plusvalore come irrazionale fine a se stesso. Esattamente in questo punto si mostra che la "socializzazione negativa" del capitale non consiste nell'appropriazione soggettiva del plusvalore da parte dei proprietari giuridici ma nella stessa forma valore, che si rende generale solo mediante il postulato sistemico del plusvalore. Dietro la "libertà" formale della circolazione, si incontra la soggezione (originalmente violenta) degli esseri umani al "lavoro astratto". È questa la relazione basica genuina del sistema produttore di merci. E questa relazione è portata all'assurdo nella terza rivoluzione industriale. Non è solo un problema di disoccupazione e miseria di massa, ma anche un problema dello stesso capitale, il quale comincia a perdere la "sostanza" della sua valorizzazione a causa della sua stessa dinamica.
La valle dove abito ha conosciuto, all'incirca dagli anni Sessanta a fine anni Novanta dello scorso secolo, una relativa espansione industriale e artigianale (con conseguente occupazione e parziale ricchezza del territorio), che si è andata via via esaurendo, fino ad assistere, a partire dagli anni duemila, alla vendita e al trasferimento di alcune imprese, al fallimento di altre (e al conseguente calo dell'occupazione e impoverimento del territorio). Resistono ancora alcune imprese che hanno mantenuto e/o sviluppato la propria capacità produttiva e di mercato, ma certo non sufficienti, da sole, a garantire prosperità all'intera vallata.

Accanto al declinante andamento del cosiddetto settore economico secondario (lasciando perdere il primario che è svolto da poche imprese agricole a gestione per lo più familiare che fanno buoni prodotti di nicchia), è cresciuto, oserei dire a dismisura, il settore terziario, non tanto quello relativo ai servizi e al turismo, bensì quello che riguarda il comparto super e iper mercati presenti sul territorio, non giustificato in rapporto al numero degli abitanti e alla loro complessivamente ribassata capacità di spesa. Infatti, la popolazione della vallata è più o meno la stessa di sempre, ma con meno soldi in tasca.

Questa riflessione socio-economica deriva dal fatto che ieri sono entrato per la prima volta in un grande negozio gestito da cinesi, di quelli che vendono di tutto (tranne alimentari, credo), ubicato in un ex capannone industriale nel quale, forse, prima si trovava un maglificio o chissà che.

Undici del mattino, tre persone (io, una signora dalla voce roca e un giovane cassiere col ciuffo manga) e una quantità sterminata di merci in vendita: abbigliamento, giardinaggio, utensileria, materiale elettrico, pentolame, bricolage, cartoleria, prodotti per la pulizia. Allo spaesamento generale che tali negozi (negozi? veramente negano l'ozio?) provocano, si è aggiunto lo stupore quando alla cassa la signora per pagare una ventina di euro di roba ha usato un biglietto da 100€. Nel farle il resto, il cassiere ha alzato il cassetto di banconote e spiccioli per ivi riporre le cento euro (comunemente non c'è lo spazio per le cento euro nei registratori di cassa) e, appunto sotto, ho visto una mazzetta di banconote di quel taglio che, considerata la scarsità della clientela in quel momento, mi ha fatto pensare: come diamine avrà fatto il negoziante a incassare tutti quei quattrini in una mattinata? Oppure anche: se i soldi in cassa non erano frutto delle vendite incassate quel giorno, perché i soldi non sono stati trasferiti su un conto corrente o, più facilmente, in una cassaforte?

Ma a parte questo dettaglio venale, riprendendo le parole sopra riportate di Robert Kurz: se la merce non sussiste di per sé ma è uno stadio della valorizzazione, quando si osserva, da vicino, il mancato assolvimento di tale compito di mediazione (schiere di supermercati con scaffali pieni di invenduto), è naturale domandarsi: dov'è la razionalità in tutto questo andamento economico e produttivo? 

1 commento:

Marino Voglio ha detto...

a volte mi chiedo "ma quanto poco deve costare loro questo ciarpame che al 99% buttano, se dal resto traggono profitto comunque?"