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domenica 25 settembre 2016

Alla Calenda greca

Mario Seminerio schernisce la richiesta del governo italiano di usare per un altro anno – ancora uno – lo strumento della flessibilità (che in soldoni significa un aumento della spesa pubblica e uno sforamento dei parametri imposti dal fiscal compact). In sostanza:
«nuovo deficit di pessima qualità con cui impiccare il paese».
Tuttavia, molto probabilmente, tale proroga sarà concessa, tanto che il ministro dello sviluppo economico, Carlo Calenda, ha già individuato come spendere quel gruzzoletto a deficit, che serve per rilanciare, a suo dire, l'economia nostrana: dare soldi alle imprese, in primo luogo, secondo le modalità da lui elencate durante un'intervista concessa a Maria Latella:
«Ci saranno 13 miliardi di incentivi automatici: un imprenditore potrà portarsi come credito di imposta il 50% dei nuovi investimenti. Se cambierà macchinario e andrà verso industria 4.0 avrà un fortissimo sconto fiscale con un superammortamento al 250%. Se le imprese investono si creano lavori più specializzati e quindi più remunerati». [Le banche] «hanno criteri stringenti per erogare finanziamenti. Abbiamo tanta liquidità ma non arriva alle imprese. Per questo - ha aggiunto il ministro - rafforzeremo anche il fondo di garanzia alle imprese. Lo Stato garantirà fino all'80% dell'erogato. Non per tutti allo stesso modo. Lo focalizziamo sugli investimenti: se ad esempio sei una start up innovativa vieni prima di tutti gli altri».
È notorio che le start up, essendo giovani imprese, vengano prima.

Breve inciso a parte, il ministro Calenda, mosso da gratitudine verso Renzi per averlo scelto al posto della Guidi, in conclusione d'intervista sostiene che:
«Ancor più della finanziaria il nostro appuntamento importante e cruciale è il referendum. E lo è perché noi abbiamo bisogno di una governance forte e di più investimenti» [dato che] «siamo di fronte alla più grande crisi delle democrazie occidentali dal dopoguerra. E la globalizzazione ha creato vincenti e perdenti, tanta esportazione e molte aziende morte».
A margine di tali letture, due notarelle, spero poco confuse:

1. Sia che la vediamo dal lato dell'inflazione o da quello della deflazione, dal lato della flessibilità o da quello della rigidità della spesa pubblica, la situazione economica non troverà mai un equilibrio virtuoso in cui tutti bellamente guadagnano, fanno profitti e prosperano felici e contenti, perché - se non si fosse capito - la vittoria di uno equivale necessariamente alla sconfitta di un altro. Se uno vince la partita della bilancia delle partite correnti è perché c'è qualcuno - l'altro concorrente - che la perde.

In Europa le nazioni giocano tutte in ordine sparso per garantire al meglio i propri interessi che chiaramente quasi mai coincidono con gli interessi degli altri. Se va bene la Germania non vanno bene le nazioni del sud Europa. E viceversa: ci siamo forse dimenticati della Germania grande malato d'Europa di qualche tempo fa? Ora, è del tutto evidente che le élite funzionali del capitale tedesco abbiano saputo approfittare al meglio delle regole che hanno stabilito insieme alle élite funzionali delle altre nazioni europee, Italia compresa. L'euro, che secondo i piani doveva servire per tenere a freno la potenza tedesca, in realtà è stato lo strumento per dispiegarla. Ma uno strumento non è la causa: e soprattutto: la Germania ha semplicemente fatto quello che sapeva fare: diventare il führer la guida dell'Europa.
Il punto comunque è uno solo: riuscire a vendere. Che cosa? La produzione che il capitale di ogni nazione produce per il fine unico di ottenere il profitto.
Riesci a produrre a pieno regime e a piazzare la merce? Hai vinto.
Hai magazzini pieni d'invenduto? Hai perso.
«Tutte le gravi crisi precapitalistiche della storia dell'uomo erano crisi di penuria. Non è così in questo caso: domina una crescente miseria proprio perché possono essere prodotte sempre più merci in tempi sempre più ridotti e con l'impiego sempre più ridotto di forza lavoro. Il sistema è soffocato dalla sua produttività». Tomasz Konicz, Ascesa e caduta dell'Europa tedesca, Stampa Alternativa, 2016.
 2. Alla luce di questa folle contraddizione che poi porta, insieme, la merce al macero o inutilizzata e la gente affamata e senza casa, il ministro del ristagno economico propone di dare soldi - e tanti - alle imprese affinché, in pratica, creino lavori più specializzati (leggasi: espellano quanto più possibile forza lavoro automatizzando tutte le fasi della produzione) e più remunerati (per quei pochi tecnici ancora indispensabili per oliare il meccanismo). Lavori destinati alla produzione di merci che poi dovranno uscir di fabbrica per andare sul mercato nella speranza di realizzare la ragione sociale per la quale sono state prodotte. Merci che hanno incorporato sempre meno lavoro vivo e sempre più lavoro morto. In attesa che si apra il mercato degli zombi.

giovedì 15 settembre 2016

L'anello della Nibelunga



Oramai sono anni che hanno sperimentato con successo le riforme (del “mercato” del lavoro, del sistema pensionistico, dell'alleggerimento fiscale nei confronti del padronato) in tutta Europa; all'Italia (e fors'anche a qualche altra nazione) si richiede un piccolo sforzo riformistico in più, a livello costituzionale, un'aggiustatina, per sciogliere alcuni ingranaggi arrugginiti che impediscono (ritengono le élite europee) il libero movimento del capitale.
La Germania, salita in cattedra sin da subito in forza della sua potenza economica, detta da tempo le linee guida affinché tutti gli altri paesi si adeguino, per quanto possono, al movimento di valorizzazione del capitale dominante che in Europa (e non solo in Europa) è quello tedesco. 

Lungi da me qui cadere nelle trappole dello sciovinismo e del risentimento antiteutonico. Tuttavia è un dato appurato che, dalla nascita dell'Unione economica, in particolar modo, dal momento dell'introduzione dell'Euro, per tentare (inutilmente) di tenere il passo della locomotiva tedesca, siano stati compiuti sforzi “riformistici” che hanno portato al collasso economico e sociale le nazioni europee più “deboli”, Italia compresa.

Da comprendere, a mio avviso, è che la forza e l'astuzia tedesche non sono un modello edificante, da seguire, perché si fondano, giocoforza, sulla debolezza e sull'ingenuità degli altri paesi europei che subiscono - ripeto: sin dall'introduzione dell'Euro, l'aggressione capitalistica tedesca, vale a dire il completo sbilanciamento a favore delle esportazioni tedesche sulla bilancia delle partite correnti.

Questo piccolo riassuntino è redatto a margine dell'endorsement della Merkel a favore delle riforme costituzionali promosse dal governo.
Ma più che altro è una scusa per segnalare un saggio assai interessante di Tomasz Konicz, Ascesa e caduta dell'Europa tedesca, Unrast Verlag 2015, edizione italiana Stampa Alternativa, Viterbo 2016, dal quale estraggo:
«Qui deve essere delucidata un'ovvietà logico-matematica ostinatamente ignorata nel dibattito tedesco sulla crisi. Ad essere problematiche naturalmente non sono le esportazioni complessive, ma proprio le eccedenze di esportazioni. I successi tedeschi nelle esportazioni sono possibili solo per l'indebitamento dei paesi target di quest'offensiva di esportazioni tedesca. Un'eccedenza della bilancia delle partite correnti della Repubblica Federale di 429,5 miliardi di euro rispetto alla periferia meridionale dell'eurozona significa anche che essa equivale a una montagna di debiti di eguale entità nei paesi interessati. Questo dice la matematica. Sul piano globale si tratta infatti puramente di un gioco a somma zero: se in tutto il mondo vengono calcolate tutte le eccedenze di esportazioni e deficit commerciali, il risultato è zero euro. Una singola economia può dunque realizzare eccedenze di esportazioni solo se altri paesi sono in deficit. Di conseguenza vale sempre il discorso: l'industria di esportazione tedesca può avere un simile successo solo perché i paesi target di queste esportazioni tedesche si indebitano».
E se paesi come l'Italia, la Grecia, la Spagna e il Portogallo si indebitano? 
Vanno fatte d'urgenza le riforme. Strutturali ça va sans dire.

martedì 2 agosto 2016

La rabbia e il cancro

Tra la rabbia (Trump) e il cancro (Clinton), Panebianco sceglie il cancro. Lo sceglie perché s'illude che, prolungando la solita politica praticata da alcuni decenni a questa parte, la nave ammiraglia possa trallallero continuare il girotondo intorno al mondo come se niente fosse accaduto, come niente stesse accadendo, come se coloro che già sono stati sul ponte di comando garantiranno, se eletti ammiragli, una migliore navigazione rispetto a quelli che - forti dell'incaglio in cui è stato condotto il bastimento - si dicono sicuri di disincagliarlo con la rabbia propria dei «neo-nazionalisti schiamazzanti di vario colore»¹ (sempre più tendente al tetro e/o all'orrido).
Quel che conta è crederci e restare - mi raccomando! - dentro le categorie dello sfacelo democratico e sempre ben saldi nel campo dei possibili, ovverosia dei più probabili modi per restare nel pantano. 

Bravo Panebianco, bravo testa di professore ordinario dai pensieri ordinari, nel senso che sono diuturnamente ispirati dall'ordine costituito. Un ordine che si va decomponendo, ma ex-cathedra pare di no.

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¹ Tomasz Konicz, Halt ze German advance.

sabato 14 novembre 2015

«Barbarie globalizzata»

Un tentativo di comprendere il fenomeno dello “Stato Islamico”

Di Tomasz Konicz, 22 ottobre 2014, via Streifzüge, (traduzione dal tedesco: sinistrainrete.info)
Deutsch
« Di nuovo. Di nuovo, il presidente degli Stati Uniti mobilita la coalizione di tutti quelli disposti ad entrare in campo contro “il male” (Spiegel Online). Questa volta è il gruppo terrorista “Stato Islamico” (Isis) che deve essere sconfitto in una campagna di tre anni, in cui nella prima fase la Forza Aerea degli Usa estenderà gli attacchi aerei alla Siria. Allo stesso tempo, la Casa Bianca ha chiesto al Congresso la somma di 500 milioni di dollari allo scopo di “addestrare e armare i ribelli siriani moderati”, come ha informato la Reuters.
Questo approccio fa ricordare una fase precedente della guerra civile siriana, cioè quando i servizi segreti occidentali, in intima comunione con i dispotismi fondamentalisti del golfo, come l’Arabia Saudita, hanno appoggiato l’opposizione siriana, appoggio dal quale è nato lo Stato Islamico, oltre a una varietà di altre milizie islamiste. E naturalmente dentro il movimento di opposizione siriana dominano inevitabilmente fazioni fondamentaliste che sono in concorrenza con lo Stato Islamico e lottano contro di esso.
Uno dei principali gruppi ribelli siriani, per esempio, è l’alleanza fondamentalista Fronte Islamico, il cui leader Hassan Abboud è morto recentemente in un attentato presumibilmente realizzato dall’Isis. Il Fronte Islamico rappresenta il maggior contingente tra i ribelli siriani – e ha contatti stretti con il gruppo jihadista al-Nusra.
È questa stessa filiale siriana di Al-Qaeda, lo Jabhat al-Nusra, che sta cercando, dopo una pesante sconfitta contro l’Isis, di prendere le distanze dallo Stato Islamico attraverso la liberazione di ostaggi americani. Di conseguenza, questi ribelli “moderati” del futuro completeranno la loro formazione militare nel territorio della democrazia di riferimento che è l’Arabia Saudita.
Parlando chiaramente: l’Occidente è ancora una volta in procinto di armare gli islamisti per combattere gli islamisti – e, allo stesso tempo, di proseguire i suoi interessi geopolitici, che nel caso della Siria mirano a rovesciare il regime di Assad. Si pone la questione di sapere quale gruppo jihadista, che ancora fa parte dell’”opposizione moderata”, andrà di nuovo fuori controllo entro alcuni anni e dovrà essere eliminato per mezzo di un intervento militare. L’Occidente, nella sua lotta contro i mulini al vento del fondamentalismo islamico, è come il famoso apprendista stregone che non riesce più a liberarsi degli spiriti da lui evocati a fini strumentali in questa regione scossa dal fallimento dello Stato.
Non è solo la geOpolitica dell’Occidente che dà forza agli jihadisti. I paesi occidentali servono anche come un importante campo per il reclutamento dell’Isis. Circa 3.000 jihadisti dell’Europa Occidentale, Usa, Canada e Australia combattono nelle filiere dello Stato Islamico secondo la stampa americana. Dei circa 31.500 combattenti che hanno aderito a questa struttura terrorista, circa un terzo è stata reclutata all’estero – principalmente grazie ad una campagna di reclutamento sofisticata.
Un attentatore suicida dell’Isis imprigionato nelle regioni curde autonome della Siria ha raccontato ad alcuni rappresentanti dei media di un flusso costante di turisti jihadisti da tutto il mondo che desiderano unirsi ai gruppi di combattimento di questo esercito terrorista:
Ci sono nazionalità di tutto il mondo. Tra loro molti britannici. Vengono da paesi asiatici, dall’Europa e dall’America. Vengono qui da ogni parte”.
L’Isis, dunque, rappresenta una specie di sottoprodotto della globalizzazione capitalista in crisi. Non si tratta qui di un’insorgenza nativa, tradizionalista ed emersa da associazioni di clan e “tabù” regionali, ma di un esercito di occupazione, globalizzato al più alto grado, che si è costituito nelle regioni al collasso economico-sociale e politico della Mesopotamia. Quindi, lo Stato Islamico massacra non solo gli “infedeli”, ma anche i sunniti che osano opporsi al dominio straniero. Quasi 700 membri di un’associazione di clan sunniti nell’est della Siria sono stati letteralmente massacrati dall’Isis a metà agosto, dopo che i loro leader tribali avevano rifiutato fedeltà ai jihadisti.
Ma qual è la natura del “dominio straniero” che – perlomeno nella sua leadership – la truppa jihadista, in gran parte nuova arrivata, cerca di costruire in questa regione al collasso? Quella che si è materializzata nella forma dell’Isis è una caricatura furiosa, un negativo della forma più efficiente dell’organizzazione generata dal tardo capitalismo: le grandi imprese transnazionali. Lo Stato Islamico è un’altamente efficiente “macchina da soldi” (Bloomberg), che è riuscita a produrre un “flusso di entrate di cassa” permanente grazie agli introiti del petrolio e di altri rami del business del crimine organizzato. “Lo Stato Islamico è, probabilmente, il gruppo terrorista più ricco mai conosciuto”, ha detto un analista americano a Bloomberg.
Questa impresa terroristica, che pubblica regolarmente “Rapporti e Bilanci”, ha una struttura interna di comando altamente efficiente e una macchina militare molto efficace, dispone di un dipartimento professionale di pubbliche relazioni che si dedica con molto successo a reclutare nuovi membri – e pratica il Lean Management dei territori conquistati, la cui amministrazione è lasciata alle autorità locali, a condizione che giurino fedeltà e prestino vassallaggio al “Califfato”. Le ramificazioni internazionali di questa “macchina da soldi” jihadista non si limitano alla struttura della sua associazione: il finanziamento iniziale dell’Isis è stato realizzato con l’appoggio finanziario internazionale dei sostenitori ricchi degli Stati del Golfo.
La differenza principale tra la grande impresa globale e lo Stato Islamico è che l’accumulazione di capitale è il fine in sé di tutte le attività delle grandi imprese multinazionali. E tutte le devastazioni e distruzioni che il tardo capitalismo provoca agli individui e all’ambiente sono solo dei sottoprodotti della ricerca cieca e senza limiti della valorizzazione del capitale, in cui al dunque consiste il nucleo irrazionale del modo di produzione capitalista. Per lo Stato Islamico, tuttavia, l’accumulazione di capitale rappresenta solo un mezzo per un altro fine irrazionale, che consiste in un lavoro di distruzione e annichilimento il più efficienti possibile. Non è altro che questo che presentano i “Rapporti e Bilanci” dell’Isis, elenchi di operazioni terroriste di successo di questa “impresa”. Dunque, la tendenza implicita all’autodistruzione inerente al capitalismo, nel caso dell’Isis viene apertamente alla luce del giorno, rendendosi esplicita.
Così lo Stato Islamico usa le forme più efficaci e i metodi di organizzazione più razionali, prodotti dal tardo capitalismo tormentato dalla crisi, alla ricerca di un obiettivo folle e allucinato: l’annichilimento letterale di tutti gli infedeli. Qui ormai diventa chiaro un paragone con il fino a d’ora maggior collasso della civilizzazione della storia mondiale, il lavoro di annichilimento del nazionalsocialismo tedesco. Anche i nazisti fecero uso delle forme e dei metodi di organizzazione all’epoca più moderni per creare una fabbrica fordista di morte ad Auschwitz, il cui “prodotto”, prodotto come in una linea di montaggio, era il fumo dei corpi umani inceneriti che saliva dai crematori. Così come i nazisti, nel delirio razzista, costruirono un’efficiente fabbrica negativa della distruzione umana, per “pulire” il mondo da ebrei, zingari, subumani slavi o bolscevichi, anche l’Isis si costituisce sotto la forma di organizzazione di una grande impresa negativa per perseguire il suo obiettivo delirante di un califfato mondiale religiosamente puro. La razionalità economicista del capitalismo occidentale, che è continuamente migliorata con il proposito di un’accumulazione più efficiente di capitale, vira così nella barbarie nuda e cruda per mano dell’Isis.
Nella grande impresa terrorista stabilita dallo Stato Islamico si riflette, così, l’irrazionalità in crisi della socializzazione capitalista. Intanto sembra stiano arrivando i primi franchising al mercato del terrore globalizzato, tentando di copiare la ricetta del successo dei massacri dell’Isis. La “crescente popolarità” dell’Isis nel sud-est asiatico potrebbe portare con sé minacce alla sicurezza a lungo termine, come ha avvertito Al Jazira a metà luglio. Infatti, il gruppo terrorista nelle Filippine, Abu Sayyaf, ha aderito recentemente allo Stato Islamico. Anche gli jihadisti dell’Africa occidentale di Boko Haram, che secondo il Neewsweek controllano un “territorio delle dimensioni dell’Irlanda”, tentano di imitare il procedimento dell’Isis con la dichiarazione del loro “Califfato” africano.
Per cosa concorrono i gruppi terroristi nel mercato globale del terrore? Oltre ai contributi finanziari dei sostenitori ricchi dei dispotismi della penisola arabica, è soprattutto per la merce che il tardo capitalismo getta fuori in quanto superfluo: esseri umani. Molti degli attacchi e delle azioni spettacolari dell’Isis – come per esempio la recente occupazione della diga nei pressi di Mosul – mirano a un effetto propagandistico, con il quale si pretende accelerare il reclutamento di nuovo materiale umano. Con successo, come mostra uno studio negli Usa. Così, in particolare i talebani afgani, che sono sotto un’enorme pressione militare, hanno subito un amaro esodo di combattenti stranieri che ora penetrano in direzione della Siria e dell’Iraq per congiungersi agli jihadisti locali:
Combattenti dell’Uzbekistan, della Cina e della Cecenia hanno poche possibilità di tornare nei loro paesi d’origine, ma sanno che sono i benvenuti in Siria e in Iraq, dove Jabhat al-Nusra e lo Stato Islamico lottano contro il presidente siriano Assad, uno contro l’altro, e nel caso dello Stato Islamico, contro i curdi, gli iracheni e perfino contro l’Iran”.
È l’ammissione del fallimento completo della brutale “guerra contro il terrore” occidentale, che ha finito per essere effettuata con metodi terroristi. Dopo circa 13 anni, è sorta una classe globale di decine di migliaia di guerrieri religiosi senza patria, la cui patria è la “Guerra Santa”. In contrasto con la rete globale di Al-Qaeda, questa nuova generazione di jihadisti sta cercando di conquistare e mantenere territori nelle aree al collasso del mercato mondiale, per realizzare il suo delirio di un Califfato globale.
Lo Stato Islamico, nuotando nel denaro, può ricorrere a una moltitudine di giovani economicamente “superflui” che nella periferia del sistema capitalista mondiale – e, sempre più, nei centri – conducono una vita marginale e miserabile. Una paga di poche centinaia di dollari al mese e la speranza di un paradiso nell’aldilà sono sufficienti in molti casi per motivare questa gente senza prospettive, che vegeta nell’inferno degli Stati e delle società fallite, per entrare nelle fila dell’Isis.
Ma cosa ha portato migliaia di musulmani dell’Occidente a unirsi alle reti terroriste jihadiste? Uno studio dell’Istituto per la Difesa della Costituzione, che ha analizzato i curriculum di circa 400 islamisti che hanno viaggiato dalla Germania per la “Guerra Santa”, è giunto alla conclusione per cui i musulmani che si sono uniti agli jihadisti erano in gran parte emarginati. Solo il 12% di questi guerriglieri religiosi aveva un impiego regolare, la stragrande maggioranza nel settore dei bassi salari. Solo il 6% ha terminato un corso professionale e il 2% ha una laurea. Circa un terzo di questi islamisti già in precedenza era entrata in conflitto con la legge, principalmente in relazione alla piccola criminalità tipica del ghetto. Per la maggior parte, quelli che hanno lasciato il paese erano membri del ceto più basso, che ha condotto una vita precaria ai margini della legalità nei ghetti informali di stranieri nella Repubblica Federale Tedesca – fino a cadere in mezzo ai salafiti. E’ significativo che solo nel 23% dei casi i paesi di questi guerriglieri religiosi erano praticanti dell’Islam fondamentalista. Un buon esempio di una carriera, dalla microcriminalità del bambino del ghetto al guerrigliero religioso, è il caso del rapper Denis Cuspert, che intanto è asceso al circolo ristretto della leadership dell’Isis.
Così non sono in alcun modo i musulmani aggrappati alla tradizione che si aggregano alla guerra terrorista, come ha detto anche Tarfa Baghajati, presidente dell’Iniziativa degli Austriaci-Musulmani, in un’intervista a Radio Free Europe. Ci sono una serie di fattori ai quali si deve il successo del reclutamento dell’Isis in Europa, afferma Baghajati:
Da notare, in primo luogo, che i giovani che si uniscono a questi gruppi non avevano precedentemente forti legami con l’Islam né con altri musulmani. Non hanno mai visitato moschee e alcuni di loro nemmeno sanno come pregare. E’ per questo che la loro esperienza religiosa ha una carica emozionale molto forte… Il secondo fattore è che questi giovani non si vedono come parte della società occidentale. Essi non sono stati capaci di impegnarsi postivamente in essa. Inoltre, c’è la discriminazione e indirettamente la discriminazione contro l’Islam e contro i musulmani, riassumibile nel concetto di islamofobia”.
I musulmani reclutati dall’Isis nei paesi dell’Occidente non si vedono come parte di queste società, perché non lo sono, perché sono esclusi dalla società del lavoro capitalista in crisi attraverso l’emarginazione economica e il razzismo crescente. L’ascesa del razzismo e dell’estrema destra causata dalla crisi in tutta Europa, che si manifesta nei successi elettorali dell’AFD tedesca, dell’UKIP britannico o del Fronte Nazionale francese, si propone di fatto l’esclusione economica dei gruppi che non sono considerati parte della “comunità nazionale” (“lavoro prima a chi è tedesco”). L’estrema destra, che promuove l’esclusione di determinati gruppi della popolazione, rappresenta, quindi, un’arma ideologica nella lotta della concorrenza in crescita a causa della crisi. Non sorprende, pertanto, che a livello europeo l’Isis sia riuscita a reclutare il maggior contingente di combattenti in Francia, il paese delle banlieues del Fronte Nazionale, afflitto dalla crisi.
Lo spostamento verso l’estremismo islamico tra i musulmani europei rappresenta, così, uno sviluppo parallelo all’aumento, provocato dalla crisi, dell’estrema destra in Europa. Lo jihadismo militante e terrorista è, in ultima analisi, una modificazione religiosamente dissimulata dell’estrema destra, una specie di fascismo clericale postmoderno e globalizzato. Mentre in Occidente l’identità nazionale serve da terreno fertile per la crescita delle ideologie fasciste e di estrema destra, nel circolo culturale arabo la religione funziona come questo stesso terreno che produce fantasie di annichilimento. La categoria di razza, che incendiò la furia distruttiva fascista in Europa, è stata sostituita dalle categoria degli “infedeli” nello jihadismo clerical-fascista.
Tanto l’islamismo come l’estrema destra europea rappresentano inoltre un estremismo del “centro” che porta all’estremo una visione del mondo chiusa nelle idee e nelle opinioni ideologiche dominanti nella società. Nel caso dell’Islam è la religione che occupa una posizione egemonica nel “centro” delle società arabe; nel caso dell’estrema destra, ciò che è portato all’estremo è l’identità nazionale, da tempo tramutata nell’idea di luogo di investimento economico. Entrambe le ideologie possono anche essere descritte come postmoderne perché rappresentano una via di fuga ideale dalla crisi e dal fallimento della modernità capitalista.
L’”estremismo del centro” islamista in ultima istanza può anche essere visto come una variante del fascismo clericale. Il fascismo – sia il nazionalsocialismo tedesco, il fascismo cattolico di Franco in Spagna, o la dittatura fascista di Pinochet nel Cile – rappresenta una forma apertamente terrorista della crisi del dominio capitalista. Le tendenze dell’estrema destra e fasciste guadagnano sempre forza quando la società capitalista borghese-liberale entra in una crisi economica o politica che minaccia la continuazione di tutto il sistema, o anche sembra solo minacciarlo (la crisi economica mondiale in 1929, la vittoria del Fronte Popolare in Spagna nel 1936 o la vittoria elettorale di Allende in Cile nel 1970).
Sia nelle grandi città dell’Europa che nelle regioni al collasso della Mesopotamia – il processo di costituzione dell’estrema destra, tanto razzista quanto clericale, si sviluppa con traiettorie molto simili. In reazione agli shock della crisi, alla dissoluzione dell’ordine esistente, comincia molto spesso una produzione forzata di identità nelle società in causa. Se tutto si dissolve e va in disordine, gli individui predisposti all’autorità chiedono un appoggio – e lo riescono a trovare solo nell’identità, in quel che sembrano essere: tedesco, francese, sciita, sunnita. La paura del futuro e le rotture incomprese portano alla nostalgia di anteriori idilliaci stadi della società del tutto immaginari; sia lo Stato-nazione razzialmente puro o il Califfato medievale.
Il grande autoinganno in questa devozione alla politica dell’identità, chiaramente, è nel fatto che queste identità ormai sono costituite solo in interazione con la società capitalista in crisi e, dunque, sono solo espressione identitaria del processo di crisi del tardo capitalismo. Ciò che è comunemente inteso come “identità tedesca”, nella Germania contemporanea, ha ben poco a che vedere con la Germania di inizio Impero e ancor meno con quella dell’Assemblea di Paulskirche [1848/1849, N.T.]. Lo stesso si applica all’Islam, che molto spesso era molto più tollerante, specialmente all’inizio dell’Età Media, di quanto vorrebbero ammettere gli attuali combattenti religiosi e i costruttori postmoderni del Califfato. Basta ricordare qui, a titolo d’esempio, che gli ebrei della Spagna, specialmente nella fase iniziale del dominio dei Mori (dal 711 fino alla caduta del Califfato di Cordoba nel 1031) godevano di ampia libertà religiosa e sicurezza giuridica; furono espulsi dai Re cattolici solo dopo la riconquista definitiva nel 1492.
L’attuale orientamento indotto dalla crisi verso l’identità nazionale o religiosa, che è vista in maniera allucinata come un continuum storico e immutabile, è quasi sempre associato alla personalità autoritariamente strutturata delle persone in causa. L’islamista postmoderno si sottomette all'interpretazione rigida del Corano in modo tanto cieco quanto i partiti di destra applicano le sacre leggi del mercato e del culto del capitale (nella forma di una nazione ridotta a luogo di investimento economico). In entrambi i casi, la sottomissione porta all'odio verso tutti quelli che non appaiono applicare ciò allo stesso modo (infedeli, “parassiti sociali”, disoccupati etc).
Dalla consonanza che caratterizza tanto il fascismo europeo quanto quello islamico, di sottomissione e di odio, risulta che questa sottomissione è pagata con la rinuncia alla pulsione. I portatori di queste ideologie soffrono segretamente, sotto le linee guida e i comandamenti aberranti dettati dal feticcio, il Corano e il capitale, situazione in cui la personalità autoritariamente strutturata esclude una ribellione contro queste fonti di sofferenza. Ecco perché la rabbia così repressa è diretta contro nemici esterni immaginari. E’ inoltre inerente a entrambe le ideologie un’illusione di purezza tipica della fissazione anale, che nel caso dell’estrema destra si applica come difesa contro i parassiti della purezza del popolo, della nazione, o del luogo di investimento economico, mentre nell’islamismo è distorta dalla mania di preservazione del culto religioso.
Le disposizioni autoritarie che guidano l’estrema destra, tanto araba come europea, sono acquisite durante la prima infanzia nella famiglia patriarcale o della classe media, designata dallo psicanalista Wilhelm Reich nel suo studio Psicologia di massa del fascismo, pubblicato nel 1933, come la “cellula embrionaria dello Stato autoritario”. Lo Stato e la chiesa continuano la strutturazione autoritaria dell’individuo iniziata nella famiglia patriarcal-autoritaria. Centrale qui è la repressione sessuale, come dice Reich:
La strutturazione autoritaria dell’essere umano…è fatta centralmente per ancorare l’inibizione sessuale e la paura di fronte al materiale vivo delle pulsioni sessuali. Ossia…la sessualità è esclusa dalle traiettorie naturalmente date della soddisfazione dal processo di repressione sessuale, così creando percorsi di soddisfazione sostitutiva di vario tipo. Per esempio, l’aggressione naturale aumenta verso il sadismo brutale”.
Queste osservazioni, tenendo in conto il nazionalsocialismo tedesco, si applicano anche, ovviamente, alla realtà della vita di molti individui nei paesi arabi in crisi. Non è solo nel trattamento brutale delle donne “catturate” dai combattenti dello Stato Islamico che si esprime il “sadismo brutale” costituito dalla repressione sessuale, ma anche i brutali attacchi contro le donne durante la sollevazione in Egitto sono stati alimentati da questa frustrazione sessuale.
In parte, l’aumento negli ultimi decenni della pressione sull’uso del velo in molte società islamiche può essere attribuito all’interazione della dinamica di crisi economica con l’islamizzazione relazionata con la crisi. L’Islam proibisce severamente il sesso prima del matrimonio, ma intanto la crisi della società del lavoro capitalista produce nel mondo arabo un esercito di giovani economicamente superflui, che semplicemente non possono permettersi la fondazione di una famiglia. La repressione sessuale ideologicamente imposta dall’islamismo, dunque, di fronte all’aggravamento della crisi, risulta nell’odio esuberante verso le donne, la cui visione l’islamista può appena sopportare sotto il velo integrale, senza essere sopraffatto dalla sua pulsione sessuale degenerata in mero sadismo.
La messa al bando delle donne dallo spazio pubblico prevista dall’islamismo, tuttavia, è guidata da un altro fattore, che risulta dal fallimento della modernizzazione capitalista di questa regione periferica del mercato mondiale. L’imposizione del capitalismo è stata accompagnata dalla “scissione” di tutti i domini della riproduzione sociale che non possono essere assorbiti dal processo di valorizzazione del capitale, come la cura della casa e il lavoro con la famiglia, che sono stati allora attribuiti alla sfera del “femminile”. Il lavoro con la famiglia e domestico è fino a oggi considerato senza valore, dal momento che non crea valore, non essendo direttamente parte del processo di valorizzazione del capitale. La sfera del lavoro creatore di valore, al contrario, è stata fino a buona parte del XIX° secolo determinata come esclusivamente maschile; l’uomo “duro” che agisce razionalmente deve affermarsi come guadagna-pane nel mercato, mentre alla donna è stata assegnata la sfera privata, sensuale, irrazionale, del prendersi cura e medicare. Questa scissione tra sfera pubblica maschile del lavoro creatore di valore (così come della politica, dell’arte e della scienza) e la sfera femminile del lavoro “senza valore” ha costituito la base della discriminazione delle donne nei paesi capitalisti, che solo nella prima metà del XX° secolo verrà superata, almeno formalmente (il suffragio femminile).
Anche nella famiglia patriarcale medievale – che in più del 90% era di fatto una famiglia di contadini – esisteva una divisione del lavoro tra marito e moglie, ma le loro attività erano in egual modo orientate alla soddisfazione diretta delle necessità e non all’accumulazione di capitale. Le categorie pure di valore e lavoro astratto semplicemente non esistevano, per cui le attività femminili non venivano svalutate. La demonizzazione della donna, del femminile sensuale, cominciò in Europa solo nell’inizio dell’era moderna, sulla scia del collasso dell’ordine sociale feudale medievale e del sorgere dei primi inizi dell’economia capitalista; solo questa portò con sé la scissione, mostruosa e incompresa dalle persone di quel tempo, della sfera del privato femminile relativamente al regime emergente della valorizzazione del capitale. La demonizzazione delle donne si espresse con la caccia alle streghe, che dominò con il pugno di ferro l’Europa e l’America del Nord dal XVI al XVIII e di cui furono vittime decine di migliaia di donne e ragazze. Centrale in quasi tutti i processi, che in maggioranza si svolgevano in tribunali secolari, era l’accusa per cui le presunte streghe avrebbero praticato relazioni sessuali con il diavolo, o con i demoni, al fine di ottenere i loro “poteri sovrannaturali”. Ed è proprio l’allucinata applicazione di queste forze demoniache femminili che venne utilizzata come accusa per il caos in cui si trovavano le società protomoderne in via di trasformazione sistemica.
Non c’è oggi accusa che metta in maggior pericolo di vita una donna in Afghanistan, in Libia o in Arabia Saudita quella di avere relazioni sessuali extraconiugali. La trasformazione sistemica verso il capitalismo e verso il mercato mondiale, che impiegò secoli sanguinari per completarla in Europa, ha fatto irruzione nella periferia con l’intensità di una catastrofe naturale, che ha avuto luogo in molto meno tempo (alcuni decenni), con la concomitante scissione dei domini della vita connotati con il femminile e senza accesso alla valorizzazione del capitale – e deve conseguentemente aver avuto una pressione ideologica per la legittimazione molto più elevata, pressione di fronte alla quale le strutture patriarcali tradizionali dovevano essere poste in concordanza con le “nuove” forme capitaliste della socializzazione.
La grande differenza storica tra l’Europa e l’Arabia è che la modernizzazione capitalista è fallita tra lo Hindu Kush e le Montagne dell’Atlantes. In questi paesi colpiti dalla crisi, spesso già colpiti dal crollo dello Stato, non si va ormai stabilendo alcuna società capitalista del lavoro, capace di promuovere la secolarizzazione di queste società. Il crollo della modernizzazione e la dinamica di crisi che con quello si diffonde porta così a un indurimento dell’ideologia di crisi islamista e all’autentico tabù del femminile: come se l’occultamento totale e la messa al bando della donna dalla vita pubblica permettessero agli uomini, malgrado la crisi globale del capitale, di continuare a operare come soggetti autocratici del mercato.
Nel presente barbaro dell’ideologia e della pratica islamiste, l’Occidente liberale capitalista ritrova, quindi, gli echi del suo passato sanguinario. Di più: il nucleo barbaro della socializzazione capitalista viene a galla nell’islamismo estremista così come nell’estrema destra. Riflessa negli orrori dello Stato Islamico, la comunità occidentale del valore si guarda allo specchio. Niente potrebbe essere più sbagliato che accreditare candidamente lo “scontro di civiltà” proclamato da entrambi i lati estremisti. La cultura occidentale non è il polo positivo opposto al delirio jihadista. Nell’attuale crisi sistemica, tanto l’estrema destra quanto l’islamismo sono distillati dai centri occidentali liberali del sistema capitalista mondiale.
Ovviamente, come esposto in precedenza, sul piano geopolitico l’appoggio politico, finanziario e militare allo jihadismo dagli anni ’80 del XX° secolo – quando i fondamentalisti islamisti sono entrati in Guerra Santa contro il comunismo ateo in Afghanistan, con l’appoggio dell’Occidente – fa parte della geopolitica dell’Occidente. Un certo Osama Bin Laden potette fare la sua prima esperienza militare sotto la tutela della CIA in Afghanistan. L’Arabia Saudita, il regime fondamentalista più brutale del mondo, è una stretta alleata dell’Occidente, armata al più alto livello con forniture di armi di migliaia di milioni di dollari.
Ma è soprattutto la crisi economica che emana dai centri e devasta la periferia che in primo luogo crea le schiere di giovani economicamente superflui che, in assenza di prospettive, sono pronti a unirsi al culto della morte degli jihadisti. La sopravvivenza ardua nell’inferno delle economie al collasso dell’Iraq, della Siria o dell’Afghanistan è talmente insopportabile che essi sono disposti a scambiarla per la prospettiva illusoria di un paradiso nell’altro mondo.

Infine, i riflessi ideologici e identitari di questo processo di crisi sono molto simili tanto in Occidente quanto in Oriente. C’è un ritorno autoritario dell’identità religiosa o nazionale, che spinge fino all’estremo ideologico le idee nazionali o religiose esistenti e porta a una mobilitazione militante contro i nemici esterni o i dissidenti interni. L’islamismo è così – così come l’estrema destra – un prodotto della crisi mondiale del capitale. »
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Di tale autore, Stampa Alternativa ha reso disponibile una raccolta di articoli dell'autore (si trova anche il presente, in traduzione leggermente modificata).
All'analisi straordinaria di Konicz, aggiungo soltanto una cosa, prendendo spunto dallo Zittito che ha riportato un'intervista al generale Carlo Jean
Data l'«emergenza» e il rinnovato «Stato d'eccezione» che si profila, in breve: data la guerra in corso contro la follia egregiamente organizzata (finanziata dagli stessi capidistato che ora piangono) dello Stato islamico surgivo, per seccare le fonti, l'Europa deve imparare e reagire, in blocco, come Israele, senza tante seghe mentali: spianarli.

venerdì 20 marzo 2015

Love Is (in the air)

HAMM  Che sta succedendo?
CLOV  Qualcosa sta seguendo il suo corso. (Pausa)
HAMM  Clov!
CLOV  (irritato) Che c'è?
HAMM  Non può darsi che noi... che noi... si abbia un qualche significato?
CLOV  Un significato Noi un significato! (Breve risata) Ah, questa è buona!
HAMM  Io mi domando. (Pausa). Una intelligenza tornata sulla terra non sarebbe tentata di immaginarsi delle cose, a forza di osservarci? (Assumendo la voce dell'intelligenza). Ah, ecco, ho capito com'è, sì, ho capito cosa fanno! (Clov trasalisce, depone il cannocchiale e comincia a grattarsi il basso ventre con le due mani. Voce normale) E senza arrivare a tanto, noi stessi.. (con emozione)... noi stessi... a tratti... (Veemente) E dire che tutto questo non sarà forse stato invano!
CLOV  (con angoscia, grattandosi) Ho una pulce!
HAMM  Una pulce? Ci sono ancora delle pulci?
CLOV  (grattandosi) A meno che non sia una piattola.
HAMM  (molto preoccupato) Ma a partire di lì l'umanità potrebbe ricostituirsi! Per l'amor del cielo, acchiappala!
CLOV  Vado a prendere la polvere. (Esce)
HAMM  Una pulce! Ma è spaventoso! Che giornata!
CLOV  (entra con una scatola di cartone) Sono tornato con l'insetticida.
HAMM  Dagliene una buona dose!

Samuel Beckett, Finale di partita, Einaudi, Torino 1961 (traduzione di Carlo Fruttero).

L'Is, pulce addestrata dai comandini d'Occidente, s'è infilata dentro le mutande degli addestratori, i quali, infastiditi, invocano l'uso di una buona dose d'insetticida (Operazione di Polizia Internazionale) che, di sicuro, sortità, come effetto primo, quello di desertificare il pelo pubico della democrazia.