Come tanti leggo quasi sempre i post di Alessandro Giglioli, persona intelligente, onesta, brillante, di buon cuore, da tempo una delle poche coscienze critiche della sinistra che abbia qualcosa di dire. Eppure, questo suo dire, da tempo, è un pronunciarsi a vuoto, un sorta di riflessione critica imballata, come un motore in folle. Metti una marcia, Giglioli, cazzo - gli si potrebbe suggerire.
Una volta persino su Facebook mi sono azzardato a punzecchiarlo e lui ebbe premura persino di rispondermi ch'ero troppo severo. Severo: gli dicevo, in estrema sintesi, di (ri)leggersi Marx. Niente da fare, sono passati mesi in cui il suo tic tac sulla tastiera non esprime alcunché di diverso, sempre lo stesso ritornello, tipo
oggi che riporto estesamente:
«In Europa veniamo da trent'anni in cui ha stravinto il mantra secondo cui la società neppure esiste, esistono solo gli individui. E ogni individuo è così rimasto solo di fronte ai giganteschi e rapidissimi cambiamenti economici in corso: solo di fronte al precariato, all'insicurezza quotidiana, all'ipercompetizione. Spesso solo anche in senso affettivo: il tasso di matrimoni crolla e comunque la famiglia è sempre più liquida, provvisoria. Anche la religione - certezza antica a cui si è aggrappata per millenni ogni paura, ogni disperazione - è al tramonto. Non parliamo degli altri corpi intermedi: i partiti, i sindacati. Più che liquidi, proprio liquidati.»
«Di qui la reazione. Inevitabile. Che assume declinazioni diverse tra loro, ma ha la stessa causa: cioè la globalizzazione nella forma in cui è avvenuta. Velocissima, devastante, vincista. E sì, anche liberista. E sì, ancora, è la stessa globalizzazione che sta provocando spostamenti di massa di persone per ragioni economiche.»
[Leggere «vincista» mi ha fatto più male alle orecchie che il rumore di una motosega]
«Quindi nella reazione c'è di tutto. Gli obiettivi dell'avversione si assommano e si mescolano: dalla Troika ai migranti, dalla robotica agli Ogm, dalle banche ai matrimoni gay. C'è dentro tutto quello che si pensa abbia frantumato per sempre le certezze del passato. Che poi alcune di queste cause siano in realtà a loro volta effetti, è questione troppo sottile per chi ha paura e nostalgia. Tanto più se queste paure e nostalgie a loro volta si mescolano con un peggioramento della propria condizione sociale: il ceto medio impoverito, insomma. Bel cocktail, mamma mia.»
«Ecco che allora, mentre questa tempesta infuria, si cerca appunto una coperta calda. Si chiami Orban o Salvini. Ma non avviene solo a destra. Anche Corbyn, in Gran Bretagna, basa molto del suo crescente consenso sulla nostalgia per la socialdemocrazia. Nella vittoria elettorale di Syriza, un anno fa, c'era un Paese passato in un attimo dalla preminenza rurale a quella finanziaria, con catastrofe annessa. E quanti ne conosco, nella sinistra italiana, che tradiscono nostalgia per un periodo in cui il conflitto di classe era lineare e la possibile risposta dello Stato altrettanto semplice. Per un periodo in cui la storia andava piano.»
[Non capisco perché non abbia fatto qualche nome dei nostalgici italiani. Se poi uno s'immagina Ferrero, Rizzo e Russo Spena ah sì, beh, allora]
«Di fronte a tutto questo, siamo nella fase della rabbia e della recriminazione: per un processo economico-sociale che è stato devastante per velocità e voracità.
Ma oltre le recriminazioni, credo che si possa partire solo da due consapevolezze.
La prima è che dal gigantesco cambiamento strutturale avvenuto e ancora in corso non è che si possa tornare indietro costruendo fili spinati, facendo le sentinelle in piedi o arroccandosi nelle convinzioni ideologiche del Novecento.
La seconda però è che il processo finora è stato pessimamente gestito ed è sempre rimasto nelle mani di pochi: i quali, nella loro imprudente bulimia, si sono largamente fottuti delle conseguenze di quanto stava avvenendo nella carne e nel cuore delle persone.
L'obiettivo, forse, non è quindi mettere una coperta ai popoli per proteggerli dal cambiamento, ma sottrarre la gestione del cambiamento a quei pochi - e bulimici, e sciagurati.
Non è che sia una sfida difficile: è immane, gigantesca, ciclopica.
Ma se vedete altre strade possibili, in questo casino, fatemele sapere.»
Dunque, caro Giglioli io ti fo sapere subito: «il processo finora [...] pessimamente gestito [...] rimasto nelle mani di pochi» ha un nome: capitalismo. Paura a pronunciare questa parola?
Leggiti Marx. Innanzitutto per comprendere perché il modo di produzione capitalistico provoca devastazione e voracità, bulimia dei pochi, sciagura e fame nei molti.
E poi, leggiti Marx, non per cercarvi delle modalità rivoluzionarie, quanto le insuperabili e insuperate analisi di critica dell'economia politica che mostrano perché senza il superamento della forma di socializzazione umana schiava del feticismo della merce - ovverosia schiava di fatto di un modo di produzione che mira esclusivamente non alla soddisfazione dei reali e concreti bisogni dell'umanità, ma alla mera valorizzazione - il pianeta e chi lo abita diventerà (come in gran parte di mondo è già) un'unica immensa discarica.
Il capitalismo - è questo che va compreso innanzitutto per provare a pensare qualcosa di diverso - non deve essere ritenuto come la forma sociale definitiva e permanente che gli uomini hanno per produrre ricchezza, cambiamento, progresso, evoluzione sociale. Non serve a nulla che vada al potere un caudillo del cazzo qualsiasi per il gaudio del popolo a sbandierare bandiera rossa vincerà se poi la gente sarà comunque costretta a lavorare per campare, ossia a sottomettere se stessa per sussistere. Per intendersi. È una pia illusione credere che sia colpa della cattiveria di pochi stronzi bulimici.
Leggiti Marx, dunque - la sola strada possibile per il liberare il lavoro (il dispendio «di muscoli, cervello, nervi, ecc. umani») e quindi - forse - l'uomo. Poi, se ti va, ne riparliamo.