domenica 3 novembre 2019

Farsi cenere

«Grande fosforo imperiale, fanne cenere». 
Franco Fortini


Nonostante fosse più faticoso, il turno di notte era quello che preferivo e che ricordo con maggior favore. Lo preferivo perché, dato che eravamo in coppia e le mansioni da svolgere erano piuttosto semplici, potevamo dormire un po', a turno, sì da non essere proprio due stracci per le ore diurne; mentre il favore del ricordo è dovuto alla routine che si era stabilita: il caffè appena arrivati; lo spuntino della mezzanotte; il colloquiare sereno e rispettoso di due vite che da poco si affacciavano nel mondo del lavoro; l'ascolto della radio (Rai Radio Notte - e la mitica sigla che dava la carica); l'affacciarsi graduale alle nostre finestrelle del chiarore dell'alba. 
Detto questo, il lavoro scorreva, come i rifiuti, prima infuocati e poi fatti brace e cenere, scorrevano lungo il nastro dell'inceneritore. Noi vedevamo il processo in diretta nelle telecamere a infrarossi ubicate dentro al forno, che servivano appunto a controllare che dei rifiuti fosse fatta cenere. Se capitava - e capitava spesso - che alcuni non bruciassero bene, dovevamo bloccare il nastro trasportatore, per far sì che il fuoco avviluppasse interamente il materiale combustibile. Il blocco del nastro, tuttavia, era una manovra da compiere con attenzione, giacché determinava un aumento della temperatura del forno ai limiti della norma. Se non ricordo male, la temperatura di esercizio per l'inceneritore in questione era tra gli 800 e 1100 (o 1200?) gradi. Sotto gli 800, in pratica, i rifiuti non subivano un trattamento di incinerazione adeguato. Sopra i 1100 si rischiava di far uscire le fiamme dalla canna fumaria e di conseguenza mettere in pericolo la struttura.
Per quel tipo di inceneritore, la spazzatura - per essere un buon combustibile - doveva avere certe caratteristiche: non essere troppo umida, né troppo secca; né troppo fresca, né troppo fermentata; doveva contenere una dose equivalente di tutti i materiali di scarto (all'epoca, la raccolta differenziata si faceva solo del vetro). Eravamo noi, con la benna, a "frugare" nella buca tra i rifiuti del comprensorio per cercare di ottenere un mélange combustibile "equilibrato" tale da sfamare correttamente la bocca del forno.
Quando la cenere ottenuta dal processo di incinerazione raggiungeva un certo quantitativo, era da noi precipitata in un dumper posizionato nel locale seminterrato e, con tale mezzo, trasportata e depositata in un terreno adibito allo scarico, situato a un centinaio di metri dall'impianto. Aldilà della rete di confine, s'ergeva un altro capannone prefabbricato che s'illuminava in ore determinate della notte, dentro al quale - anziché umani - lavoravano galline con una turnazione schiavistica più pressante della nostra (con tale sistema, infatti, alle galline veniva imposto un regime di vita da due giorni in uno, in modo che potessero deporre il doppio delle uova - e non so se tale pratica sia ancora consentita).
A ripensarci, quella luce artificiale faceva sembrare il terreno grigio cenere un paesaggio lunare e noi, alla guida del dumper - vestiti con una tuta arancione, il casco e la mascherina -, due astronauti che girovagano in avanscoperta. Chissà quanti milligrammi di diossina abbiamo inalato o ingerito, più o meno delle galline del capannone accanto? Certo, a noi, anziché granturco e medicine, ci davano un milione e quattrocentomila lire al mese che a qualcosa servivano: sussistere più qualche vizio - e non era poco.