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martedì 29 dicembre 2015

965

Leggendo un articolo di un professore della Sorbona e poi vedendo questo servizio su France 2 mi sovviene il timore che la Repubblica francese si stia avviando sulla stessa strada intrapresa dalla Repubblica americana. 
Anche se il medagliere lo vinceranno sempre, giocoforza, le grandi nazioni.

via Washington Post

sabato 6 dicembre 2014

Introfletto ergo sum

Dal 48° Rapporto del Censis sulla situazione sociale del Paese, estraggo:
La solitudine dei soggetti: i dispositivi di introflessione di un popolo di singoli narcisisti e indistinti. La estraneità dei soggetti alle dinamiche di sistema risalta nel rapporto con i media digitali personali. A fronte del 63,5% di italiani che utilizzano internet, gli utenti dei social network sono il 49% della popolazione e arrivano all'80% tra i più giovani di 14-29 anni. Tra il 2009 e il 2014 gli utenti di Facebook 36-45enni sono aumentati del 153% e gli over 55 del 405%. Gli utenti italiani di Instagram sono circa 4 milioni. Delle 4,7 ore al giorno trascorse mediamente sul web, 2 sono dedicate ai social network. E il numero di chi accede a internet tramite telefono cellulare in un giorno medio (7,4 milioni di persone) è ormai più alto di quanti accedono solo da pc (5,3 milioni) o da entrambi (7,2 milioni). La pratica diffusa del selfie è l'evidenza fenomenologica della concezione dei media come specchi introflessi in cui riflettersi narcisisticamente, piuttosto che strumenti attraverso i quali scoprire il mondo e relazionarsi con l'altro da sé. Non è contraddittorio quindi il dato che emerge da una rilevazione del Censis secondo cui la solitudine è oggi una componente strutturale della vita delle persone: il 47% degli italiani dichiara di rimanere solo durante il giorno per una media quotidiana di solitudine pari a 5 ore e 10 minuti. È come se ogni italiano vivesse in media 78 giorni di isolamento in un anno, senza la presenza fisica di alcuna altra persona.
Dentro il generale, molte volte, il particolare soccombe o si perde, non viene contabilizzato, specificato. 
Nondimeno, come da un seme soffocato nel terreno, spunta il germoglio io e dichiara: che fortuna poter godere di almeno 78 giorni di isolamento annui. Altro che ferie.

Ma non è così. 

La solitudine: differenza tra chi la fugge e ne è condannato, e chi la cerca non avendone mai abbastanza. Mannaggia, non ritrovo il passo in cui Milan Kundera confronta la parola solitudine tra come viene detta e scritta dai francesi (e, aggiungo, dagli italiani): solitude,  e il modo in cui la scrivono e pronunciano gli spagnoli: soledad, notando - se non ricordo male - la sostanziale differenza esistenziale che si evince tra i due termini: solitude che denota chiusura in sé, contrizione, quasi sofferenza; soledad, a indicare apertura di sé al mondo, emanazione del proprio riflesso esistenziale.

Per concludere: nella media quotidiana sono calcolati anche i minuti trascorsi dentro il cesso?

sabato 8 settembre 2012

A volte sto su una sedia e penso

«A guardare Van Norden che la monta, mi sembra di contemplare una macchina con gli ingranaggi slogati. Lasciati a se stessi, potrebbero anche continuare in eterno, a macinare, a scartare, senza però che succedesse nulla. Finché non viene una mano a fermare il motore. Lo spettacolo di loro due accoppiati come una coppia di capre, senza la menoma scintilla di passione, che macinano senz'altro motivo che i quindici franchi, dilava ogni sentimento che io ho, tranne quello disumano di soddisfare la mia curiosità. La ragazza è stesa sulla sponda del letto e Van Norden sta prono su di lei, come un satiro, coi piedi saldamente piantati a terra. Io sto su una sedia, dietro di lui, e guardo i loro movimenti con distacco freddo, scientifico; potrebbe anche durare in eterno, a me non importa. È come guardare una di quelle pazze macchine che buttan fuori giornali, milioni, miliardi, trilioni di giornali, con quei titoli che non significano niente. La macchina, pazza com'è, par più razionale a guardarsi, e più affascinante degli esseri umani e degli eventi che l'hanno prodotta. Non ho interesse alcuno, niente, per Van Norden e per la ragazza; potrei starmene qui seduto a guardare tutti quanti gli accoppiamenti che in quest'istante avvengono in tutto il mondo, e il mio interesse rimarrebbe nullo, meno che niente. Non riuscirei a trovare differenze fra questo fenomeno e la caduta della pioggia o l'eruzione di un vulcano. Poiché manca quella scintilla di passione, non c'è significato umano nell'accoppiamento. È meglio guardare una macchina. E questi due son come una macchina con gli ingranaggi slogati. Ci vuole il tocco della mano dell'uomo per rimetterla in sesto. Ci vuole il meccanico.»

Henri Miller, Tropico del cancro, Paris 1934, edizione italiana Feltrinelli, Milano 1965, traduzione di Luciano Bianciardi.


Senza un minimo di conoscenza storica e prescindendo del tutto dalla concezione materialistica della storia, accade che noi umani diamo per scontato, per acquisito e immodificabile, la divisione della società in classi – pur con tutti i distinguo e le belle parole da corredo di repubblica, democrazia, libertà, uguaglianza, eccetera. Nella nostra società occidentale questo fenomeno si traduce nell'appartenenza di ogni essere umano a una specifica classe sociale: o appartieni alla classe dei padroni, o alla classe media*, o alla classe dei disperati.
Va da sé che questa suddivisione non è un sistema di caste completamente bloccato e blindato: esistono dei corridoi di mobilità, sia per salire che per scendere, anche se i flussi dal basso verso l'alto sono nettamente esigui rispetto a quelli di verso contrario; e, per di più, va detto che il flusso più preoccupante, determinato dalla presente crisi economica e finanziaria, è quello che vede un graduale ma inesorabile impoverimento della classe media.
La classe padronale è, di contro, più o meno sempre stabile nella sua esclusività: in Europa, e in Italia soprattutto, ricchi si nasce, non c'è un cazzo da fare. L'esempio più lampante, da fissarsi bene nella mente, sono quei nobiluomini bilingue degli Elkann, eredi Agnelli (ma lasciamo perdere, anche perché l'elenco non si limita a loro). Infatti, nonostante il mito del self made man, e nonostante la sua specificità umana da buffone, si consideri quanti altri Berlusconi l'Italia ha visto passare dalla classe media alla classe padronale negli ultimi trenta, quarant'anni**.

Ecco, tutto questo preambolo perché questi da alcuni giorni un brano di Mario Seminerio (Phastidio) pungolava la mia riflessione:
«La verità è che siamo in balia degli eventi, l’inerzia del sistema è enorme e solo il tempo potrà curare queste lesioni strutturali, a patto di non fare errori marchiani e a patto che la popolazione, piegata da crollo di reddito ed esplosione della disoccupazione, non dichiari di averne le tasche piene di convegni, programmi, auspici e ditini levati, e non passi a forme di assertività piuttosto problematiche per la convivenza civile. Tutto il resto sono chiacchiere. E finché potremo permetterci di riempire le giornate ascoltando quelle, significa che la situazione non è ancora tragica.»
Allora, se un commentatore competente e avveduto (liberale e democratico) come Phastidio, facendo uno più uno predice il risultato («La verità è che siamo in balia degli eventi...») mi chiedo e vi chiedo perché dobbiamo essere vittime della nostra stessa inerzia (mentale, soprattutto), perché condannarci necessariamente a delle «forme di assertività piuttosto problematiche per la convivenza civile»?
Siamo vittime di una tremenda illusione, dettata – è vero – dai disastri politici del Novecento: ovvero, che la democrazia, per essere tale, debba necessariamente prevedere un sistema economico di natura capitalista: abbiamo ottenuto benessere diffuso, sì, ma a che prezzo? La politica, per tenere buono il popolo e per ingrassare i padroni a dismisura, ha fottuto il popolo con la scusa del debito. Tutto il sistema del welfare si basa sul debito, non sulla liposuzione del grasso capitalistico. Che cazzo se ne fa un uomo solo di tutta quell'abbondanza (tunnel sottomarini compresi) quando c'è gente che dorme sotto i ponti coi cartoni?

La classe media occidentale, acculturata, sensibile, benestante***, è simile all'io narrante di Miller, che sta lì fermo, freddamente distaccato, a fare da spettatore al fottimento generale del mondo. Guardiamo il capitalismo divorare sempre più il mondo in modo storto, pazzo, irrazionale, e noi restiamo immobili, indifferenti, credendo che tutto questo sia una cosa dovuta, naturale. Crediamo, infatti, che il capitalismo sia un sistema economico ineluttabile, imprescindibile come un uragano o un'eruzione vulcanica: non resta che ripararci dalla tempesta o dalla lava incandescente, piccoli giunchi pensanti smossi dal vento e dal calore - e speriamo che la nostra piccola casa (rendita, posizione sociale) non vada spazzata via o distrutta.

Eppure non è così: il capitalismo non è un fenomeno che non dipende da noi. Ciò nonostante in molti credono che abbia vita propria e indipendente, come gli dèi di un tempo (e di oggi); e come agli dèi sacrificavano i loro capri migliori, così oggi al sistema di comando vengono riservate le migliori intelligenze, i servi di primo livello, che permettono a un ristrettissimo gruppo di superprivilegiati di non fare un cazzo dalla mattina alla sera spremendo godimento continuo dal tubetto della loro merda capitalizzata.

- Ditemi che non è così.
- No, è così.

Una possibile soluzione, anzi: forse la soluzione che già c'è per comprendere che il capitalismo non è una condizione necessaria e naturale, è leggere il primo paragrafo di questo capitolo de Il Capitale, di cui riporto l'incipit:
Nell’economia politica quest’accumulazione originaria fa all’in circa la stessa parte del peccato originale nella teologia: Adamo dette un morso alla mela e con ciò il peccato colpì il genere umano. Se ne spiega l’origine raccontandola come aneddoto del passato. C’era una volta, in una età da lungo tempo trascorsa, da una parte una élite diligente, intelligente e soprattutto risparmiatrice, e dall’altra c’erano degli sciagurati oziosi che sperperavano tutto il proprio e anche più. Però la leggenda del peccato originale teologico ci racconta come l’uomo sia stato condannato a mangiare il suo pane nel sudore della fronte; invece la storia del peccato originale economico ci rivela come mai vi sia della gente che non ha affatto bisogno di faticare. Fa lo stesso! Così è avvenuto che i primi hanno accumulato ricchezza e che gli altri non hanno avuto all’ultimo altro da vendere che la propria pelle. E da questo peccato originale data la povertà de/la gran massa che, ancor sempre, non ha altro da vendere fuorché se stessa, nonostante tutto il suo lavoro, e la ricchezza dei pochi che cresce continuamente, benché da gran tempo essi abbiano cessato di lavorare.
Avevo da poco letto questo brano, e stava lì a lavorare ai fianchi della mia indolenza politica, quando esso è stato richiamato all'attenzione da un post della cara Olympe de Gouges, la quale, ultimamente, ci sta regalando una serie di post veramente illuminanti per noi marxisti in fieri. 
Bene, per non farla troppo lunga sennò si viene a noia: che si sia pessimisti od ottimisti, è indubitabile che per rimediare al guasto politico, economico, sociale ed ambientale; per rimettere in sesto questo mondo da sette miliardi di abitanti, serva la mano umana; per usare la metafora di Miller: la mano di bravi ingegneri e bravi meccanici, che progettino e costruiscano un nuovo tipo di motore politico ed economico alternativo a quello attualmente dominante.

Note
*Nelle società occidentali democratiche, alla classe media appartiene l'abbondante maggioranza dei cittadini, con tutti i distinguo tra i maggiori o minori benestanti e/o abbienti.
** Non considero coloro che si ultra-arricchiscono mediante pratiche criminali; Berlusconi può aver avuto un aiutone sospetto all'inizio, poi il getto continuo di risorse lo ha avuto e ce l'ha grazie a pratiche monopolistiche e basta così sennò m'infreno).
*** Mi ci metto anch'io, in coda, con milletrecento euro al mese. 

domenica 24 giugno 2012

L'amica del mio amico

fonte
- Ciao, scusa, disturbo? Dall'applicazione del mio smartphone risulta che tu dovresti essere amica di un mio amico. “A cosa stai pensando”?
- Non mi rompere i coglioni.
- Ah, è un bello “stato” il tuo. Vuoi condividerlo?
- No, levati dalle palle.
- Sì, mi sa. Era più facile invadere la Polonia.

domenica 15 aprile 2012

Al mio bel castello


Ogni tanto cammino intorno al perimetro di certi castelli. Poco fa, mentre mi trovavo, appunto, vicino alle mura di uno di questi, un signore, che stava uscendo dalla porta che conduce alla torre, ha preso a bestemmiare contro il suo cane giocherellone che gli aveva tutto strappato il sacco della spazzatura (sacco che il signore aveva appoggiato a un cipresso, penso prima di caricarlo in auto e portarlo al vicino cassonetto).
Questo signore, se non sbaglio, è uno dei fratelli padroni del castello (sua madre era contessa e non so se anch'egli abbia qualche titolo, chissà).
Io ero lì, riprendevo fiato, contemplavo il panorama e le mura, e pensavo che, tutto sommato, la distanza che separa questo signore di nobili origini da me è minima, molto minima rispetto a quella che poteva intercorrere tra un uomo della mia condizione sociale e un nobile di cinquanta o cento anni fa o, addirittura, dei tempi di Dante - e questo indipendentemente dal redditto e dal patrimonio (il signore è comunque padrone di una parte di castello; io no).

Che cosa ha colmato la distanza? Cosa consente a un figlio dell'Occidente come me di non avvertire più alcun disagio di fronte a qualsiasi nobile o aristocratico che va a caccia di elefanti in Botsuana? Che cosa mi fa ritenere, presuntuosamente, non dico uguale, ma superiore, oh sì, e quanto!, a queste persone, nonostante io non abbia e non sia un cazzo di fronte a loro?

Chiaramente, varie cose occorse nella storia che più o meno tutti conoscono. Io non so esattamente chi devo ringraziare se posso permettermi certi lussi di autostima. Le generazioni precedenti alla mia, sicuramente. Ma la mia di generazione saprà dare alle prossime quanto a noi è stato dato? 
Un altro tal Lucas che camminerà tra cento anni nei pressi di un altro castello penserà le stesse mie cose al riguardo? Avrà, inoltre, un pensiero di gratitudine per noi proletari opulenti d'occidente?

Credo di no, se ci accontenteremo di non perdere troppo di quello che i nostri padri e le nostre madri hanno conquistato.