Fonti partenopee attendibili mi informano che, probabilmente, i signori di cui parlavo ieri, grandi compratori di detersivo Dash in polvere a prezzo scontato alla Unicoop Firenze, hanno come obiettivo quello di rivendere il Dash “tagliato” con altro detersivo di qualità scadente in altra località, a Napoli per esempio, riutilizzando o ancor meglio usando un imballaggio tal quale a quello originale. Come testimonianza, la fonte ha portato quella di alcune casalinghe partenopee, le quali, a volte, dopo un bucato in lavatrice, hanno lamentato: «Vuò sapé pecché stu Dash nu' lava manco o' cazz».
giovedì 4 giugno 2015
mercoledì 3 giugno 2015
I brutti lavanderini
Oggi pomeriggio, alla coop, in fila ad una cassa accanto a quella in cui facevo la fila io, si sono posizionati quattro uomini campani (così mi parso di udire dal loro conversare), di varia età (dal biondino ossigenato, al moro obeso coi capelli unti; dal riccioletto castano a quello coi capelli grigi) con quattro carrelli pieni di fustini di dash in polvere in offerta (a occhio, non meno di cinquecento euro di valore).
Dopo aver pagato il mio dovuto, posizionato la spesa nel bagagliaio, sono uscito dal parcheggio del supermercato e ho visto i quattro caricare i fustini in un furgone, un daily cabinato bianco.
«Che strano: chissà a chi e a quanto lo rivenderanno», questo il primo pensiero.
Il secondo, e ultimo, frutto di una pregiudizievole suggestione gomorresca, è stato: «Quanto cazzo di denaro sporco devono lavare?».
«Tipo la Svizzera» (terzo pensiero in update).
«Tipo la Svizzera» (terzo pensiero in update).
martedì 2 giugno 2015
E gli occhi intorno cercano
Vorrei non dipendere da me stesso, essere a balia, fratello finto di latte, attaccarmi a una tetta e fare come il cuculo, zitto e poppa, anche se il cuculo si poppa i vermi destinati alla vera prole, parassitare il lavoro altrui, come fanno i capitalisti, ma senza gli infingimenti paraculi di coloro che si vantano d'essere datori di lavoro. I datori: coloro che danno cornate.
Se stasera avessi una spada e un datore pieno di banderillas sul groppone potrei finirlo, per pietà e misericordia - lo stesso tipo di compassione che mi prende se vedo una falena con un'ala rotta che si dimena a terra, che faccio la schiaccio oppure resisto nel lago d'indifferenza ch'è il mio cuore [*]? La schiaccio, anche se poi generalmente mi pento di aver preso simili decisioni demiurgiche. Chi sono io per occuparmi della vita altrui? Già fatico a occuparmi della mia, prestando tutta quella serie di attenzioni che servono per mantenere un equilibrio omeostatico, tra il dare il prendere, l'avere e l'essere, il mangiare e il defecare. Una fatica. Poi capisci la passione di Beckett per Belacqua. Stare rannicchiati in posizione uterina e attendere, purgarsi, tanto a poco a poco, un giorno dopo l'altro, il paradiso arriverà. Forse.
domenica 31 maggio 2015
Lo Stato è...
... «un
prodotto della società giunta a un determinato stadio di sviluppo, è
la confessione che questa società si è avvolta in una
contraddizione insolubile con se stessa, che si è scissa in
antagonismi inconciliabili che è impotente a eliminare. Ma perché
questi antagonismi, queste classi con interessi economici in
conflitto non distruggano se stessi e la società in una sterile
lotta, sorge la necessità di una potenza che sia in apparenza al di
sopra della società, che attenui il conflitto, lo mantenga nei
limiti dell'ordine;
e questa potenza che emana dalla società, ma che si pone al di sopra
di essa e che si estranea sempre più da essa, è lo Stato.»
[...]
«Per
mantenere questo potere pubblico sono necessari i contributi dei
cittadini: le imposte. Esse erano completamente ignote alla società
gentilizia. Ma noi oggi le conosciamo fin troppo bene. Col progredire
della civiltà, anche le imposte non bastano più; lo Stato firma
cambiali per il futuro, ricorre a prestiti, a debiti pubblici. E
anche di questo la vecchia Europa ne sa qualcosa.
In
possesso della forza pubblica e del diritto di riscuotere imposte, i
funzionari appaiono ora come organi della società al di sopra della
società. La libera, volontaria stima che veniva tributata agli
organi della costituzione gentilizia non basta loro, anche se
potessero riscuoterla; depositari di un potere che li estrania dalla
società, essi devono farsi rispettare con leggi eccezionali in forza
delle quali godono di uno speciale carattere sacro e inviolabile. Il
più misero poliziotto dello Stato dell'epoca civile ha più autorità
di tutti gli organi della società gentilizia presi insieme, ma il
principe più potente, e il maggiore statista o generale dell'età
civile possono invidiare all'ultimo capo gentilizio la stima
spontanea e incontestata che gli viene tributata. L'uno sta proprio
in mezzo alla società, l'altro è costretto a voler rappresentare
qualcosa al di fuori e al di sopra di essa.
Lo
Stato, poiché è nato dal bisogno di tenere a freno gli antagonismi
di classe, ma contemporaneamente è nato in mezzo al conflitto di
queste classi, è, per regola, lo Stato della classe più potente,
economicamente dominante che, per mezzo suo, diventa anche
politicamente dominante e così acquista un nuovo strumento per tener
sottomessa e per sfruttare la classe oppressa. Come lo Stato antico
fu anzitutto lo Stato dei possessori di schiavi al fine di mantener
sottomessi gli schiavi, così lo Stato feudale fu l'organo della
nobiltà per mantenere sottomessi i contadini, servi o vincolati, e
lo Stato rappresentativo moderno è lo strumento per lo sfruttamento
del lavoro salariato da parte del capitale. Eccezionalmente tuttavia,
vi sono dei periodi in cui le classi in lotta hanno forze pressoché
eguali, cosicché il potere statale, in qualità di apparente
mediatore, momentaneamente acquista una certa autonomia di fronte ad
entrambe. Così la monarchia assoluta dei secoli XVII e XVIII che
mantenne l'equilibrio tra nobiltà e borghesia; così il bonapartismo
del primo e specialmente del seconde impero francese che si valse del
proletariato contro la borghesia e della borghesia contro il
proletariato. »
Friedrich
Engels, L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello
Stato, 1884
Il presente brano sia la premessa necessaria per capire quel che sta accadendo in Grecia e quel che probabilmente accadrà in Italia. Ne riparliamo.
sabato 30 maggio 2015
Per favorire la mobilità sociale
«Piketty da Trento ha anche dato la 'ricetta' per favorire la mobilità sociale in Europa: investire di più in formazione per i giovani, permettere la meritocrazia, affinché non siano sempre e solo i figli delle élite ad accedere alle università eccellenti, applicare una tassazione forte e uguale in tutta l'eurozona per le multinazionali, evitando di imporre pesi fiscali alle piccole medie imprese, abolire i paradisi fiscali e l'opacità finanziaria che permette a Paesi come la Svizzera di usare le fasce contributive di loro vicini.»
Oggi pomeriggio, munito della ricetta del dottor Piketty, sono andato in farmacia a prendere le medicine «per favorire la mobilità sociale in Europa».
Ne sono uscito con lattulosio, solfato di magnesio e un enteroclisma.
Qualcosa ha cominciato a muoversi, in Europa.
venerdì 29 maggio 2015
Una pigrizia generale
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La
politica che un paese esprime è il riflesso condizionato di quello
che esprime il popolo di quel paese. Nella fattispecie, il popolo
italiano che cosa esprime? A parte il sempiterno mugugno da malcontento,
il desiderio politico degli italiani non è quello di una società
più giusta, equa, prospera e solidale, ma è quello di veder
soddisfatto il proprio interesse particolare, relegando l'interesse
generale ai discorsi ufficiali che le massime autorità dello Stato
tengono nelle varie occasioni comandate – e niente è più vacuo,
inutile, disatteso di un discorso presidenziale.
Che
cosa c'è alla base della nostra attesa politica? Avere una casa,
un'auto, in breve: avere accesso ai beni di consumo per
avere i quali occorre, per la stragrande maggioranza degli
individui, vendere a ore la propria forza lavoro.
Quindi, si lavora
principalmente per sussistere.
Se non c'è alcun progetto
politico che azzardi a immaginare un tipo di società diversa da
quella della sussistenza, è perché fondamentalmente il popolo non
ha altra mira, altra ambizione che quella di veder soddisfatti, più
o meno decentemente, i propri bisogni primari e, quando è grassa,
anche alcuni secondari, per esempio quelli ricreativi, che vedranno
domani tante famiglie allegramente andare a trascorrere brevi vacanze
repubblicane fuori porta.
Siano giorni lieti per tutti,
soprattutto se serviranno per non andare a votare.
«
Il comunismo non toglie a nessuno il potere di appropriarsi dei prodotti
della società, toglie soltanto il potere di assoggettarsi il lavoro
altrui mediante tale appropriazione.
Si
è obiettato che con l'abolizione della proprietà privata cesserebbe
ogni attività e prenderebbe piede una pigrizia generale.
Da
questo punto di vista, già da molto tempo la società borghese
dovrebbe essere andata in rovina per pigrizia, poiché in essa coloro
che lavorano, non guadagnano, e quelli che guadagnano, non lavorano.
Tutto lo scrupolo sbocca nella tautologia che appena non c'è più
capitale non c'è più lavoro salariato.» K.Marx-F.Engels
giovedì 28 maggio 2015
Il Mar delle Blatter
Sono costretto ad arrendermi stasera, mani in alto, culo in basso, tiro fuori il materasso. Eppure medito, ma cosa medito? Sulla fifa. Ne ho vista una, stamani, in coda presso un ambulatorio, a parlarmi dei suoi problemi ai legamenti nonostante i pantaloni aderenti e il top a balconcino che a stento tratteneva il ricordo di probabili svezzamenti. Della fifa, ho detto. Va bene.
Mi ricordo, ai tempi in cui un paio di volte all'anno passavo per Visp, cittadina di merda nel Vallese, in cui ero costretto a passarci se dal Vaud volevo raggiungere il Sempione, ai tavolini di un bar all'aperto lungo la strada, la stessa strada in cui trovavo sempre una coda interminabile, era estate, ricordo che vidi Blatter, o quella che sembrava una sua controfigura, sorseggiare un caffè lungo, di quelle brodaglie scure made in Switzerland. Era vispo. A un certo punto alzò la mano per chiedere il conto. Il cameriere si presentò immediatamente innanzi e gli chiese se voleva pagare in contanti o con la carta di credito. Lui sorrise e intonò:
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe...
Il cameriere, i cui genitori erano di Viterbo, sorrise e disse che la sua squadra era la Lazio. Non era vispo.
mercoledì 27 maggio 2015
Ogni uomo è due uomini
«
Immaginarono che ogni uomo è due
uomini e che il vero è l'altro, quello che sta in cielo.
Immaginarono anche che i nostri atti gettino un riflesso invertito,
di modo che se noi vegliamo, l'altro dorme, se noi fornichiamo,
l'altro è casto, se rubiamo, l'altro dà del suo. Morti, ci uniremo
a lui e saremo lui. »
Jorge
Luis Borges, “I teologi”, in
L'Aleph.
I miei due uomini stanno in
terra e, vivendo, uniti e separati, cercano di venire a patti con le
condizioni materiali in cui sono precipitati e, parimenti, con
l'indole sorniona di coloro che preferiscono la vita gli vada addosso
piuttosto che il contrario, come tuffatori al replay ritornano sul
trampolino. Non è un caso i miei uomini siano asciutti, tranne che
nelle mutande, dove spesso disperdono assai copiosa semenza.
Polluscono notturnamente sognando due donne con le quali venire a
patti: con una fornicare, con l'altra essere casti, in modo da non
confondere il culo con le quarant'ore. Essere due uomini a volte
disimpegna, non obbliga a recitare parti, consente di essere in ogni
circostanza quello che si vorrebbe essere, senza mezze misure,
inutili convenevoli, finzioni. Ogni uomo gestisce il proprio lato
oscuro, in una sorta di perdurante autoanalisi. Quello che conta è
che ognuno è indulgente con l'altro. E questo è indispensabile.
Perché perdonanarsi è il primo passo per ritrovare l'unità. Non in
edicola.
martedì 26 maggio 2015
Aspettando il ritorno
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Persa l'andata a Dublino, in Vaticano stanno preparando la partita di ritorno, a Roma. Pare che pretendano di farla giocare alle 12 in piazza San Pietro, la domenica.
lunedì 25 maggio 2015
Lavoratori
«
La mia vita attiva, se mai ne ho avuta una, è finita quando avevo
sedici anni. Ho catturato un posto... e il posto ha catturato me...
Le cose veramente importanti, per me, sono successe prima di quella
data... Dicono che la gente felice non ha storia: be', non ce l'hanno
neanche quei disgraziati che lavorano negli uffici di assicurazione
».
George
Orwell, Coming Up for Air (1939),
ed. it. Una boccata d'aria, Mondadori,
Milano 1966
In
un frammento di un comizio elettorale, ho sentito il presidente del
consiglio affermare che, ad urne chiuse, più importante del conto delle bandierine
della vittoria, sarà contare i posti di lavoro che si
saranno creati
a
livello nazionale – grazie all'azione politica del governo che
presiede.
Posti
di lavoro. È una gran passione quella di far lavorare la gente.
Certo, data la situazione, per chi non ha il privilegio di vivere di
rendita, vendere la propria forza lavoro è una necessità, e trovare chi l'acquista è, a giusto titolo, una fortuna.
Ieri sera, da Fazio, Piero Angela ha rammentato un famoso proverbio che dice: «Trovati un lavoro che ti piace e avrai la fortuna di non lavorare tutta la vita». Bene, nella nostra epoca, quanti sono coloro i quali hanno trovato un lavoro che gli piace e, invece, quanti sono coloro che, no, non l'hanno trovato, anzi: è il lavoro che ha trovato loro, visto che così assiduamente lo cercavano a prescindere che gli piacesse o meno?
Così, a occhio, direi che non c'è partita: i secondi, quelli che sono impiegati in un lavoro che non gli piace, sono indubbiamente la maggioranza (quasi assoluta). Con ciò non si sostiene assolutamente che essi svolgono il loro lavoro con negligenza e scarso senso del dovere. Tutt'altro. Il punto è che frequentemente le ambizioni professionali di ciascheduno si scontrano con le offerte occupazionali proposte dal mercato del lavoro - e le possibilità di non lavorare lavorando, ovvero lavorare divertendosi, cozzano con quello che il mercato del lavoro richiede...
Eppure c'è chi riesce a stare fuori dagli obblighi lavorativi e non fare praticamente un cazzo da mane a sera, senza pensieri, se non quelli di controllare i listini di piazza Affari o Wall Street (rentier capitalism) oppure quelli di vivere come gigli nei campi, come gli uccelli del cielo campare.
Considerato il perimetro esistenziale in cui vivo, non mi è dato conoscere i primi (se non superficialmente, attraverso resoconti di terzi), mentre più facile è imbattermi nei secondi. Di uno di questi ultimi, racconto un episodio.
Qualche anno fa, in un bar, un signore pensionato, al clochard che gli chiedeva un euro per bere un bicchiere di rosso, rispose che sì, gliele
avrebbe dato un euro, però a condizione che prima gli andasse a zappare l'orto. Al
che, a voce alta e con sguardo severo, richiamando così l'attenzione
di tutta la platea del bar, il clochard rispose: «Sentitelo bellino,
vuole che vada a zappargli l'orto: non ho mai lavorato tutta la
vita e ora vado a zappare l'orto a lui, sta' a vedere…» e se ne
andò via libero, con una risata fragorosa che contagiò tutti quanti noi, prigionieri del nostro lavoro.
domenica 24 maggio 2015
«Non starò a raccontarlo»
Scrive Scalfari:
«Ho visto pochi giorni fa un vecchio e bellissimo film che ha come protagonisti Robert De Niro e Jeremy Irons ed è intitolato "Mission". Non starò a raccontarlo»
«La sostanza del film è il drammatico scontro tra due missionari gesuiti e le potenze coloniali Spagna e Portogallo nell'America del Sud settecentesca. I due missionari guidano una tribù di nativi in una terra vergine sulle sponde di un fiume e di un'immensa cascata. I nativi indios sono di giovane e giovanissima età e i missionari li hanno convertiti a Dio e civilizzati. Ma questo loro ingresso nella vita civile non piace affatto ai mercanti di schiavi che commerciano in quelle terre traendo dallo schiavismo notevoli ricchezze e non piace neppure alle potenze coloniali europee che sono presenti in Brasile, in Uruguay e in Argentina dei quali il fiume è una via d'acqua comune.
Alla fine un arcivescovo gesuita arriva alla Missione che ormai è diventata un villaggio perfettamente organizzato. L'arcivescovo si compiace con i suoi confratelli per aver civilizzato quegli indios, ma gli impone di distruggere il villaggio e rimandare gli indios nella foresta dalla quale provengono. I due missionari non capiscono quello strano modo di ragionare ma l'arcivescovo gli spiega che se la Missione non sarà rinnegata, il villaggio distrutto e gli indios di nuovo inselvatichiti nella foresta, i soldati delle potenze coloniali stermineranno tutti, missionari compresi. Per di più l'arcivescovo ha timore che i governi di Madrid e di Lisbona facciano pressioni sul Papa affinché sciolga l'Ordine dei gesuiti che sta prendendo nelle colonie dell'America del Sud molte iniziative analoghe a quella Mission. Tutto questo deve essere dunque impedito, evitato, represso.
Questa è la storia che il film racconta terminando con i soldati spagnoli che distruggono il villaggio e uccidono i suoi abitanti compresi i due missionari che hanno rifiutato di obbedire al loro arcivescovo.»
Scherzi a parte, mi auguro anch'io di continuare a scrivere post, anche uno a settimana, sino a novantun anni, magari non sul Papa o sui conflitti interni al potere temporale della Chiesa.
Interessante e onesta questa riflessione scalfariana:
«di questo parlerò oggi per chiarirlo anzitutto a me stesso (mettere per scritto i propri pensieri significa soprattutto precisare ed esplicitare ciò che era ancora informe e perfino inconsapevole) e poi a quanti mi faranno l'onore di leggermi.»
Nondimeno, una volta fatto l'onore, preciso che la riflessione intorno a colui che, a suo parere, «è il più importante personaggio del secolo che stiamo vivendo» non mi trova per nulla concorde, perché papa Francesco non sta rivoluzionando né tantomeno riformando niente di particolare, ma solo cercando soluzioni per far mantenere alla Chiesa il suo potere temporale e non farle perdere altro terreno nei confronti della concorrenza, secolarizzazione compresa.
sabato 23 maggio 2015
La rivoluzione a tavola (senza antipasti)
Alcune
sere or sono, in una trasmissione di chiacchiere su La 7, ho sentito
il professor Umberto Veronesi affermare che, in un futuro prossimo,
essere vegetariani diventerà una necessità per far fronte alla
sostenibilità ambientale, in quanto l'aumento demografico e di
esseri umani e di animali da allevamento comporterà il problema di
come sfamare gli uni e gli altri, dati i limiti intrinseci della
produzione agricola possibile sul nostro (nostro?) pianeta.
Il
ragionamento, frutto dell'armamentario ideologico borghese, offre l'idea che se la specie umana diventasse vegetariana, la questione alimentare e il rischio ambientale sarebbero presto un ricordo. Ma siamo sicuri che cambiare «tipo di consumo» mantenendo lo stesso «modo di produzione»¹ sia la panacea di tutti i mali che affliggono l'umanità?
A tale proposito, con garbo e dovuto rispetto, vorrei porre al professor Veronesi le seguenti domande:
1.
Perché la presenza umana sul pianeta aumenta così considerevolmente
e, soprattutto, perché aumenta in certe zone del mondo e non in
altre? Detto altrimenti: perché nel terzo mondo figliano come
bestie, mentre nel primo v'è una più rarefatta inseminazione?
2.
L'agricoltura e l'allevamento, attività del settore primario, hanno
come obiettivo il soddisfacimento dei bisogni alimentari dell'intera
umanità e a questo sono indirizzate le tecniche produttive, oppure
sono anch'esse attività teleologicamente orientate verso il mero
profitto? In breve: qual è la ragione sociale delle industrie
agro-alimentari, nazionali o multinazionali, del settore?
3.
Il cannabalismo (ammazzare un Adinolfi o un Ferrara all'anno) potrebbe essere più risolutivo?
_____________
¹Suggerisco la seguente lettura.
venerdì 22 maggio 2015
'notte
Sono tempi in cui fatico a mantenere concentrazione leggera, o leggerezza concentrata/condensata che mi consente, di norma, la facitura di un post al giorno - leva le benzodiazepine di torno - pensavo questo, stasera, spezzandone una in nome della madre, ho reso grazie e immediatamente ho detto: camminare sul filo del potere e dell'impotenza provoca un blocco del pensiero, una sorta di stand-by, e la richiesta di distendere la mente sui lidi calmi dove quello che succede non mi riguarda, io non c'entro, perché devi tirarmi in ballo, lasciami perdere, vita proletaria, non chiamarmi in causa, dammi un po' della tua accumulazione originaria, tanto per andare in banca e chiedere un prestito senza garanzie.
Il sonno cade a piombo sulla tastiera: ecco un esempio della fatica e quindi dell'impedimento. 'notte.
giovedì 21 maggio 2015
Una pallina di pongo
Mi rendo conto: mi rendo conto? Dico: mi rendo conto? Voglio dire: voglio dire? Cosa voglio dire? Insomma: insomma? Suvvia, falla poco lunga e vieni al punto: al punto? Smettila. La smetto. È che ogni tanto leggo rubriche quotidiane di vari editorialisti della stampa nostrana e mi pongo (plastilino) delle domande inerenti la faccende dello scrivere pressoché con cadenza quotidiana. Presa in mano la materia del contendere (era pongo), ecco la mia pallina di pensiero: dopo aver letto per esempio una triade (ordine alfabetico) Facci, Gramellini, Serra, il lettore che percezione ha degli accadimenti?, ha più o meno presa sul reale? si sente intellettualmente soddisfatto e partecipe; e, altresì, indignato o irritato e quindi complice del punto di vista espresso da siffatti autori?
Io tutte le volte che leggo tali rubrichette mi domando questo: se non fossero pagati, ovvero se non fossero sotto contratto, scriverebbero le stesse cose a gratis in un blog? Nell'ordine (alfabetico): scriverebbero sul giustizialismo d'occasione, su Formigoni, sui politici in tv, rimestando - secondo una loro tempistica - sempre nello stesso barattolo di sottaceti andati a male?
E mi rispondo: a) se no, allora ok, sono soltanto dei blogger antesignani che per bravura, merito, età hanno occupato per primi le nicchie a pago disponibili sul mercato; b) se sì: si renderebbero conto che i veri giustizialisti d'occasione, i veri Formigoni, i veri politici in tv sono loro medesimi e che, di conseguenza, dovrebbero graffiarsi da soli?
martedì 19 maggio 2015
Un filo significante
Camminare lungo una banchina che costeggia i binari di una ferrovia provinciale, osservando a ogni palo della rete elettrica il teschio bianco su sfondo nero che avvisa: «Chi tocca i fili muore». Aver voglia di toccarli, col cazzo. Morire nella ripetizione. I fili, plurale. E appunto: se tocco un filo solo, singolare, muoio? Chiederò ai balestrucci.
Mi manca il mare, tutta quella quantità d'acqua davanti in movimento. Mi servirebbe per diluire quella serie di pensieri nefasti che inducono gli intellettuali in tentazione. Una cosa porca, tipo: due fette di salame sugli occhi. Salame Milano. Sapeste come, dal primo maggio, sto pregustando il fatto di perdermi l'Expo. Una goduria, quasi più che perdersi un Giubileo. Io sono uno dei più grandi perditori di eventi dell'Occidente. I concerti allo stadio, le partite di calcio, i saloni, le fiere, i festival: non c'è cosa che io non abbia perso. Ogni lasciata, una goduta ritrovata. Purtroppo, devo ammettere a mio disdoro, queste perdite non hanno determinato, al contempo, grandi guadagni, a parte i guadagni dello spirito. Per farsene una sega. E appunto.
Balzac, da qualche parte, scrisse: «È impossibile schiacciare le persone insignificanti, si appiattiscono troppo sotto il piede». Infatti è più bello cercare di schiacciare i significanti, come faccio io ora, qui.
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