Sono passati dieci anni da quella volta in cui mia sorella mi disse di lasciarla in pace. Dieci anni. Un tempo smisurato per crescere. Purtroppo, sebbene mi sia misurato, non sono cresciuto, anzi: sono abbassato due centimetri e non parliamo poi dei chili persi. La pancia gonfia non vi inganni e anche le belle guanciotte rubizze sono un falso positivo. Bevo troppo, tutto qui.
Appena me ne andai dalla sua vista, feci domanda alle poste, cercavano un portalettere a tempo determinato per i mesi estivi. Mi presero e, nel volgere di pochi mesi, la mia vita ebbe una svolta: uno dei colleghi più anziani che sostituivo morì facendo parapendio sulle Dolomiti, cosicché il direttore, che in quel momento era a corto di altre raccomandazioni, fece in maniera di farmi avere il suo posto. Io non solo ne approfittai, ma divenni confidente dell'impiegata postale, vedova del postino deceduto, con la quale presi a vedermi, anche fuori del luogo di lavoro, generalmente a casa sua. Vi abitava con il figlio dodicenne, un ragazzo irrequieto, che dopo la scomparsa del padre aveva iniziato a manifestare segni di aggressività nei confronti della madre e dei suoi pari. Forse fu anche per questo che lei mi concedette di trasferirmi in casa loro, non tanto per rappresentare nei confronti del figlio una nuova figura paterna, quanto per darle un senso di (relativa) protezione riguardo agli scatti d'ira e alle frequenti aggressioni che ella da lui subiva. In effetti, quando c'ero io il ragazzo era calmo, taciturno e non reagiva neanche quando la madre lo spronava a fare i compiti (cosa che, in passato, le era costata il sussidiario di tecnologia sul costato, lanciatole contro come un frisbee). Perché mi rispettasse mi sfuggiva, forse perché non volevo fare il padre e neanche diventargli amico. Semplicemente mi rivolgevo a lui soltanto per comunicare qualcosa e mai per dialogare. Già detestavo con sua madre il dialogo, figuriamoci con lui.
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