lunedì 7 marzo 2011

Opzioni militari

Credo che se in Libia fossero spedite simili soldatesse, Gheddafi si arrenderebbe subito. O, al limite, darebbe loro cento euro e una copia del Corano.
Vedi galleria.

Touch un cazzo

Un corto geniale.
Via Unfunk

Striscia la mestizia

A me Striscia la notizia fa schifo non piace. Nel senso che la trovo inguardabile (anche se qualche puntata anni fa l'ho vista per farmene un'idea). Anche le veline non le trovo per niente attraenti. Trovo molto più eccitante la signora quarantenne che, alla Coop, tutta biancovestita (persino col cappello e i guanti: solo la pelle del viso scoperta), mi offre baccalà o stoccafisso norvegese in promozione. Sì, signora è buono, ma mi bastano due acciughe (Prisencolinensianinciusol). 
Della trasmissione di Antonio Ricci non capisco come sia possibile sopportare (nell'ordine):
- i conduttori e/o le conduttrici;
- le risate sciacquone;
-  gli inviati;
- il gabibbo;
- il trovare piccole o medie malefatte, scovare qualche malfattore per sputtanarlo al fine di dirigere e/o scatenare l'odio, la rabbia "civile" non verso l'alto (il potere), ma verso qualcuno che è allo stesso tuo livello di meschinità.

Già, riguardo a quest'ultimo punto: uno dei più celebri sputtanamenti di Striscia la notizia è stato quello di Vanna Marchi e del suo clan. Come sono stati bravi, vero? Hanno incastrato un'imbonitrice, una falsaria, una che raggirava la gente... ecco, tutto questo mi ricorda qualcuno, ma questo Qualcuno non lo hanno mai toccato (o sì, certo, qualche lieve carezza, solletico leggero leggero, d'altronde è il loro padrone mascarato).
Per cui, quando leggo Giglioli o Soncini non mi stupisco affatto: Striscia la notizia è una delle più potenti e raffinate (semolate) macchine della propaganda berlusconiana. Che tale macchina sia stata progettata, costruita e mantenuta da uno che si definisce "anarchico" non è paradossale, perché il suo è un meccanismo che favorisce un tipo di governo che te li fa avere in odio tutti. Perché in fondo è naturale domandarsi com'è accaduto che Vanna Marchi sia diventata presidente del consiglio. Ecco, appunto.

domenica 6 marzo 2011

Professionisti che hanno un Ideale

Oggi il Corriere della Sera ha pubblicato una lettera di Berlusconi indirizzata alla sorella di un alpino.
Soliti discorsi, da normale capo di governo. Retorica di prassi, d'altra parte non si può pretendere altro. Mi piacerebbe sapere se l'ha scritta di suo pugno (non credo), ma non è importante.
M'interessa, invece, riflettere su un'altra cosa. No, non sul fatto se mantenere o meno la nostra presenza militare in Afghanistan. E nemmeno voglio ribadire il fatto che i militari che partecipano a tale "missione internazionale" sono volontari, quindi consapevoli dei rischi insisti del loro lavoro altamente (e giustamente) retribuito. (È normale che faccia più rumore un soldato italiano morto che trecento libici fucilati dai miliziani di Gheddafi perché ribelli).
Io pensavo un'altra cosa. Il nostro esercito è composto soltanto da professionisti. Poniamo che costoro, per una ragione o per un'altra, si rifiutino improvvisamente, e in massa, di aderire alla missione internazionale di "pace" in Afghanistan. Cosa succederebbe? Sarebbero "costretti" a partire per paura di essere licenziati? Oppure si penserebbe seriamente di reintrodurre la leva militare obbligatoria (per ora solo sospesa)? 
Domande inutili, forse. Ma quando nella lettera di Berlusconi ho letto che i militari impegnati in tale spedizione sono dei «professionisti che hanno un Ideale, che credono nei valori della Patria» ho cominciato ad avvertire aria di diserzione.

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Io me li sarei messi un paio di pedalini

sabato 5 marzo 2011

Un pur trésor de chair

A W.W. 

Quel Vent a dorloté le couvent aux tours blondes
au point qu'il est encore a mi-côte penché
sur son fleuve aux glouglous de voluptés cachées
Pour fuir le dur Simoun va-t-il céder aux ondes?

Sa muraille impeccable impose le mystère
avec son porche plein d'étoiles en plein jour
et ses ogives d'or d'où tombe un regard lourd
sur les larrons qu'affole un pur trésor de chair

Je suis le pélerin qui lèche en le bois sombre
un peu de lune à l'eau assaisonnée d'écorce
avec la faim brûlée qui l'infini amorce

Et je crie la main en cornet sur la bouche
voici la clef qui trouve ta chasteté farouche
le clef ou pistolet pour te sauver de l'Ombre

Février 1937

F. T. Marinetti, Poesie a Beny, Einaudi, Torino 1971

Quale Vento ha coccolato il convento dalle torri bionde | al punto che è ancora a mezza costa chinato | sul suo fiume dai gluglu di voluttà nascoste | Per sfuggire al duro Simun cederà alle onde? || La sua muraglia impeccabile impone il mistero | con il suo portico pieno di stelle in pieno giorno | e le sue ogive d'oro da dove cade uno sguardo pesante | sui ladroni che fa impazzire un puro tesoro di carne || Io sono il pellegrino che lecca nel bosco scuro | un po' di luna all'acqua condita di scorza | con la fame bruciata che l'infinto innesca || E ti grido con la mano a megafono alla bocca | ecco la chiave che trova la tua castità fiera | la chiave o pistola per salvarti dall'Ombra.
[traduzione di Vera Dridso]

Cara amica,
stasera ho fame e vorrei addentare la tua carne, ma tu non ci sei; allora mordo la mia mano, ma no, non è la stessa cosa. Lo specchio vorrebbe cancellare la mia immagine e proporti qui davanti (o dietro, ovunque da te accerchiato), nel momento in cui due corpi si aprono a se stessi, si concedono, intercedono, commistionano, confondono e non si capisce più quale cosa siamo e si vorrebbe che tutto non avesse fine. Ma la fine ci fu, tra noi, amica, e mi dispiacque perché il nostro fu uno scambio quasi alla pari, senza disavanzo di bilancio. Ciò che mi davi io prendevo e viceversa, mangiare bere dormire, sognare forse, anzi no: certamente. E tutto era esistenza, anche le parole. Parole che non pronunciavamo ma che affidavamo alle pagine di un quaderno improvvisato a diario della nostra muta conversazione, quasi come se la voce ci servisse solo per sospirare. Ci scrivevamo in presenza, telegrafando direttamente sui nostri corpi, messaggi che ancora oggi leggo, come fossero stati tatuati. Per questo mi sovvieni in questo marzo, in questa finta primavera, in questo mese in cui non volevo svegliarmi, ricordi (io che facevo della tua pancia il mio cuscino), quando mi dicesti – Parto, devo andare, la terra mi scivola sotto i piedi e tu non mi appartieni. Eppure credevo tanto di essere tuo, credevo che conoscere una donna volesse dire questo: diventare il suo aggettivo possessivo. Ma la grammatica dell'amore conosce altre regole e io, allora, ero fermo a quelle elementari, a quelle che non conoscono l'astrazione e il linguaggio delle stelle. I segnali dello spazio sono quelli che meglio orientano e  danno l'impressione che l'infinito risieda in un abbraccio che ci sciolga nel tempo e nello spazio e non ci leghi al tempo e allo spazio. E adesso piova pure questo marzo, questa primavera che ci coglie fuori senza ombrello; ci bagni pure, non fa niente: non penseremo certo alle nostre lacrime, ma a un altro tipo d'eau assaisonnée d'ecorce.

Il dialogo nel 2011



- Cos'è la famiglia?
- È l'atto sessuale praticato con un cadavere.

- Cos'è il surrealismo?
- È la morte dei secoli che proietta un'ombra lunghissima sotto l'acqua del sogno.

- Cos'è la pazzia?
- È la base di tutti i paesaggi.

- Cos'è il sogno?
- È una fiamma oscurata dal desiderio represso.

- Cos'è la patria?
- È una cosa senza soluzione.

- Sei donna?
- Sì.

- Perché?
- Perché è utile.

Carlos Calvet, Màrio Henrique Leira, in AA.VV., La parola interdetta. Poeti surrealisti portoghesi, Einaudi, Torino 1971 (a cura di Antonio Tabucchi).

N.B. 
In verità il titolo della poesia è Il dialogo nel 1948.

venerdì 4 marzo 2011

Smile

Immagine via Andrew Sullivan 


Aux armes, aux larmes


Sono da poco le sette pomeridiane e scrivo questo post senza aver ancora letto alcuna notizia, alcun giornale, ascoltato nessuna radio, visto alcuna televisione. Non ho aperto la posta né il mio reader, e sono qui a scrivere pressoché glabro delle pelose interferenze quotidiane mediatiche. A tu per tu col mio racconto, lo rifiuto. Lungo il tragitto casa-lavoro-casa ho fissato insistentemente le secche, resistenti foglie dei cerri, così ostinate a non voler cedere spazio alla nuova chioma. La vita di cartapesta, privata d'umido, è più difficile a decomporsi. Potresti prenderne un ramo, metterlo in un vaso del soggiorno e osservare che dura anni così, intatto. Berlusconi resiste perché è già morto e nessuno se ne è accorto. È un impagliato, svuotato delle viscere, soprattutto del tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia. Madonna che tarlo. Perfino le feuilles mortes mi fanno pensare a Lui. Sono del 49% degli italiani che lo detesta? Non so, preferirei essere parte di quell'1% che lo decolla. Aux armes et cætera. 

giovedì 3 marzo 2011

A proposito di mattoni, case ecc.

«Nel 1849, compiuti i ventun anni e diventato elettore, ero in grave imbarazzo: dovevo infatti eleggere quindici o venti deputati e, per di più, secondo l'uso francese, dovevo non solo scegliere degli uomini, ma anche optare fra diverse teorie. Mi si proponeva di essere monarchico o repubblicano, democratico o conservatore, socialista o bonapartista: io non ero niente di tutto ciò, e nemmeno niente di niente, e talvolta invidiavo tanta gente convinta che aveva la fortuna di essere qualche cosa. Dopo avere ascoltato le diverse dottrine, dovetti riconoscere che nella mia testa c'era sicuramente una lacuna. Motivi che erano validi per altri non lo erano per me: non riuscivo a capire come in politica ci si potesse decidere sulla base delle proprie preferenze. Tutti quei signori così sicuri di sé costruivano una costituzione alla stessa maniera di una casa, secondo il progetto più bello, più nuovo o più semplice, e ve ne erano parecchi allo studio, palazzo di marchesi, casa di borghesi, alloggio di operai, caserma di militari, falansterio di comunisti e perfino accampamento di selvaggi. Ciascuno diceva del proprio modello: “Ecco la vera dimora dell'uomo, la sola che un uomo di buon senso possa abitare”. Il mio buon senso, invece, mi diceva che l'argomento era debole: i gusti personali non mi sembravano delle autorità. Pensavo che una casa non dovrebbe essere fatta per l'architetto, e nemmeno per se stessa, ma per il proprietario che va ad abitarci. – E domandare l'opinione del proprietario, sottomettere cioè al popolo francese i progetti della sua futura abitazione, era troppo visibilmente una finzione o un inganno: in casi del genere la domanda determina sempre la risposta e, d'altronde, anche se questa risposta fosse stata libera, la Francia non era certo più di me in grado di darla; dieci milioni di ignoranti non fanno un sapiente. Un popolo consultato può, a rigore, dire quale forma di governo gli piaccia, ma non quale sia quella di cui ha bisogno; lo saprà solo al momento in cui la proverà; gli ci vuole del tempo per verificare se la sua casa politica è comoda, solida, capace di resistere alle intemperie, appropriata ai suoi costumi, alle sue occupazioni, al suo carattere, alle sue peculiarità, alle sue impennate».
Hippolyte Taine, Le origini della Francia contemporanea. L'Antico Regime, Adelphi, Milano 1986 a cura di Piero Bertolucci (“Prefazione”, pag. 45-46).

Alla maggioranza relativa degli elettori italiani è piaciuto, per tre volte, Silvio Berlusconi; adesso essa è a buon punto per poter dire se la "casa politica" da lui creata è «comoda, solida, capace di resistere alle intemperie, appropriata ai suoi costumi, al suo carattere, alle sue peculiarità, alle sue impennate». Io direi di sì, soprattutto a quest'ultime.

Rap bloggeristico

Jitish Kallat's "Public Notice 2"
Allora, per molti blogger (perlomeno per me) funziona così (generalmente così): per non subire del tutto passivamente la realtà (meglio: la rappresentazione della stessa), si cerca in qualche modo di nutrirsene masticandola, digerendola, assimilandola, evacuandola. Molte notizie danno il vomito e vabbe'. Per il resto scriviamo – oltre che, marginalmente, della nostra “realtà” personale – di come altri scrittori*, di vario genere e tipo (dilettanti o professionisti), hanno assimilato, evacuato o vomitato la stessa realtà, e in questo caso ci alimentiamo come quei cuccioli di animale che si nutrono dei pasti già masticati e quasi digeriti dai loro genitori. Niente di male in tutto questo, anzi. A volte trovare i pasti già parzialmente manducati o quasi digeriti aiuta molto il nostro compito.
Ci sono giorni in cui siamo più reattivi, altri meno. Oggi per esempio non viene in mente niente. O almeno così credevo. Sono usciti questi versi meteoropatici.

Cazzo marzo cosa fai
mi vieni incontro
con sto freddo come schiaffo
mi tormenti, mi trattieni
come fossi imprigionato
dentro al cesso.
Tira vento non ti accorgi
che tra poco
questo sole avrebbe voglia di elezioni
di zelanti erezioni senza velo.
In questo gioco a somma zero
tu impedisci a primavera di vuotare
di dire che questa nazione
un tempo dichiarata furba
per tornare culla del pensiero
avrebbe bisogno di una purga.

*Va da sé che i bloggers sono inclusi.

P.S.
Dimenticavo di dire che il titolo (e quanto scritto) è liberamente ispirato al brano di F.F.

mercoledì 2 marzo 2011

Il tempo sudicio

Ci sono giorni che odio
Come insulti cui non posso rispondere
Senza il pericolo di una intimità crudele
Con la mano che lancia il pus
Che lavora al servizio dell'infezione

Sono giorni che non avrebbero mai dovuto uscire
Dal cattivo tempo fisso
Che ci sfida dalla parete
Giorni che ci insultano che ci buttano
I sassi della paura i vetri della menzogna
Le monetine dell'umiliazione

Giorni o finestre sopra lo stagno
Che si specchia nel cielo
Giorni del giorno-per-giorno
Treni che portano il sonno a brontolare verso il lavoro
Il sonno centenario
Malvestito malnutrito
Verso il lavoro
La martellata int esta
La piccola morte maliziosa
Che nella spirale delle sirene
Si nasconde e fischia

Giorni che ho passato nelle fogne dei sogni
Dove il sordido dà la mano al sublime
Dove ho visto quanto è necessario dove ho imparato
Che solo fra gli uomini e per essi
Vale la pena di sognare

Alexandre O'Neill, Nel Regno di Danimarca, 1958, in AA.VV., La parola interdetta. Poeti surrealisti portoghesi, Einaudi, Torino 1971 (a cura di Antonio Tabucchi).



Tra quindici giorni si festeggerà ufficialmente il centocinquantenario dell'Unità d'Italia. Spero che quel giorno, sul palco delle autorità (mentre sfileranno le forze armate e le frecce tricolore), venga ricordato questo sudicio 2 marzo 2011.
Cospargete la strada di vomito: i fiori gettati resteranno ivi incollati, tanto che il vento forte di marzo non li spazzerà via. Il vomito è un buon segno, un segno d'amore: come se si fosse incinti di questa fottuta Italia, che ci tradisce quasi sempre con sorridenti figli di puttana che la trascinano nel loro infimo tornaconto. Vomitare fa bene, marzo aiuta, la luna pure. È necessario rigettare il sudicio che quotidianamente ci gettano addosso. Lo so, si sta male a farlo. Ma pensate al dopo. Un po' di citrosodina, un bel rutto interno (come il ministro) e il sudiciume sarà digerito. 
Ogni sorriso è polvere, anche il mio. Abituato com'è a posarsi senza tregua sulle cose, il mio sorriso si augura di «aver imparato che solo fra gli uomini e per essi vale la pena di sognare».

Poveri, Noi


Nonostante questa conclamata povertà che ci riguarda, io mi sento meglio stamani, più povero e più bello, perché c'è qualcuno che la pensa tale povertà, che la dice - e come la dice - spiegandone cause e fenomeni. Grazie a Marco Revelli

«Io, prima di cercare un nuovo Marx, cercherei un nuovo Ulisse, un nuovo Omero, un nuovo viaggiatore nell'iperspazio globalizzato, che sappia ricapitolare il senso di ciò che avviene» [vedi video "Quali idee per il futuro" (2'10'')].

martedì 1 marzo 2011

Se mi prendessero i nostri nemici


Se mi prendessero i nostri nemici
e gli uomini smettessero di rivolgermi la parola;
se mi privassero di ogni cosa al mondo,
del diritto di respirare e di aprire le porte
e di ripetere che ci sarà la vita
e che è il popolo giudice che giudica;
se osassero tenermi come un animale
e per terra mi gettassero il cibo
non resterò in silenzio, non trangugerò il dolore,
ma traccerò dei segni a mio piacere
e suonando a stormo il corpo nudo
e destando l'angolo della tenebra ostile
aggiogherò dieci buoi alla mia voce
e spingerò la mano nel buio come un aratro
e stretto in un mare di occhi fraterni
cadrò con la pesantezza di un intero raccolto,
con la concisione di un giuramento che prorompe lontano,
e nella profondità della notte di guardia
avvamperanno gli occhi della terra manovale,
balenerà lo stormo degli anni fiammeggianti,
come cieca tempesta Lenin fruscerà,
ma sulla terra scampata allo sfacelo
Stalin distruggerà ragione e vita.

Osip Mandel'štam, 1937.
In Nadežda Mandel'štam, Le mie memorie, Garzanti, Milano 1972 (traduzione di Serana Vitale).

Quando un poeta scrive, quali che siano le sue condizioni di vita e di pensiero, scrive non solo per i suoi contemporanei, ma anche per i lettori futuri, senza sapere bene, è chiaro, quali corde del cuore toccheranno i suoi versi. Bene, questa poesia fu scritta da Osip Mandel'štam un anno prima della sua morte in un gulug siberiano. Noi lettori italiani che abbiamo la fortuna di abitare un mondo e una nazione libera e democratica, nell'atto di ricordare gli orrori del totalitarismo comunista staliniano, dobbiamo altresì trasferire questi versi sulla nostra pelle e leggerli pensando a cosa accadrebbe se venisse approvata una legge che imponga un trattamento sanitario obbligatorio. Non so perché, ma ho la presunzione di ritenere che Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro avrebbero gradito pronunciare questi versi. 

Canzone per Piero (non Ostellino)