Ebbi un motivo di preoccupazione; lo fischiettai, intonato, accompagnato dagli zirli di alcuni tordi sopravvenuti intorno casa, e lo feci sparire, nell'aere, similmente agli steli del tarassaco che s'involano soffiati dal vento, impavidi e speranzosi di attecchire là dove si posano, leggeri, mordidi, a vellutare l'irsuto prato o la spinosa sterpaglia. E, finalmente, il motivo di preoccupazione sparì d'incanto e per questo mi misi a cantare It's five o'clock nella versione di Battiato, più consona alla mio timido sottovoce, terribilmente stonato. Eppure seppi che lei, in in quel preciso istante, mi stava pensando e io moltiplicai i miei pensieri senza concentrarli nella sola direzione della nostalgia del tempo perduto, non sarebbe servito, non sarei avanzato, non avrei ottenuto alcuna promozione nel campo della vita che scorre, prova a fermarla se ci riesci. E, dunque, mi risolvetti a credere che, oltre pensarmi, lei mi stesse ascoltando; e per questo continuai a cantare con gli occhi velati di quelle lacrime che sono della gioia il simulacro. Sono questi i momenti in cui l'emisfero deputato alle emozioni si incarica di far scorrere su e giù lungo il nostro corpo stupefatto, rappreso, semi anestetizzato, frammenti di felicità. E si osa credere alla vita. O meglio: a credere che da tutta la serie di puntini che compongono la vita stessa qualcosa di sensato apparirà, foss'anche lo stesso sorriso che ci faceva da specchio, come neuroni moltiplicati e condivisi che davano senso alla parola amore.
Nessun commento:
Posta un commento