sabato 31 dicembre 2016

Un'inezia della mente

Pantomima terrestre

…auprès de margelles dont on a soustrait

les puits.
René Char

Ma senti – dice – che meraviglia quel cip sulle piante
di ramo in ramo come se il poker continuasse all’aperto:
dimmi se non è stupenda la vita.
Chiaro che cerca di prendermi per il mio verso.
Vorrei rispondergli con un’inezia della mente
un’altra delle mie tra le tante
(gente screziata di luna, per porticati
e uno attorno tra loro, dall’uno all’altro:
assaggiate questa fresca delizia).
Certo, – rispondo invece – è stupenda. Vuoi testimoni?
Prove per assurdo? Controprove?
Eccoti di giorno in giorno la mia acredine
la mia insofferenza di gente in gente
(ma queste brezze tra le secche e le rapide
tra i diluvi e le requie dell’essere questi balsami…)
Pare bastargli: ma dunque (benedicente, bonario)
ma allora, coraggio!
_____________Per giravolte di scale
va su col suo coraggio.
_______________Parli – gli grido dietro –
come un credente di non importa che fede.
E lui per rami di scale, mezza faccia già disfatta
mezza in ombra, canzonandomi con parole d’autore: ¿le gusta
este jardin que es suyo? Evite…

dal basso gli completo la frase: que sus hijos lo destruyan
rifacendogli il verso.
Ma se è già guasto, con queste stesse mani:
e tu chi sei tu così avanti sulla scala del giudizio
e del valore, dillo ai tuoi discepoli e seguaci
ai tuoi consoci, vengano a questi bicchieri
di delizia a questi apparati di fresco
ma in comunione ma tutti ma in una volta sola.
È rimasta una chiazza una pozza di luce
non convinta di sé un pozzo di lavoro con attorno
un girotondo di prigionieri (dicono) sulla parola:
sanno di un bagliore che verrà
con dentro, a catena, tutti i colori della vita
– e sarà insostenibile.
Sembra allora di capirlo a che si ostinano
dove puntano che cosa vogliono o non vogliono
che cosa negano che scappatoie infilano
i motori nella giostra serale
con quelli che fingono a ogni giro di andare via per sempre
con quelli che fingono a ogni giro di arrivare
dentro un paese nuovo per cominciare ex novo
– e i primi lampi
___________lo scroscio sulle foglie
                                                         l’insensatezza estiva.

Vittorio Sereni, Gli strumenti umani, Einaudi, Torino 1975

Innanzitutto segnalo questa notevole lettura della poesia.
E poi, se qualcuno chiedesse «se non è stupenda la vita» spero di aver la prontezza di «rispondergli con un'inezia della mente / un'altra delle mie tra le tante».
Buon anno.

venerdì 30 dicembre 2016

Il messo (15)

«Quante cazzate», pensò Lorena, a voce un po’ troppo alta. 
Quarantotto anni, ma chi c'avrebbe creduto se, con malcelato orgoglio, non l'avesse detto, Lorena aveva una grazia naturale e una sensualità che neanche un pigiama irge con l'elastico rotto sarebbe riuscito a nascondere. Lunghi capelli rossi e ricci nei quali soltanto a un'attenta analisi potevi intravvedere qualche filo argentato; un fisico estremamente tonico ma, al contempo, armonioso, che raggiungeva la sua sintesi perfetta nel fondoschiena; unico difetto, se si poteva chiamare tale, era il naso leggermente ricurvo che tuttavia le conferiva un fascino rinascimentale.

Il messo la ricordava bene: tre lustri prima d'allora, una sera in pizzeria, un compleanno di un amico lui, lei sola, stranamente sola al tavolo (seppe poi che era la sera del suo primo divorzio), i suoi occhi caddero su di lui e viceversa i suoi su di lei, sorrisi, boccali di birra che si levano a distanza ma nello stesso momento a sorseggiare la medesima, amarissima, birra alla spina, lei che si alza, la minigonna nera e i collant che misericordia, e lui, il messo che si alza e come lei va in bagno, anticamera di separazione tra signori e signore, lo specchio, un grande specchio, i lavandini con il rubinetto a pressione del piede, lei coi tacchi che non sa bene far uscire l'acqua, provvidenziali polacchine dal plantare largo lui, sorrisi, lei: «Conosco tuo fratello», lui: «Non importa», lei «Lo sai che hai un bel sorriso?», e lui «Sei sola, bevi qualcosa?», lei: «No, preferisco uscire», lui: «Se vuoi ti accompagno, ho qui la macchina», lei: «Va bene», sportelli che chiudono, «Sai conosco tuo fratello? Siamo stati scuola insieme io e lui», e lui, tra sé: «Che cazzo me ne frega di mio fratello», a lei «Ah sì? Non importa. Sai che mentre bevevi quella birra e io bevevo la mia, pensavo a una cosa», e lei: «Ah sì? A che cosa?», e lui: «Se un bacio può far sparire l'amaro».

Perché era lì Lorena? Quali risposte cercava, quali dilemmi esistenziali era in animo di affrontare ed eventualmente risolvere? La morte di suo padre l'aveva situata in una condizione inedita: occuparsi di sé, dover provvedere a se stessa alla sua età. A parte una casa vacanza in una stazione climatica, a Lorena restava ben poco con cui poter vivere. La vendette, ma i soldi del realizzo furono sufficienti per un paio d'anni per tirare avanti, dopodiché fu costretta a ricordarsi del suo diploma di maestra, fare domanda al provveditorato per entrare in graduatoria per le supplenze e, appunto, andare a lavorare. Scuola dell'infanzia, ex asilo. Ma lavorare stanca. Tre giorni e tre capelli bianchi. Un semestre e i primi sintomi di menopausa. Non sapeva come uscirne. Nondimeno, era l'unico modo al momento che conosceva per sussistere. Esistere era un'altra cosa. L'unica figlia che aveva avuto dal primo matrimonio, oramai maggiorenne, la guardava oramai con la pena di un figlio che, in un certo senso, più che altro si vergogna di quello che la madre è diventata. «Non mi guardare con quella faccia, ti prego», le diceva. «Non ti guardo, mamma, non ti guardo, perché se ti guardo la prossima settimana non vengo, resto da mio padre».


giovedì 29 dicembre 2016

È stato ospite

[*]
Per via indiretta, tramite una citazione estratta da un post di Agnès Giard (Des guêpes mâle folles d'une fleur) e incuriosito dall'argomento, ho comprato il suddetto libro di Stefano Mancuso, scienziato di fama mondiale, una delle massime autorità nel campo della neurobiologia vegetale.
Orbene, il libro è godibilissimo, straordinarie le prime due biografie (George Washington Carver, primo schiavo nero americano a conseguire una laurea negli USA nel 1894 e Nikolaj Ivanovic Vavilov grande genetista agrario al quale Lenin conferì i più prestigiosi incarichi accademici e che poi Stalin, convinto da quel ciarlatano di Lysenko, condannò al gulag).

Unica pecca del libro è nell'aletta posteriore o terza di copertina, nella quale, oltre a citare i meriti accademici dell'autore, 


si segnala anche questa roba.


Egregio professor Mancuso, mi scusi: da un punto di vista agronomico definirlo guano è improprio?

mercoledì 28 dicembre 2016

Il messo (14)

Non c'è soddisfazione a essere innamorati di qualcuno/a che probabilmente non si innamorerà mai di voi tanto quanto voi vi siete innamorati di lui/lei.
E ho detto “tanto quanto”, ma è anche troppo, basterebbe meno, una percentuale minima, poniamo un terzo di quanto voi provate lo possa nutrire anche l'altro/a.
Quando accade è un tripudio dei sensi e dell'intelligenza, una festa della vita, un momento di felicità insindacabile, le stelle diventano significanti e persino le pietre e le cavolaie. Tutto quello che c'è da conoscere è riassunto in un unico punto, nella sola persona che in quegli attimi ti vivifica (attimi che altrimenti vivi un cazzo sarebbero).

Se invece non succede e il vostro amore resta a senso unico, o sarà come a parlare a un muro di marmo finto su cui si infrangono le sillabe del vostro balbo parlare (sillabe che cadranno tutte in terra, come frammenti di vetro colorato), oppure ne sarete in completa balia se costui (o costei) ne intenderà approfittare. E costui, cioè lui, Walter, il pentito, se ne approfittò, eccome se se ne approfittò. Giacché gli fu subito evidente che il peso specifico del mio amore fosse superiore al suo, lui agì di conseguenza e di conserva, come un tubetto di concentrato in mano a un tirchio dura un anno a forza di mezze unghie rosse aggiunte al sugo scipito - e quel nonnulla che mi dava mi pareva così tanto, che adesso il tutto che promette mi pare niente.

E così caddi, come una morta di sonno cade, più che tra le sue braccia, tra i suoi debiti e i suoi scongiuri. Non ebbi molto tempo per riflettere e difendermi: due gravidanze a raffica – e nemmeno troppo facili – mi tennero corpo e mente accesi giusto il necessario per diffondere la specie. Meno la male la mia famiglia mi ha costantemente sostenuto, il che implicava sostenere persino lui. Mio padre... Ricordo che mai disse una parola per metterlo in cattiva luce ai miei occhi, neanche quando gli comunicai l'intenzione del divorzio; contrasse giusto un po' le labbra, si schiarì la voce da un'improbabile raucedine, e si avviò verso la tromba delle scale. Solo quando chiusi la porta dietro le sue spalle e osai mettere occhio nello spioncino, lo vidi esultare a braccia levate.


Perché sono qui insieme a Walter allora se non intendo assolutamente venire incontro alle sue richieste? Per ribadirlo con più forza davanti a lui e a voi che conosco da poche ore e che in un certo senso sarete la nostra giuria. Già, un gruppo che certifichi - come io credo e spero - la fine definitiva di un amore, che la avalli emettendo una sentenza che faccia letteratura. Letteratura d'appendice, beninteso.

martedì 27 dicembre 2016

Una storiaccia italiana

Alcuni anni fa il Monte dei Paschi di Siena si faceva pubblicità utilizzando una canzone di Paolo Conte, Gli impermeabili.


Dato che, da un po' di tempo, piove poco bene sui paschi senesi, suggerirei d'investire gli ultimi spiccioli destinati alla promozione del marchio in un nuovo spot, che abbia, come colonna sonora, un'altra canzone di Paolo Conte, La ricostruzione del Mocambo.


Anche se il curatore (che di sicuro non è un buon diavolo) difficilmente offrirà un caffè. 

lunedì 26 dicembre 2016

Il messo (13)

«Perché sono qui? Mah... Ho smesso di bere, sono riuscito a liberarmi dall'alcol, a disintossicarmi grazie all'aiuto del gruppo AA e del Campral. Ecco: forse sono qui perché vorrei capire se, raggiunto questo obbiettivo, questa calma, questa vita di carciofi lessi succhi freschi e a letto presto addormentato con una penna in mano che tenta di riempire le caselle di un teatro giapponese, capire insomma, grazie questo gruppo radunato qui per vari motivi, se posso chiederle perdono, a lei che ho fatto di tutto per allontanare dalla mia vita, complicandogliela a non finire, trascinandola dentro la mia dipendenza, le mie pretese assurde, il mio sconfinato egocentrismo».

Era Walter a parlare. Dopo la chiusura del ristorante macrobiotico di cui era stato titolare, aveva vissuto (mangiato e bevuto) per due anni – felicemente, sembrava – all'incontrario di come si era imposto di vivere nei precedenti cinque: dopo il matrimonio con Paola, abbracciò il rigore alimentare della dieta Ohsawa, aprì appunto il ristorante (grazie ai soldi di lei) ed ebbe un discreto successo, ma poi, di colpo, il declino: un'ispezione sanitaria che notificò delle irregolarità nello stoccaggio e nella somministrazione degli alimenti, unito alla perdita graduale della clientela, lo portarono inevitabilmente alla chiusura dell'esercizio. Spiazzato e senza prospettive, cadde in una profonda depressione; la moglie chiese e ottenne la separazione e lui abbracciò il gusto del Pampero – cosa, quest'ultima, che lo precipitò, bicchiere dopo bicchiere, ai confini dell'estremo Yin.

Fu in tale stato che raccolse un seme del suo opposto, lo Yang, e con esso la forza di ritrovare stabilità ed equilibrio. In capo a pochi mesi – divenuto responsabile agli acquisti per la catena di supermercati Natura Forse – aveva in animo di chiedere a sua moglie di tornare insieme. Ma come? Lei aveva sempre rifiutato di ascoltarlo, ma questa volta non aveva potuto negarsi, dato che era lì, a testa bassa, ma lì.

domenica 25 dicembre 2016

Il messo (12)

«Mi ricordo – ma forse mi ricordo male – una sera di Natale, su per giù intorno ai venti, ventidue anni, mi ritrovai solo in casa, semisdraiato su un divano rivestito da una tela chiara sulla quale erano tinteggiati dei fiori, forse rose dai lunghi gambi verdi pieni di spine – e io mi punsi – e piansi, sì, mi ricordo che quella sera piansi, per cosa non mi ricordo bene, non credo che Gesù c'entrasse molto, forse un amore andato a male come una banana di tre giorni sopra un termosifone, tutta nera, che se la butti nella spazzatura sovrasta tutti gli odori, ho detto odori per tenerezza di quell'amore, meno di me stesso, che mi sto inventando una ragione per la quale mi ritrovai a piangere, perché io mi ricordo bene il pianto, meno il movente, l'amore che va a male di solito fa piangere, è un pretesto, più probabilmente era la solitudine, ma neanche, il clima natalizio, ovviamente, la finzione atmosferica, le tipiche trasmissioni televisive natalizie, le musichette, il suono delle campane delle chiese, l'amore per mia madre che non riusciva a staccarsi da mia madre, a decollare, io decollato, staccato come ombra da terra dalla famiglia pur non volando, io che non ho mai capito a fondo l'attaccamento alla tradizione, così soffocante, così pretenzioso, irrispettoso degli umori e degli amori, costringente, e forse la vera ragione per cui piangevo era che non riuscivo, come adesso, a parteciparvi con un minimo di convinzione, a predisporre l'animo al flusso della convenzione – e ho trovato tutto questo sempre poco conveniente, poco confacente, non mi si confà neanche adesso, ma faccio poche storie, forse perché a piangere son diventato duro, perché il divano non è a fiori, gli anni sono raddoppiati e non lascio più banane sul radiatore, le mangio subito».

Così Giampiero, tutto d'un fiato, si presentò agli altri, concludendo con un sorriso disteso, come quello che comunemente si nota nelle persone che non hanno più niente da nascondere. Consulente aziendale e capo area di una nota casa farmaceutica, dopo pochi anni di matrimonio, una coppia di gemelli e la voglia di sparire, aveva confessato alla moglie la propria omosessualità e lei, forse perché lo amava, forse perché aveva fatto uno più uno, non l'aveva buttato fuori casa (in pratica, per lavoro, era fuori casa almeno otto mesi all'anno), gli aveva chiesto soltanto di attendere a rivelare ai figli la propria “diversità” almeno finché non fossero stati grandi (e il problema, tra loro, era stabilire a che età lo sarebbero diventati). Lui, perché in fondo le voleva bene, aveva accettato l'accordo ma viveva adesso un momento di crisi perché i bambini facevano la quinta elementare e lui non voleva loro nascondere più niente, sopratutto temeva che avessero saputo di rinterzo qualcosa che avrebbe trasformato la fiducia filiale in una profonda delusione.

venerdì 23 dicembre 2016

Mamma guarda sono in tv


Seguo con poca attenzione le dinamiche giornalistiche, per cui mi posso sbagliare dicendo che i quotidiani esteri, diversamente dalla stampa italiana, ad ogni evento di un certo peso mediatico che riguarda la nazione, non si peritano di pubblicare la più provinciale (in senso denigratorio) delle rubriche che è quella di mostrare, con copiose immagini, come i siti stranieri, anche quelli turchi, o coreani, o cinesi si occupano della notizia. Ma chi davvero è interessato a sapere come il Berliner Morgenpost, o il Telegraph, o Usa Today, o il Jornal do Brasil, o El Mundo, o Le Figaro, o il Vancouver Sun posizionano sul loro sito la notizia del fatto occorso a Sesto San Giovanni? 
È probabile che l'intento dei nostri quotidiani online non sia tanto documentare le altrui opinioni, bensì serva a instillare nel pubblico un orgoglio patrio fuori luogo, perché è davvero puerile compiacersi delle attenzioni altrui pubblicamente; ed è altresì penoso andare fieri d'aver raggiunto una copertura mediatica globale per un fatto che, tutto sommato, dovrebbe essere destinato tra i trafiletti di cronoca nera (meno male le facce selfate dei polizziotti con due zeta, mentre fanno il segno di vittoria accanto al collega disteso sul letto di ospedale, sono state poco o punto riprodotte dalla stampa estera, forse perché hanno più rispetto loro del nostro Paese di quanto ne abbiano i poeri giornalisti nostrani).

giovedì 22 dicembre 2016

Di cosa parliamo quando parliamo di letteratura.

Sono infilato dentro una Feltrinelli e c'era tanta gente che faceva di tutto fuorché leggere: mangiare, bere un cappuccino, ascoltare musica, grattarsi un orecchio con la punta di un lapis Ikea ritrovato casualmente in tasca, riscaldarsi, sbadigliare, fare la fila alla cassa, ma neanche un cristo con un libro aperto - e in mezzo a tanta sfiducia nel genere letterario ho preso un Carver a caso e l'ho ingoiato intero come un pellicano.
Una giovane ragazza dai capelli allegri e gli occhi tristi mi ha guardato prima sorpresa poi compiaciuta e mi ha detto: «Eh, meglio codesto che un McChicken». Dato che non si parla con la roba in bocca, non ho risposto, bensì annuito e le ho fatto altresì capire a cenni che, se voleva favorire, ancora qualche copia bella fresca di stampa c'era. Ma ha declinato: «Ancora credo nell'amore, nonostante quello stronzo del mio ragazzo faccia di tutto per non farmici credere». Avrei potuto dirle: «Dagli retta», ma non ho voluto, in fondo la letteratura nasce dalle circostanze, lo sguardo di una donna, per esempio, che ti tiene sospeso tra la terra e il cielo, a mezz'aria, in una condizione in cui è facile presentire l'oltre, ma quale oltre, il qui, ma quale qui, l'ora, eccola, e sia.
È in tale stato di grazia che può accadere di tutto, anche di salire sopra un treno sbagliato dove ti addormenti per digerire quello che hai letto, voglio dire quello che hai mangiato, quello che è entrato a far parte di te con un semplice scorrere dita tra le pagine. Poi quando ti svegli e ti accorgi che sei arrivato nella stazione sbagliata, capisci l'ovvio, che ciò che conta è il viaggio, ossia raccontarsi, anche lasciando i discorsi a mezzo, ogni volta ripresi ripartendo da quel punto nello spazio (una stella?) dove abbiamo lasciato appeso il filo del discorso.

mercoledì 21 dicembre 2016

A targhe alterne

A giorni alterni lascio traccia di me stesso sugli specchi delle vetrine natalizie per mera suggestione di colorito facciale, essendo il grigio del cielo poco adatto a conferire all'umore quella stabilità che occorre per mantenere corretti rapporti umani, all'insegna della pacatezza, della riflessione, della disposizione a non mandare affanculo il prossimo qualora sembrasse necessario essere mandato, bensì mi limito ad alzare le spalle, arcuare le sopracciglia e disporre il volto arlecchinato dalle lampadine a led a guisa di chi ha capito con chi ha a che fare e che quindi non importa buttare fuori imprecazioni invano, culi e cazzi a sproposito, lasciarli al loro posto, nelle sedi deputate, congressi di partito in special modo. 
Ingoio, ma relativamente. Piuttosto volgo le labbra al riso, e faccio fuoriuscire dai denti un sibilo leggero, soave, uno sbuffo: e la rabbia vanisce, o meglio: non ha luogo, ché arrabbiarsi sottende un umore maldisposto in partenza e io sono partito benissimo, fatto barba, unto come un melograno di argano, e via, fresco e profumato di lavanda. Maniere semplici per resistere.

lunedì 19 dicembre 2016

Il messo (11)

«Trova un modo per cui io non abbia più bisogno di te, un modo per allontanarmi e liberarti, incamminarti, questa volta da sola, senza che io sia più la tua ombra, il tuo freno, il tuo sacrificio. Sacrificami, ti prego, lasciami andare: non sopporto più il contrario, che sia tu sacrificata, tu la vittima e io, in un certo senso, il carnefice. Voglio soltanto che tu possa ancora volermi bene senza obblighi filiali che tengano, andando via, via da me, via da questa situazione. Se tua madre vedesse quanta vita mi hai donato, mi maledirebbe e io non posso più tollerare questo. Vai, dunque, lasciami al mio destino. E se il senso di colpa o di dovere avrà la meglio, sarò io a scioglierlo con la varichina».

«Babbo, babbino: preferisci l'Ace o quella della Coop?».

Così rispose Valeria a suo padre, per tirarlo su, per fargli capire che era tutto a posto, lei aveva un lavoro che poteva permettersi di pagargli la retta della Residenza sanitaria assistita nella quale era ricoverato. Valeria era rimasta orfana di madre quando aveva appena sei anni e il padre non si era mai riaccompagnato cercando – riuscendoci – di fare del suo meglio. Lei sinceramente avrebbe desiderato stare più tempo accanto al padre, ma gli impegni erano tanti, la famiglia, il lavoro appunto, e quindi si limitava a una regolare visita nel fine settimana. E in quelle occasioni, regolarmente, il padre recitava la medesima pantomina di coloro che reclamano attenzione di rinterzo.
Il problema fu che la battuta di Valeria fu presa sul serio dal padre che, alla prima occasione in cui il personale delle pulizie lasciò incustodito lo sgabuzzino, vi si precipitò e si scolò un litro intero di varechina per uso professionale.

Per questo Valeria, come ulteriore tribunale della coscienza, si iscrisse al corso del prete, per sapere se in quel suo incauto invito vi fossero gli estremi esistenziali del parricidio.

domenica 18 dicembre 2016

Il messo (10)

C'è solo un modo per dire addio alla vita: morire. Ma quando indugiò per un'ultima volta allo specchio per salutarsi, Federico dette un pugno alla faccia, cioè allo specchio e la vita gli restò addosso, nonostante avesse previsto il contrario. Eppure era tutto pronto, il bagno pieno del vapore della vasca colma d'acqua calda, una lametta nuova di acciaio giapponese, Ok, Computer a palla nelle cuffie, i ricordi che si susseguivano sulla retina in sequenza confusa, i volti delle persone care e delle persone stronze, tutto. Era tutto pronto, sì, tranne il movente. Non aveva alcuna ragione concreta per morire, non certo il divorzio ormai passato in giudicato, non certo l'essere al momento disoccupato e sotto sfratto, non l'avere i genitori anziani e bisognosi di cure e assistenza. Uccidersi per fatica e per miseria non vale proprio la pena, si disse, considerato che fatica e miseria uccidono da sole. In realtà, Federico voleva morire perché non sopportava più di vivere in quella perenne condizione di non sapere mai esattamente che cosa volere – e non soltanto perché doveva necessariamente tenere a bada molti desideri che non poteva esaudire. Lui non aveva ancora capito che cosa ci stesse a fare nel mondo, ecco tutto. E nemmeno i figli, che da un anno non gli parlavano, gli sembravano rappresentare un motivo sufficiente. Negli ultimi tempi, gli capitava spesso di chiedere ai genitori anziani, ma ancora lucidi, se ricordavano perché lo avessero messo al mondo, se fu concepito volutamente oppure casualmente, e che cosa pensarono quando nacque, se furono soddisfatti di com'era oppure no. La madre gli disse sottovoce che suo padre avrebbe preferito una bambina, il padre le disse ma che dici volevo proprio lui. Federico concluse che non avrebbe mai saputo da loro quello che voleva, ma non aveva importanza, in fondo tutti i nati prima o poi si assumono da soli la responsabilità di esserlo.
Fu questo senso di responsabilità, forse, a trattenerlo. E mentre ricordava agli altri convenuti il momento in cui dispose la lametta nel rasoio di sicurezza e si fece la barba, tranquillo, Federico disse a tutti che era lì per quello, per evitare di ricadere nella trappola del niente che indebitamente ci si autoinfligge, nonostante a volte se ne abbiano tutte le ragioni.


venerdì 16 dicembre 2016

Tre etti di politica

Sentivo che c'era qualcosa che non andava. Mi sono pesato e ho constatato di aver perso almeno tre etti di passione politica. Allarmato, per due settimane ho ripreso a leggere tutte le notizie in merito, gli articoli dei vari Verderami, i fondi dei soliti Folli - tutti notisti politici scrupolosi e informatissimi - ma, ciò nonostante, neppure un grammo ho ripreso. Non assimilo più niente, non mi resta attaccata addosso neanche una frase collosa, da manifesto elettorale. Che sia intollerante alla politica? Nel caso: esistono test specifici che lo dimostrino, preferibilmente non invasivi? La chiropolitica è possibile a parte i soliti maneggi?

giovedì 15 dicembre 2016

Il messo (9)

L'università finì prima di quanto immaginasse. L'idea stessa di andare fuori corso le sembrava fuori luogo. Si laureò con una tesi su La ragazza Carla che le fece capire la sua esatta posizione nel mondo: conobbe un trentenne figlio di ricchi commercianti della capitale, gentile, carino, appassionato che la fece divertire e dimenticare il verso libero. Dopo un paio di mesi di frequentazione serrata, le chiese di andare a vivere con lui proprio un attimo prima che sua madre le dicesse quanto sarebbe stato meglio per lei non farselo scappare. In capo a un anno si sposò, stette bene un altro anno pure nel quale si avventurò persino nell'apertura di un negozio di profumi e creme di bellezza naturali, tutta roba di nicchia, che chiuse appena tre mesi dopo, felice, insieme alla porta dell'appartamento nel quale trovò il marito a letto con una sua ex compagna di liceo.
Benissimo Isabella, benissimo. Punto e a capo.
Ritornando a casa, più che sentirsi triste, provò come mai prima di allora un senso assoluto di libertà. Era finalmente lei - si diceva - e sorrideva da sola nel cammino. Aveva tante cose in mente da fare, senza urgenza, solo per il puro piacere di farle. Un vero e proprio anno sabbatico di piaceri si era programmato.
Fu a Dublino, nel ripercorrere da sola le strade di Leopold Bloom, ma soprattutto per ripetersi il monologo di Molly, che ebbe il primo segno che qualcosa stava cambiando. Si sentì male e fu ricoverata d'urgenza: emorragia uterina. Diagnosi: neoplasia.
Ritornò a casa e lì si rintanò, uscendo solo per le cure e sporadiche passeggiate solitarie o in compagnia dei genitori. Fu la madre a convincerla a partecipare al corso perché stimava il prete e sentiva parlare bene tutti dell'esperienza.
Di se stessa, presentandosi ai convenuti, raccontò soltanto che era una appassionata di teatro, un po' meno della vita perché in essa la parte che si recita è difficile, difficile da cambiare.

martedì 13 dicembre 2016

Il messo (8)

Isabella era una ragazza alta, bella, bella veramente. Portava spesso i capelli raccolti, trascurata eleganza di chi sapeva che, al momento di scioglierli, ben pochi si sarebbero distratti per perdersi tale spettacolo.
Figlia di un industriale della carta, aveva quindi sempre vissuto negli agi del capitale: buona famiglia, buoni amici, buone scuole, buono tutto, quasi a sfiorare l'optimus se non fosse stato per il suo animo inquieto, l'irragionevole passione per Camus e la costante voglia di contraddire quello che i suoi speravano un giorno sarebbe diventata.

Dopo il liceo, si era iscritta a lettere, più che altro per approfondire una passione, lei veramente sì senza intenzione di diventare un giorno insegnante per ripiego. Un semestre seguì il corso di Storia del teatro che prevedeva un seminario con un affermato autore e regista italiano, comprensivo di una tre giorni full immersion in un piccolo teatro di provincia per le prove e un agriturismo per il resto.
Ancora ricordava con piacere quella sera in cui lei, insieme ai suoi compagni del corso, si ritrovò allo stesso tavolo degli attori e del regista. Dato che provavano a mettere in scena gli Atti senza parole di Beckett, mangiarono tutti all'insegna del silenzio. Interrotto soltanto dal sibilo di un peto che qualcuno improvvidamente non seppe trattenere (e soltanto quando il regista rise, tutti gli altri, compreso il professore ordinario, risero). Così come ricordava la prima sera nell'unica camerata riservata agli studenti. A lei, che si era attardata a entrare in camera, toccò dividere l'unico letto matrimoniale, enorme, con un compagno di corso più giovane, impacciato e taciturno, sicuramente più soddisfatto di lei della prospettiva. Quando si infilarono dentro le lenzuola fredde e umide, il giovane timidamente le disse che era la prima volta dai tempi in cui andava a letto da piccolo con la madre, che non dormiva con una donna.
Isabella più che lusingata cominciò leggermente a preoccuparsi e come mossa di difesa, si distanziò nell'angolo del letto. Ma questo non bastò a farle prendere sonno; e come lei, neanche il giovane dormiva. Dopo una mezzoretta, forse per l'agitazione che entrambi giustamente percepivano nell'altro (oltre che in se stessi), il giovane ebbe l'ardire di chiederle: «Posso tenerti un gomito per addormentarmi?». Isabella, forse presa dalla pena per il giovane compagno, ma forse più perché le era preso freddo, rispose di sì e la prima ad addormentarsi fu lei.

[continua presentazione Isabella]